Il Papa e la lezione dei magi
Quel segno che svela
Marina Corradi
E mentre volge al termine l’arco delle feste, e i Magi hanno raggiunto la grotta, e si ripongono i presepi; mentre ricominciano i giorni ordinari e l’anno davanti un po’ ci turba con il suo tempo intonso, Benedetto XVI nell’omelia dell’Epifania si domanda: ma chi erano, che genere di uomini erano quei tre re, che inseguirono una stella? Non erano maghi o astrologhi che almanaccassero il futuro dalla lettura del cielo, ma erano, dice il Papa, uomini in ricerca: uomini certi che «nella creazione esiste quella che potremmo definire la “firma” di Dio, una firma che l’uomo può tentare di scoprire e decifrare».
Uomini sanamente inquieti, dunque, e non paghi della immediata apparenza delle cose; convinti che dietro questa apparenza, come in filigrana, stia un disegno, e non un caso. Certi che il Creatore può essere intravisto nel creato; e attenti, alacri, tenacemente in cammino dietro a ciò che intuivano esserne l’orma. Ti immagini quei tre in marcia da lontano, per montagne e deserti, in silenzio; forse di giorno incerti, quando il sole alto sembrava negare la realtà di ciò che andavano inseguendo; rinfrancati al tramonto nel ritrovare la loro stella, lucente nell’immenso cielo dell’Asia.
Ma, in cosa ci riguardano quei remoti sapienti incamminati verso un evento ignoto, tracciato nella trama delle Scritture ma misterioso e nascosto, tanto che i più degli uomini non se ne sarebbero accorti? Quegli uomini, ripete Benedetto, cercavano le tracce di Dio, «con gli occhi profondi della ragione alla ricerca del senso ultimo della realtà». Ciò che dovremmo fare noi; ciò che siamo stati disabituati a fare da un positivismo di cui siamo inconsapevolmente intrisi, per cui realtà è solo ciò che possiamo scientificamente misurare, sezionare, scomporre. Cosa sarebbe stata quella stella, in questa logica puramente scientista? Un fenomeno astronomico comunque analizzabile nella sua natura, e archiviabile. Nient’altro: ignorata la profonda natura di “segno”, e nessuno in cammino verso quella grotta.
I Magi, nel loro incerto andare, si rivolgono a Erode; e quello è preso dallo sgomento, all’idea di un re più potente di lui. Quel bambino va dunque soppresso, per restare il padrone del mondo. Ma non c’è forse qualcosa di Erode anche in noi?, chiede sommessamente il Papa. Noi, «ciechi davanti ai suoi segni, perché pensiamo che non ci permetta di disporre della esistenza a nostro piacimento».
Già, c’è un che di noi in Erode, il potente che sussulta al sentire della stella, e si affanna a annientare ciò di cui quella stella è segno. Ammettere Dio e un suo disegno riconoscibile nel creato, non è forse il detestabile limite alla totale autonomia dell’uomo, non è la lotta di una modernità che si pretende libera e completamente artefice del suo destino?
Ma quei tre, tenaci a inseguire, per tenebre e deserti, il segno. Certi, come per un’originaria memoria, che un Dio ha lasciato la sua firma nell’universo. Nelle stelle e anche nella umile quotidianità con cui ci si palesa la natura, il corso delle stagioni e della vita. La natura che, come disse san Tommaso, è “arte divina insita nelle cose”: per cui la materia, che non ha conoscenza, tende a raggiungere ciò che è vitale non per caso, ma come la freccia lanciata da uno sconosciuto arciere. Un disegno dunque anche dietro la gatta che difende fiera la sua cucciolata, e dietro le gemme dure e chiuse che spunteranno dai rami nel gelo di febbraio. Trama che non sappiamo più riconoscere, perché l’orgoglio della modernità misura, analizza, seziona ma non ammette che le cose celino in sé una firma - che rimandino ad altro, ad un altro. E quei tre Magi dunque così remoti, nel loro faticoso assurdo inseguire per notti e deserti una stella; così vicini, nella domanda che spesso non ascoltiamo - eppure preme in noi, inesorabile, come scritta dentro.
© Copyright Avvenire, 7 gennaio 2011 consultabile online anche qui.
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