Il discorso di Benedetto XVI sull'aborto
Per difendere la comune umanità
di LUCETTA SCARAFFIA
Il discorso di Benedetto XVI ai membri dell'Accademia per la vita non ha la caratteristica di un ragionamento interno - rivolto cioè a una istituzione pontificia i cui membri condividono per definizione il pensiero del Papa - e neppure di una sacrosanta ma generica affermazione del valore della vita in generale, come ideale da coltivare e difendere. È invece un concreto e circostanziato appello rivolto a tutti; in particolare in occidente, dove l'aborto è considerato un diritto e un segno di modernità che dovrebbe garantire la presenza e la libertà delle donne nelle società democratiche.
Il Papa infatti parla soprattutto alle donne, in particolare a quante hanno abortito, e parla di quel disagio tanto spesso celato, di quella sofferenza segreta che costituisce la sindrome post-abortiva. E la riconosce e la interpreta non dal punto di vista psicologico - senza evocare per queste donne sofferenti l'assistenza medica, ridotta magari a qualche antidepressivo - ma con il coraggio di nominare l'innominabile in una società secolarizzata come la nostra: la voce della coscienza. Definita secondo la tradizione cattolica non come un effetto di condizionamenti esterni o emozioni interne come molti preferiscono credere, ma proprio come voce che illumina l'essere umano sul bene e sul male, e quindi prova evidente del legame di ogni creatura con Dio.
Da una parte, una società che vuole fondare il diritto di cittadinanza delle donne sulla cancellazione di un nuovo essere umano; dall'altra, un Papa che ha il coraggio semplice e chiaro di ricordare che dentro ciascuno di noi c'è una voce che parla chiaramente, e che è difficile, anzi impossibile, farla tacere. Anche, se non soprattutto, quando l'aborto viene realizzato per "ragioni mediche", che buone non sono mai se vogliono cancellare la sofferenza cancellando la persona che soffre. E il Papa lo dice con chiarezza proprio nel momento in cui ricorda che solo all'interno della Chiesa le donne che hanno abortito possono trovare il perdono, e quindi la pace interiore.
La voce della coscienza - insiste Benedetto XVI - parla a tutti, non solo ai credenti, ed è una voce insopprimibile, anche se non la si vuole ascoltare perché la legalizzazione dell'aborto è all'origine di profonde modificazioni socio-culturali, identificate positivamente e acriticamente come aspetti di modernizzazione: non solo il posto delle donne nella società, ma anche le rappresentazioni della famiglia, le relazioni fra i generi, le modalità della vita sessuale e dell'affettività.
Ma chi osserva la trasformazione che ha segnato la legalizzazione dell'aborto nelle nostre società con occhio scientifico e onesto - come il sociologo francese Luc Boltanski (La condition fatale. Une sociologie de l'engendrement et de l'avortement, Paris, Gallimard, 2004) e pochissimi altri studiosi, dato il peso ideologico che opprime questo tema - si rende conto che con la legalizzazione dell'aborto viene riaperta la questione dell'appartenenza all'umanità. Questa avrebbe dovuto essere assicurata a tutti, e una volta per tutte, dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948: scritta per impedire che si ripetessero gli orrori del nazismo, sistema che aveva negato a molte persone la dignità di appartenenza al genere umano.
Oggi, invece, siamo di nuovo a discutere sulla possibilità di escludere dei potenziali esseri umani dal diritto di vivere: secondo Boltanski, la situazione attuale somiglia infatti a quella di duemila anni fa, quando venne messo in questione dal cristianesimo nascente il carattere inevitabile e naturale della schiavitù, cioè dell'esistenza di esseri con uno statuto di umanità ineguale.
Si è così riaperta la questione antropologica a proposito dei diritti del feto - considerato un essere incerto sospeso fra esistenza e inesistenza - e questo ci costringe a riconoscere il carattere paradossale e, quindi, eminentemente fragile, della nostra idea di umanità, nella contraddizione che ci vede al tempo stesso esseri perfettamente rimpiazzabili ed esseri assolutamente singolari.
La preconferma da parte di Dio, che istituisce una parentela divina fra gli esseri umani, è l'unica condizione che accetta ogni nuovo concepito, attribuendogli uguale valore. Su questo concetto riposa l'idea, egualitaria, di comune umanità.
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)
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