Antonio Ciseri, "Ecce Homo" |
Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
GESÙ DAVANTI A PILATO
L’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l’era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte.
Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l’aspetto politico della sentenza di colpevolezza.
Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare.
La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito.
Con il canto del gallo era sorto il giorno.
Il governatore romano usava sedere in giudizio nelle prime ore del mattino.
Così Gesù viene dai suoi accusatori condotto al pretorio e presentato a Pilato come malfattore meritevole di morte.
È il giorno della «Parasceve» per la festa di Pasqua: nel pomeriggio vengono immolati gli agnelli per il banchetto serale.
Per questo è esigita la purezza rituale; i sacerdoti accusatori non possono quindi mettere piede nel pretorio pagano e trattano con il governatore romano davanti all’edificio.
Giovanni che ci trasmette tale notizia (cfr 18,28s) lascia con ciò trasparire la contraddizione tra l’osservanza corretta delle prescrizioni cultuali di purezza e la questione della vera, interiore purezza dell’uomo: agli accusatori non viene in mente che non l’entrare nella casa pagana sia ciò che inquina, ma l’intimo sentimento del cuore.
Al tempo stesso l’evangelista sottolinea con ciò che la cena pasquale non ha ancora avuto luogo e che l’immolazione degli agnelli deve ancora avvenire.
Nella descrizione dell’andamento del processo i quattro Vangeli concordano in tutti i punti essenziali.
Giovanni è l’unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, in cui la questione circa la regalità di Gesù, circa il motivo della sua morte, viene scandagliata in tutta la sua profondità (cfr 18,33-38).
Il problema del valore storico di tale tradizione è – ovviamente – discusso tra gli esegeti. Mentre Charles H. Dodd ed anche Raymond E. Brownla valutano in senso positivo, Charles K. Barretts’ esprime in senso estremamente critico: «Le integrazioni e le modifiche che Giovanni fa non suscitano fiducia nella sua affidabilità storica» (op cit.,p. 511).
Sicuramente nessuno s’aspetta che Giovanni voglia offrire qualcosa come un verbale del processo. Si può però certamente supporre che egli sappia interpretare con grande esattezza la questione centrale di cui si trattava e che ci ponga quindi davanti alla verità essenziale di tale processo.
Così anche Barrett dice che «Giovanni con massima sagacia ha individuato la chiave interpretativa per la storia della passione nella regalità di Gesù e ha messo in risalto il suo significato forse più chiaramente di qualunque altro autore neotestamentario» (p. 512).
Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori?
Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte?
Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere.
Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei».
Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto – come il lettore moderno forse tende ad interpretare – il popolo d’Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista».
In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi.
L’intera comunità primitiva era composta da Israeliti.
In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l’aristocrazia del tempio.
Così nel quarto Vangelo il cerchio degli accusatori che perseguono la morte di Gesù è descritto con precisione e chiaramente delimitato: si tratta, appunto, dell’aristocrazia del tempio – ma anch’essa non senza eccezione, come lascia capire l’accenno a Nicodèmo (cfr 7,50ss).
In Marco, nel contesto dell’amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare l’«ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa».
Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia».
In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale.
Nell’amnistia pasquale (che, in realtà, non conosciamo da altre fonti, ma della quale tuttavia non v’è ragione di dubitare) il popolo – come al solito in simili amnistie – ha il diritto di fare una proposta manifestata per «acclamazione»: l’acclamazione del popolo ha in questo caso un carattere giuridico (cfr Pesch, Markusevangelium II, p. 466).
Per quanto riguarda questa «massa», si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l’amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti.
Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa», mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale.
Così in Marco accanto ai «Giudei», cioè agli autorevolicircoli sacerdotali, compare, sì, l’ochlos, il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo come tale.
Un’amplificazione dell’ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27,25), che parla invece di «tutto il popolo», attribuendo adesso la richiesta della crocifissione di Gesù.
Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte diGesù?
La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco.
Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la «massa» dei sostenitori di Barabba.
Si può forse in ciò dare ragione a Joachim Gnilka, secondo cui Matteo – andando oltre i fatti storici – ha voluto formulare un’eziologia teologica, con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana, nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio (cfr Matthäusevangelium II, p. 459).
In tale contesto Matteo pensa forse alle parole di Gesù nelle quali Egli predice la fine del tempio: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!
Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta…» (Mt23, 37s; cfr in Gnilka l’intero paragrafo Gerichts-worte pp. 295-308).
A proposito di queste parole bisogna – come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù – ricordare l’intima analogia tra ilmessaggio del profeta Geremia e quello di Gesù.
Geremia annuncia – contro l’accecamento dei circoli dominanti d’allora – la distruzione del tempio e l’esilio di Israele.
Ma parla anche di una «nuova alleanza»: il castigo non è l’ultima parola; esso serve alla guarigione.
Analogamente Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d’ora la nuova alleanza « nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio.
Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione.
Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti.
«Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio…
È lui [Gesù] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione … nel suo sangue», dice Paolo (Rm 3,23.25).
Come in base alla fede bisogna leggere in modo totalmente nuovo l’affermazione di Caifa circa la necessità della morte di Gesù, così deve farsi anche con la parola di Matteo sul sangue: letta nella prospettiva della fede, essa significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell’amore, e tale forza è il suo sangue.
Non è maledizione, ma redenzione,salvezza.
Soltanto in base alla teologia dell’ultimacena e della croce presente nell’intero Nuovo Testamento la parola di Matteo circa il sangue acquisisce il suo senso corretto.
Passiamo dagli accusatori al giudice: il governatore romano Ponzio Pilato.
Mentre Giuseppe Flavio ed in modo particolare Filone d’Alessandria tracciano di lui un’immagine del tutto negativa, egli appare in altre testimonianze come risoluto, pragmatico e realistico. Si dice spesso che i Vangeli, in base ad una tendenza filo-romana motivata politicamente, lo avrebbero presentato in modo sempre più positivo, caricando progressivamente sugli Ebrei la responsabilità per la morte di Gesù.
A sostegno di una tale tendenza, però, non c’era alcuna ragione nella situazione storica degli evangelisti: quando furono redatti i Vangeli, la persecuzione di Nerone aveva ormai mostrato il lato crudele dello Stato romano e tutta l’arbitrarietà del potere imperiale.
Se possiamo datare l’Apocalisse più o meno al periodo in cui fu composto il Vangelo di Giovanni, diventa evidente che il quarto Vangelo non si è formato in un contesto che avrebbe dato motivo ad un’impostazione filo-romana.
L’immagine di Pilato nei Vangeli ci mostra il prefetto romano molto realisticamente come un uomo che sapeva intervenire in modo brutale, se questo gli sembrava opportuno per l’ordine pubblico. Ma egli sapeva anche che Roma doveva il suo dominio sul mondo non da ultimo alla tolleranza di fronte a divinità straniere e alla forza pacificatrice del diritto romano.
Così egli ci si presenta nel processo a Gesù.
L’accusa secondo cui Gesù si sarebbe dichiarato re dei Giudei era pesante.
È vero che Roma poteva effettivamente riconoscere dei re regionali – come Erode –, ma essi dovevano essere legittimati da Roma ed ottenere da Roma la descrizione e la delimitazione dei loro diritti di sovranità.
Un re senza tale legittimazione era un ribelle che minacciava la pax romana e di conseguenza si rendeva reo di morte.
Ma Pilato sapeva che da Gesù non era sorto un movimento rivoluzionario. Dopo tutto ciò che egli aveva sentito, Gesù deve essergli sembrato un esaltato religioso, che forse violava ordinamenti giudaici riguardanti il diritto e la fede, ma ciò non gli interessava. Su ciò dovevano giudicare i Giudei stessi.
Sotto l’aspetto degli ordinamenti romani concernenti la giurisdizione e il potere, che rientravano nella sua competenza, non c’era nulla di serio contro Gesù.
A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al processo stesso.
In Giovanni 18,34s è detto chiaramente che presso Pilato, in base alle informazioni in suo possesso, non c’era nulla contro Gesù.
All’autorità romana non era giunta alcuna notizia su qualcosa che in qualche modo avrebbe potuto minacciare la pace legale.
L’accusa proveniva dagli stessi connazionali di Gesù, dall’autorità del tempio.
Doveva stupire Pilato che i connazionali di Gesù si presentassero davanti a lui come difensori di Roma, dal momento che le sue personali conoscenze non gli avevano dato l’impressione che un intervento fosse necessario.
Ma nell’interrogatorio, ecco all’improvviso un momento che suscita eccitazione: la dichiarazione di Gesù.
Alla domanda di Pilato: «Dunque tu sei re?», Egli risponde: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv18,37).
Già prima Gesù aveva detto: «La mia regalità [il mio regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36).
Questa « confessione » di Gesù mette Pilato davanti ad una strana situazione: l’accusato rivendica regalità e regno (basileía).
Ma sottolineala totale diversità di questa regalità, e ciò con l’annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità.
Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno– niente di ciò si trova in Gesù.
Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani.
Questo regno è non violento.
Non dispone di alcuna legione.
Con queste parole, Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso.
Che cosa deve pensare Pi-lato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale con-cetto di regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare?
O forse in qualche modo ci riguarda?
Accanto alla chiara delimitazione del concetto di regno (nessuno combatte, impotenza terrena), Gesù ha introdotto un concetto positivo, per rendere accessibile l’essenza e il carattere particolare del potere di questa regalità: la verità. Pilato, nell’ulteriore sviluppo dell’interrogatorio, ha messo in gioco un altro termine che proviene dal suo mondo e viene normalmente collegato con il termine «regno»: il potere – l’autorità (exousía).
Il dominio richiede un potere, addirittura lo definisce. Gesù invece qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza alla verità.
La verità è forse una categoria politica? Oppure il «regno» di Gesù non ha niente a che fare con la politica?
A quale ordine allora esso appartiene? Se Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che cos’è la verità?» (18,38).
È la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura?
O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilirela pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell’ambito del potere? Vista l’impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere?
Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non conta nulla?
Quale giustizia allora sarà possibile?
Non devono forse esserci criteri comuniche garantiscano veramente la giustizia per tutti –criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?
Che cos’è la verità? La domanda del pragmatico, posta superficialmente con un certo scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell’umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia del singolo che in quella della comunità?
La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica qualifica la verità come «adaequatio intellectus et rei – corrispondenza tra intelletto e realtà» (Tommaso d’Aquino, S. theol. I q 21 a 2 c).
Se la ragione di una persona rispecchia una cosa così come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la verità. Ma solo un piccolo settore di ciò che esiste realmente – non la verità nella sua grandezza ed interezza.
Con un’altra affermazione di san Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni di Gesù: «La verità è nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (proprie et primo); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)» (De verit. q 1 a4 c).
E così s’arriva infine alla formula lapidaria: Dio è «ipsa summa et prima veritas – la stessa somma e prima verità» (S. theol. I q 16 a 5 c).
Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, per dare testimonianza alla quale è venuto nel mondo. Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile.
La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è «vero» nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura.
Dio è la realtà che dona l’essere e il senso.
«Dare testimonianza alla verità» significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze.
Dio è la misura dell’essere.
In questo senso, la verità è il vero «re» che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza.
Possiamo anche dire che dare testimo-nianza alla verità significa: partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo dell’uomo – che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità.
Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fasì che il potere dei forti diventi il dio di questomondo.A questo punto, come uomini moderni, si ètentati di dire: « Grazie alla scienza, per noi lacreazione è diventata decifrabile».
Di fatto, dicead esempio Francis S. Collins, che ha diretto loHuman Genome Project, con lieto stupore: «Il linguaggio di Dio era stato decifrato» (The Languageof God, p. 99).
Sì davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che oggi possiamo leggere nel codice genetico dell’uomo, percepiamo il linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio intero.
La verità funzionale sull’uomo è diventata visibile.
Ma la verità su lui stesso – su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male – quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo.
Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di paripasso una crescente cecità per «la verità» stessa per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo.
Che cos’è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e,per il suo compito, impraticabile.
Anche oggi, nel-la disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti.
«Redenzione» nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità
diventi riconoscibile.
Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia. La verità esternamente èimpotente nel mondo; come Cristo, secondo i cri-teri del mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene crocifisso.
Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, esolo così la verità diviene sempre nuova menteuna potenza.Nel colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi della regalità, del «regno» diDio. Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato sirende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e isuoi discorsi in Gerusalemme.
Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta.
Il centro di ciò è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù nelle parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno è, appunto, la regalità della verità.
L’erezione di questa regalità quale vera liberazione dell’uomo è ciò che interessa.
Al contempo, diventa evidente che tra la focalizzazione pre-pasquale sul regno di Dio e quella post-pasquale sulla fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio non c’è alcuna contraddizione.
In Cristo, Dio è entrato nel mondo, la verità.
La cristologia è l’annuncio diventato concreto del regno di Dio.
Per Pilato dopo l’interrogatorio è chiaro ciò che, in linea di principio, egli sapeva già prima. Questo Gesù non è un rivoluzionario politico, il suo messaggio e il suo comportamento non costituiscono un pericolo per il dominio romano. Se abbia contravvenuto alla Torà, a lui che è romano non interessa.
Sembra però che Pilato abbia provato anche un certo timore superstizioso di fronte a questa figura strana. Certo, Pilato era uno scettico. Ma come uomo dell’antichità, egli tuttavia non escludeva che dèi o in ogni caso esseri simili agli dèi potessero comparire sotto l’aspetto di esseri umani. Giovanni dice che i « Giudei » accusavano Gesù di farsi Figlio di Dio, e aggiunge: «All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura» (19,8).
Penso che si debba tener conto di questa paura in Pilato: c’era forse veramente qualcosa di divino in quest’uomo?
Condannandolo si metteva forse contro una potenza divina?
Doveva forse aspettarsi l’ira di tali potenze? Penso che il suo atteggiamento in questo processo non si spieghi soltanto in ragione di un certo impegno per la giustizia, ma proprio anche in base a queste idee.
Ovviamente gli accusatori se ne rendono conto ed oppongono ora ad una paura un’altra paura.
Alla paura superstiziosa per una possibile presenza divina, essi oppongono la paura molto concreta di restare privo del favore dell’imperatore, di perdere la posizione e di precipitare così in una situazione senza sostegno.
L’affermazione: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare» (Gv 19,12), è una minaccia.
Alla fine, la preoccupazione per la carriera è più forte della paura di fronte alle potenze divine.
Ma prima della decisione finale vi è ancora un intermezzo drammatico e doloroso in tre atti, che almeno brevemente dobbiamo considerare.
Il primo atto consiste nel fatto che Pilato presenta Gesù come candidato per l’amnistia pasquale, cercando in questo modo di liberarlo. Con questo, però, si espone ad una situazione fatale. Chi viene proposto come candidato per l’amnistia è di per sé già condannato. Soltanto così l’amnistia ha un senso. Se alla folla spetta il diritto d’acclamazione, allora dopo il suo pronunciamento è da considerare come condannato colui che essa non ha scelto.
In questo senso, nella proposta per la liberazione attraverso l’amnistia è tacitamente inclusa già una condanna.
Sul confronto tra Gesù e Barabba come anche sul significato teologico di tale alternativa ho scritto in modo dettagliato già nella Prima Parte di quest’opera (cfr pp. 63s).
Basta quindi ricordare qui brevemente soltanto l’essenziale.
Giovanni qualifica Barabba, secondo le nostre traduzioni, semplicemente un «brigante» (18,40). Ma nel contesto politico di allora la parola greca da lui usata aveva assunto anche il significato di «terrorista», ovvero di « combattente della resistenza».
Che questo fosse il significato inteso diventa evidente nel racconto di Marco: «Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio» (15,7).
Barabba («figlio del padre») è una specie di figura messianica; nella proposta dell’amnistia pasquale due interpretazioni della speranza messianica stanno di fronte l’una all’altra.
Secondo la legge romana si tratta di due delinquenti accusati dello stesso delitto – sono rivoltosi contro la pax romana.
È chiaro che Pilato preferisce l’«esaltato» non violento, che era Gesù ai suoi occhi.
Ma le categorie della folla ed anche dell’autorità del tempio sono diverse. Se l’aristocrazia del tempio come massimo arriva alla frase: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15), ciò è solo apparentemente una rinuncia alla speranza messianica di Israele: questo re noi non lo vogliamo. Essi desiderano un altro genere di soluzione del problema.
L’umanità si troverà sempre nuovamente davanti a tale alternativa: dire «sì» a quel Dio che opera soltanto con il potere della verità e dell’amore o contare sul concreto, su ciò che è a portata di mano, sulla violenza.
I seguaci di Gesù non sono presenti nel luogo del giudizio, sono assenti per paura.
Ma essi mancano anche perché non si propongono come massa. La loro voce si farà sentire a Pentecoste nella predica di Pietro, che allora «trafiggerà il cuore» di quegli uomini che in precedenza si erano decisiin favore di Barabba.
Alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli? » ricevono la risposta: «Convertitevi» – rinnovate e trasformate il vostro modo di pensare, il vostro essere (cfr At 2,37s).
È questo il grido che, di fronte alla scena di Barabbae a tutte le sue riedizioni, deve squarciarci il cuore e portarci alla svolta della vita.
Il secondo atto, Giovanni lo sintetizza laconicamente nella frase: « Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare» (19,1).
La flagellazione era la punizione che, nel diritto penale romano,veniva inflitta come castigo concomitante la condanna a morte (cfr Hengel/Schwemer, p. 609).
In Giovanni essa appare invece come un atto postodurante l’interrogatorio – un provvedimento cheil prefetto, in virtù del suo potere di polizia, eraautorizzato a prendere.
Era una punizione estremamente barbara; il condannato «veniva picchiato da più aguzzini finché questi si stancavano e la carne del delinquente pendeva giù in brandelli sanguinanti» (Blinzler, p. 321). Rudolf Pesch commenta: «Il fatto che Simone il Cireneo debba portare per Gesù la traversa della croce e che Gesù muoia così presto viene forse con ragione collegato con la tortura della flagellazione, durante la quale altri delinquenti già morivano» (Markuse-vangelium II, p. 467).
Il terzo atto è l’incoronazione di spine.
I soldati si prendono gioco in modo crudele di Gesù. Sanno che Egli pretende di essere re. Ma ora si trova nelle loro mani, ed è loro piacere umiliarlo, dimostrare in Lui la loro forza, forse anche scaricare su di Lui, in modo sostitutivo, la loro rabbia contro i grandi. Rivestono Lui – uomo colpito e ferito in tutto il corpo – con i segni caricaturali della maestà imperiale: il mantello scarlatto, la corona di spine intrecciate e lo scettro di canna.
Gli rendono omaggio: «Salve, re dei Giudei!»; il loro omaggio consiste in ceffoni con cui manifestano ancora una volta tutto il loro disprezzo nei suoi confronti (cfrMt 27,28ss; Mc 15,17ss; Gv 19,2s).
La storia delle religioni conosce la figura del re-caricatura – affine al fenomeno del « capro espiatorio».
Su di lui si scarica tutto ciò che angustia gli uomini: in questo modo s’intende allontanare tutto ciò dal mondo.
Senza saperlo, i soldati compiono quanto in quei riti e in quelle usanze non poteva realizzarsi: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noisiamo stati guariti» (Is 53,5). In questa apparenza caricaturale Gesù viene condotto da Pilato, e Pilato lo presenta alla folla – all’umanità:
Ecce homo – Ecco l’uomo! (Gv 19,5). Probabilmente il giudice romano è sconvolto dalla figura percossa e schernita di questo misterioso accusato.
Egli conta sulla compassione di coloro che lo vedono.
«Ecce homo» – questa parola acquisisce spontaneamente una profondità che va al di là del momento.
In Gesù appare l’essere umano come tale.
In Lui si manifesta la miseria di tutti i colpiti e rovinati. Nella sua miseria si rispecchia la disumanità del potere umano, che schiaccia così l’impotente. In Lui si rispecchia ciò che chiamiamo «peccato »: ciò che l’uomo diventa quando volge le spalle a Dio e prende autonomamente in mano il governo del mondo.
Ma è vero anche l’altro aspetto: a Gesù non può essere tolta la sua intima dignità. Resta presente in Lui il Dio nascosto. Anche l’uomo percosso ed umiliato rimane immagine di Dio. Da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi.
Così, nel mezzo della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei sofferenti.
Alla fine Pilato si pone sul seggio del giudice.
Dice ancora una volta: « Ecco il vostro re! » (Gv19,14).
Poi pronuncia la sentenza a morte.
Certo – la grande verità, di cui aveva parlato Gesù, gli è rimasta inaccessibile; la verità concreta di questo caso, però, Pilato la conosceva bene. Sapeva che questo Gesù non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico – sapeva quindi cheera da prosciogliere.
Come prefetto egli rappresentava il diritto romano su cui si basava la pax romana – la pace del-l’impero che abbracciava il mondo.
Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma. Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace. La pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l’ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare.
Pilato – lo ripetiamo – conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui.
Ma alla fine vinse in lui l’interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto, questo fu forse il suo pensiero e così si giustificò davanti a se stesso. Un’assoluzione dell’innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente – il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire –, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare.
La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto – la sua funzione pacificatrice. Così forse calmò la sua coscienza. Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto, però, che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
(Pag. 206-225)
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