Il mistero della provvidenza
Nel progetto di Dio non ci sono trovatelli
di Inos Biffi
Come ogni creatura apparteniamo totalmente a Dio: da lui riceviamo l'esistenza, che è la perfezione originaria, ed è donata ogni istante, non solo nell'evento della creazione, per cui parliamo di «conservazione», equivalente a una creazione continuata. «La conservazione delle cose da parte di Dio -- scrive perspicuamente Tommaso d'Aquino -- non avviene con un'azione nuova, bensì col prosieguo dell'azione che consiste nel dare l'essere» (Summa Theologiae, I, 104, 4m).
All'infuori di Dio, tutto quello che c'è si trova in se stesso intrinsecamente segnato dalla precarietà; separato da lui, tutto è fatalmente per la morte assoluta, per il non-essere. Potremmo allora dire che l'esistenza degli enti è un «miracolo» continuo. Essa non è mai un diritto e non è mai autosufficiente, ma è sempre una grazia.
Afferma con parole limpide e incisive Tommaso d'Aquino: «Occorre dire, sia dal profilo della fede sia dal profilo della ragione, che le creature sono conservate nell'essere da Dio».
Ecco perché anche il filosofo, constatando l'essere e sentendosi esistente, è tenuto a rendere grazie, a pregare e ad adorare. È stato scritto su «Preghiera e poesia»; ma anche si dovrebbe scrivere su «Preghiera e filosofia».
Dio tuttavia non si limita a creare gli esseri, per poi abbandonarli a se stessi, a un loro confuso destino o a una accidentale casualità, senza che a ognuno presieda un disegno, una ragione per cui sono stati creati e che non può che essere una ragione di amore.
Dio, infatti, non fu spinto a chiamare gli esseri dal nulla da un suo incoercibile bisogno di effusione o di espansione. Ogni essere appare come frutto di una scelta di Dio, dettata dall'amore, e anche per la filosofia Dio, proprio perché pienezza di essere e perfezione somma, è Bontà somma e incomparabile -- extra genus -- «ultimo fine di tutte le cose» (ibidem, 6, 2, 3m; 3, c), ed è Amore.
Lo deve sapere il filosofo che, argomentando razionalmente con rigore, giunge alla dottrina della creazione, che rappresenta il vertice di tutta la filosofia. Di fatto non pare che gli antichi pensatori ci siano arrivati, ma Aristotele con la sua metafisica vi pose le premesse, che Tommaso d'Aquino sviluppò coerentemente giungendo appunto all'affermazione che «Dio dà l'essere» con la sua volontà, e perciò questo dono è fondato e guidato da un disegno, cioè disposto in una provvidenza, per cui ogni essere è sottratto dall'inutilità, dalla confusione, o dall'occasionalità fortuita priva di senso.
«La luce della ragione» giunge a dire che il mondo non viene alla luce per caso (Summa Theologiae, i, 22, 2, c); che tutti gli esseri sono disposti in un progetto divino, e quindi sono destinati a un fine, e in particolare «al fine ultimo che è la bontà di Dio» (ibidem, 22, 1, c). Ed esattamente questa è la Provvidenza, la quale riguarda gli esseri non solo nel loro insieme, ma nella loro singolarità. Che, se vale per tutto ciò che esiste, soprattutto è vero per l'uomo, che raggiunge il suo fine mediante l'esercizio del libero arbitrio e tramite gli atti personalmente posti» (Summa Theologiae, i-ii, Prologus).
A questo punto, mentre con procedimento rigorosamente logico abbiamo esaltato le possibilità della ragione, ci avvediamo di trovarci in concreto all'oscuro non sulla verità che la comunione con Dio è il compimento del desiderio dell'uomo, ma sulla forma concreta che esso assuma e sulla via storica per arrivarci. Soprattutto siamo presi da invincibile sconcerto di fronte agli eventi di dolore e di male o alle «irrazionalità» di ogni genere che attraversano l'esistenza umana e la lasciano attonita. In modo poi tutto speciale ci sentiamo smarriti di fronte all'esperienza della morte, che sembra in certa misura smentire tutta la nostra illuminata e teoreticamente ineccepibile riflessione.
L'Angelico parla della grande angustia patita dai «preclari ingegni» nell'individuare il fine ultimo (Summa contra Gentiles, III, 48, 16). Se, da un lato, il filosofo è pervaso dalla luce che proviene dall'Essere di Dio, al quale perviene ragionando e al quale si affida, dall'altro lato non sa vincere le ombre che ricoprono il volto della sua Sorgente prima e del suo Fine ultimo, mentre gli rimangono incomprensibili le vicissitudini e le contraddizioni del cammino della sua vita.
Le ombre sono dissipate e la comprensione si apre quando all'uomo viene narrato il «mistero di Dio che è Cristo» (Giovanni, 1, 22; Colossesi, 2, 2).
Egli apprende allora che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo; che ogni uomo è stato tratto dal nulla grazie a un amore paterno immenso e personale; che dall'eternità è stato ideato a immagine del Figlio, morto e risuscitato, per mezzo del quale, nel quale e in vista del quale tutto è stato fatto (cfr Colossesi, 1, 16); che nel medesimo Signore assiso alla destra del Padre è stato predestinato; che la misericordia della croce ha preceduto tutto e ha motivato la creazione dello stesso uomo; che tutti, nascendo, si ritrovano in dono l'Unigenito di Dio; che il fine ultimo del risveglio dell'uomo all'esistenza è quello di riuscire consorte del Crocifisso glorioso.
E, ancora, che ogni itinerario umano lungo il tempo è stato concepito come un rinnovarsi dell'itinerario di Gesù, un ripetersi dei suoi «misteri» di passione, di morte e di risurrezione.
Emerge, allora, che cosa sia la Provvidenza: essa è esattamente Gesù risorto da morte e il disegno eterno che in lui si avvera. Quelli che nascono, nessuno escluso, da quando è incominciato il genere umano fino a quando si consumerà, non possono avere origine dal caso, ma dalla scelta del Padre, che li chiama a essere figli nel Figlio, conformi a lui, «il primogenito di molti fratelli» (Romani, 8, 29).
Nel progetto di Dio non ci sono illegittimi, o «trovatelli», nati senza il suo amore e senza la sua incessante cura. Non solo: nessuna circostanza potrà vincere la potenza dell'amore misericordioso per cui abbiamo aperti gli occhi alla luce di questo mondo; nessuna forza terrena riuscirà a strapparci dal disegno di Cristo.
La filosofia, per quanto penetrante sia il suo sguardo, non è stata né potrà mai essere in grado di conoscere tutto questo.
Ne è invece al corrente la fede, che riceve dallo Spirito il dono di avere «illuminati gli occhi del cuore» (Efesini, 1, 18), che riescono a leggere «i segreti di Dio» (1 Corinzi, 2, 11).
Se però diciamo la fede, non diciamo la visione. Per questo il credente prova difficoltà e turbamenti, oscurità. I «segreti di Dio» con i loro lati per noi ancora insolubilmente enigmatici e dolorosi perdurano; e ugualmente ignoriamo come le singole evenienze si compongano a formare la trama dell'azione divina della nostra vita. Tutto ciò è noto unicamente a Dio.
Come scrive Newman, i particolari della «rotta silenziosa della Provvidenza», adesso li ignoriamo: essa «opera dietro a un velo», e «ciò che è visibile nel suo cammino offusca e a volte oscura e maschera ciò che è invisibile». I particolari della Provvidenza li scopriremo alla fine. Le grazie di Dio ci sono elargite «in silenzio e in segreto, cosicché non le discerniamo sul momento, eccetto che per fede».
E la fede è la grande e prolungata passione del credente, il quale, a dispetto di tutte le obiezioni e le smentite della storia, quella universale e la sua personale, non cessa di esser certo che Gesù risorto sostiene il mondo, che lo sottrae al disfacimento dell'inutilità e della casualità irragionevole, e che proprio nella contraddizione e nella debolezza della croce (cfr 1 Corinzi, 1, 22-25; 2, 2) egli rappresenta la speranza e la riuscita.
E la missione della Chiesa sarà sempre quella di predicare «la sapienza di Dio che è nel mistero» (ibid., v. 7.); spronerà la ragione e i suoi dialoghi, ma soprattutto annuncerà Cristo «speranza della gloria» (Colossesi, 1, 27), senza la quale alla fine la ragione perde la parola e rimane ammutolita.
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)
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