domenica 3 aprile 2011

Libia, le incognite che turbano il Vaticano (Tornielli)

Le incognite che turbano il Vaticano

ANDREA TORNIELLI

La rapida evoluzione della situazione libica, i cui sviluppi delle scorse settimane nessuno era stato in grado di prevedere, ha spiazzato non soltanto le principali cancellerie occidentali ma anche una delle diplomazie più antiche, quella della Santa Sede. Il Vaticano è sembrato in un primo momento avallare l’intervento autorizzato dall’Onu per fermare la repressione sui civili da parte del raiss di Tripoli, salvo poi, una settimana dopo, assumere una posizione più problematica, accompagnata dalla richiesta del cessate il fuoco.
Diversamente da quanto è avvenuto in passato per altri conflitti – in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq –, la diplomazia pontificia questa volta ha preferito lavorare più sottotraccia, riducendo al minimo le prese di posizione pubbliche. Di certo, rispetto agli anni scorsi, la posizione vaticana, e più in generale quella della Chiesa cattolica, è apparsa meno rilevante, quantomeno a livello di opinione pubblica.
«Gheddafi bombarda il mondo discute» titolava polemicamente L’Osservatore Romano nei giorni precedenti l’attacco.
Poi, a conflitto iniziato, domenica 20 marzo, è intervenuto una prima volta Benedetto XVI, senza chiedere che fossero fermati i raid, ma esprimendo preoccupazione per la salvaguardia dei civili. Le sue parole sono state lette da molti come un tacito avallo all’operazione. Interpretazione corroborata, sul versante della Chiesa italiana, dalle dichiarazioni più esplicite del presidente della Cei Angelo Bagnasco, il quale ha spiegato che «il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà», e dalla linea, inizialmente favorevole all’intervento militare, del quotidiano Avvenire.
Tutti gli ultimi pontefici hanno sostenuto che la guerra non è la soluzione per le controversie internazionali. E in altre occasioni, ad esempio per la prima come per la seconda guerra contro l’Iraq, nel 1991 e nel 2003, il Papa aveva espresso la sua decisa contrarietà. Ma sarebbe sbagliato vedere nell’atteggiamento odierno un’evidente discontinuità con il pontificato wojtyliano. Ci sono infatti almeno due precedenti. Il primo è ciò che avvenne nel 1999, quando la Santa Sede, attraverso le parole dell’allora segretario di Stato Angelo Sodano, chiese alla comunità internazionale di porre fine alla pulizia etnica in Kosovo, coniando l’espressione «ingerenza umanitaria» e auspicando l’invio di una forza di interposizione. Anche se poi la diplomazia pontificia avrebbe definito «sproporzionate» le risposte militari della Nato rispetto all’obiettivo di disarmare l’aggressore.
L’altro precedente è l’atteggiamento vaticano in occasione dell’attacco anglo-americano in Afghanistan del 2001, poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre. Il portavoce Joaquín Navarro-Valls ricordò il diritto degli Stati all’autodifesa – anche preventiva – con mezzi aggressivi. Scese in campo anche l’allora cardinale Ratzinger per spiegare a Radio Vaticana che «un padre di famiglia il quale vede aggrediti i suoi ha il dovere di fare il possibile per difendere la vita delle persone a lui affidate anche eventualmente con una violenza proporzionata».
A bombardamenti appena iniziati in Afghanistan, Giovanni Paolo II usò parole simili a quelle adoperate dal suo successore domenica 20 marzo, nel primo Angelus dopo l’attacco in Libia. Wojtyla infatti parlò dell’«angustia e preoccupazione» che suscitava quel «delicato momento», senza condannare i raid né chiedere che si fermassero. Mentre L’Osservatore Romano di allora ribadiva che quella in corso contro i talebani e i terroristi di Al Qaeda era «un’operazione limitata di polizia internazionale con obiettivi mirati» e non una guerra.
La dottrina dell’ingerenza umanitaria, precisata da papa Wojtyla, è stata ribadita da Benedetto XVI nel discorso al Palazzo di Vetro dell’Onu nell’aprile 2008, quando ha ricordato la «responsabilità di proteggere» della comunità internazionale di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Perché allora domenica scorsa, poco più di una settimana dopo l’inizio dei bombardamenti, il Papa ha chiesto «l’immediato avvio di un dialogo che sospenda l’uso delle armi» e il giorno successivo il presidente della Cei ha fatto lo stesso? In Vaticano si temono tre conseguenze.
La prima è che l’intervento internazionale per salvare i civili libici finisca per provocare tante vittime proprio tra quella popolazione che si cerca di proteggere, come ha testimoniato il vescovo di Tripoli Giovanni Martinelli, contrario fin da subito all’attacco. La seconda è che la continuazione dei raid, invece di favorire l’uscita di scena di Gheddafi, finisca per rafforzarlo, per cristallizzare la sua resistenza, allontanando sempre di più la soluzione della crisi. La terza è che il proseguimento della guerra, l’incertezza sui possibili interlocutori della comunità internazionale nel Paese nordafricano e le possibili infiltrazioni terroristiche, aumentino le incognite sul futuro assetto della Libia.

© Copyright La Stampa, 3 aprile 2011 consultabile online anche qui.

7 commenti:

  1. Augurissimi al grande Tornielli :-)Sono leggermente costernata che sia finito alla “büsiarda”, ma tant'è. Con l'ottimo Galeazzi costituiranno un gran duo.
    Alessia

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  2. La linea politica vaticana sulla crisi libica mi sembra confusa, una serie di "stop and go", nella quale, probabilmente, hanno pesato le opposte posizioni dei vescovi.
    Tra quelli che, sia pur timidamente, non avrebbero disdegnato un cambiamento del regime assoluto, autoritario, megalomane, bombarolo, di Gheddafi (capace di insultare il Papa e la Chiesa anche a Roma), rispetto alle posizioni dei vescovi "pacifisti senza se e senza ma", che "astrattamente" come fa, dal lato ateo, Gino Strada, pensano che il mondo reale possa vivere sulla luna, anziché sulla terra e nel quotidiano delle fragilità e delle differenze, dove, per questi siderali, i cattivi ed i violenti sono solo il prodotto di una cultura imperialista che ha deviato la loro mente. Per loro, per questi pacifisti a senso unico, il male non merita mai una difessa organizzata, anche con le armi,neppure contro quelli, ad esempio, che distrussero le Twin Towers americane, in nome del trionfo dell'Islam con la spada, contro i crociati.
    E' indubbio che le due divaricanti tendenze ecclesiastiche sono ben rappresentante da vescovi con valutazioni ed orientamenti politico-sociali diversi; in un simile contesto la Santa Sede si muove con i piedi di piombo; o meglio non si muove affatto, come in pratica sta facendo ora, perché un giorno va da una parte, ed il giorno dopo, dopo le lagnanze dei contrari, va dalla parte opposta.
    Così nessun cattolico capisce esattamente da che parte stia la Chiesa e quale siao il bene politico della Libia, dell'Italia e del mondo; nessuno comprende se si debbano salvaguardare i valori fondamentali di libertà e democrazia, o l'orticello "di fedeli" tripolitani del Vescovo Martinelli.
    La conclusione rimanda al seminato tradizionale della Chiesa: le affermazioni sulla necessità del dialogo per la pace e l'affermazione dell'ovvio e generico appello a risparmiare i civili dalle conseguenze delle guerre, come cittadini di serie A, mentre i militari o i guerriglieri, cittadini di serie B, possono anche finire al mecello.
    Cherokee
    Cherokee.

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  3. Dissento completamente dalla lettura yankee qui sopra e dall'alternativa così proposta, che mi pare abbastanza offensiva oltre che tendenziosa e infondata: "Nessuno comprende se si debbano salvaguardare i valori fondamentali di libertà e democrazia, o l'orticello "di fedeli" tripolitani del Vescovo Martinelli".
    Credo che, ben oltre la propaganda politicamente corretta e conformista del mondo, la Chiesa abbia qualche elemento in più di analisi per poter valutare se in Libia l'Occidente stia davvero salvaguardando "i valori fondamentali di libertà e democrazia" o altro.
    Personalmente ho molta più fiducia in Padre Gheddo (http://www.asianews.it/notizie-it/Gheddafi-dittatore-controverso-21141.html) e Mons. Giovanni Martinelli, che in Sarkozy, Sette Sorelle & Cherokee.

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  4. Ciao Raffaella, ho scritto qualcosa che non va o problema tecnico?

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  5. Ciao Sam, ieri sera sono andata a letto presto ed ho visto i commenti solo stamattina :-)
    R.

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  6. Sam l'apellativo Yankee se lo tenga per lui ed impari a non offedere la gente. Il suo è un linguaggio "da osteria", la mia è un'analisi, che potrà pire avere dei limiti, ma resta il fatto che nel corso dei primi giorni l'atteggiamento della Sante Sede è cambiato, più o meno in coincidenza con la ripresa di potere di Gheddafi. Dunque non è questione "di fonti informative ravvicinate" di cui disponga la Santa Sede, ma di valutazioni di opportunità politiche. Questo è almeno il mio onesto pensiero. Quanto poi agli appellativi "di pregiudiziale etichettatura", che Sam mi atttribuisce, qui l'unico che sembra aver portato il cervello all'ammasso è lui, con argomenti "da militanza politica". Sam farebbe bene ad usare il cervello e risondere con argomnti concreti; se non è idoneeo alle allanisi politiche, almeno non insulti.
    Cherokee.

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