venerdì 1 luglio 2011

"L'Osservatore Romano" e un anniversario che si celebra proiettati in avanti (Di Cicco). Una lunga pagina di storia scritta grazie anche ai protagonisti più umili e sconosciuti (Alessandrini)

I POST SUGGERITI OGGI

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Il Papa alla F.A.O.: "La povertà, il sottosviluppo e quindi la fame sono spesso il risultato di atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libero dalla fame" (Discorso)

"L'Osservatore Romano" e un anniversario che si celebra proiettati in avanti

Nelle mani dei giovani

di CARLO DI CICCO

Dopo centocinquant'anni di vita, la galoppata nella storia della Chiesa e del mondo ha portato finalmente "L'Osservatore Romano" nelle mani dei giovani sui banchi di scuola. Un accordo con l'Osservatorio Giovani-Editori per il quotidiano in classe, liberamente scelto da professori e ragazzi alla pari con altre importanti testate, segna in qualche modo l'inizio di un ciclo nuovo per il giornale del Papa. Da quotidiano politico religioso destinato in prevalenza a una ristretta cerchia di lettori, a compagno anche del percorso formativo di giovani menti impegnate a costruire il proprio futuro. Si conferma così in forma dinamica la felicissima espressione di "singolarissimo giornale" con la quale, il cardinale Giovanni Battista Montini descrisse nel centenario della sua fondazione "L'Osservatore Romano" e la sua natura duttile.
Singolarissimo perché umanissimo. E umanissimo perché diario curioso delle cose divine che entrano nelle vicende degli uomini considerati come cittadini del tempo e, insieme, pellegrini in cammino verso una patria celeste più bella e più grande di tutte quelle possibili in terra.
Lo sguardo sulla vita tra il tempo e l'eternità è il segreto del giornale vaticano e non poteva essere diversamente per un giornale cattolico, cioè aperto all'universale. A imitazione della Chiesa che è cattolica, aperta a tutti in ogni tempo e di ogni luogo. Capace di armonizzare l'unità e la molteplicità di popoli e culture, casa dove ci si allena alla libertà dei figli di Dio.
Nel 1861, mentre a Roma nasceva "L'Osservatore Romano" e a Torino si celebrava la prima volta l'unità d'Italia, un sacerdote piemontese di nome Giovanni Bosco metteva a disposizione dei suoi giovani artigiani la prima tipografia salesiana. Con quei macchinari, allora di avanguardia, affidati ai giovani, don Bosco avrebbe diffuso tra il popolo la Storia della Chiesa e le Letture cattoliche, a loro modo anticipatrici dei moderni magazine e instant book. Nel 1937 Pio XI, un Papa amico di don Bosco e de "L'Osservatore Romano", affidava ai salesiani la tipografia vaticana dove da allora si è sempre stampato il giornale della Santa Sede.
La questione giovanile attraversa come un fiume carsico ogni società, passando da picchi di interesse a marginalità totale. Nel mezzo di un cambio d'epoca per molti versi drammatico e dalla meta incerta specialmente per i giovani, Benedetto XVI ha gettato un sasso nello stagno, riportando in primo piano l'emergenza educativa, sinonimo di questione giovanile vista dal punto più importante e decisivo per ricostruire la società: l'educazione. Occuparsi dei giovani coincide con la ricerca di nuove vie e risorse per un futuro di pace e giustizia globali. L'approdo in classe e sul web del giornale del Papa è un bel modo per ricordare un anniversario carico di anni e di esperienze; si celebra proiettati in avanti.
Nel 1861 in concomitanza con la nascita de "L'Osservatore Romano", nel mondo cattolico nasceva una tipografia segno, allora, della volontà di stare con i tempi. Alla vigilia del 150° del suo giornale, Benedetto XVI - prima volta di un Pontefice romano - si è collegato in video conferenza con i dodici astronauti della stazione spaziale internazionale. Segno dei tempi di uno spirito immutato. Perché un giornale abbia un domani, esplorando spazi sempre più ampi dell'universo fisico e spirituale, i giovani - esploratori abituali della rete - restano il patrimonio da coltivare per garantirlo al meglio.

(©L'Osservatore Romano 30 giugno - 1 luglio 2011)

Una lunga pagina di storia scritta grazie anche ai protagonisti più umili e sconosciuti

Pane quotidiano di piombo e di antimonio

di RAFFAELE ALESSANDRINI

"Ah, è lei? Ma lo sa che scrive bene?". Quelle parole lusinghiere e gratuite stuzzicarono la vanità di un giornalista praticante in una mattina dei primi anni Ottanta del secolo scorso. L'elogio gradito quanto inatteso, era risuonato in quel clima caldissimo, chiassoso e irrimediabilmente perduto, della tipografia de "L'Osservatore Romano" quale sarebbe stata fino al luglio del 1991, quando il "freddo" del computer avrebbe soppiantato l'ormai obsoleta stampa "a caldo".
Fino ad allora dal 1861, per 130 anni, e per ogni giorno, a eccezion fatta delle feste comandate - e di rare eccezioni come la pausa di alcune settimane all'indomani del 20 settembre 1870 o come quando, tra il 9 luglio e il 10 settembre 1919 i tipografi di Roma entrarono in sciopero - il giornale venne alla luce in quella atmosfera dall'afrore pungente di vapori di piombo, di antimonio, di olio, inchiostro e sudore, dove lo sferragliare possente della rotativa - l'ultima fu una gigantesca Winkler che girò per 44 anni - e il cigolio e il battere ritmato delle linotypes, di volta in volta o tutte insieme, accompagnavano il vociare dell'impaginatore che reclamava il titolista, del proto che rispondeva al telefono, del redattore che chiedeva delucidazioni sul materiale già composto e quello da comporre. Il tutto condito di grida, di richiami, di battute e di qualche immancabile risata.
Nella fattispecie a parlare era stato un uomo di piccola statura con indosso il grembiule nero d'ordinanza, la fronte alta e lo sguardo mite, dai modi semplici, schietti e garbati. Si chiamava Sante Principessa e faceva il linotipista. Sarebbe andato in pensione pochi anni dopo, nella tarda primavera del 1984. Il novellino di cui sopra, riferì a un collega anziano, a lui molto vicino, che ben conosceva l'ambiente de "L'Osservatore" del complimento ricevuto e questi gli disse di tenerlo in gran conto. Perchè i vecchi linotipisti - diceva - abituati come erano a trascrivere in righe di piombo testi originali di ogni genere, l'italiano lo conoscevano forse meglio di tanti altri, più titolati e togati critici; e c'era pure chi sapeva di latino.
Come il linotipista poeta Ottorino Gagliardi al quale Ugo Piazza, l'autore delle Poesie d'Angolo su "L'Osservatore della Domenica" a firma Puf (Piazza Ugo Faenza) - nonché amico carissimo e medico personale di Paolo VI - dedicò, in morte alcuni dei suoi versi più commoventi.
Principessa invece se n'è andato in punta di piedi, lo scorso mese di marzo e solo per pochi mesi non ha fatto in tempo a festeggiare il secolo e mezzo del giornale al quale aveva dedicato trentacinque anni della sua vita.
Non è naturalmente soltanto il suo volto e il suo nome che riaffiora nel ricordo. Ma la sua figura oggi ci sembra rappresentativa: sia dei tanti amici della vecchia tipografia - e non è un termine di convenienza - con i quali abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di condividere tanta parte della nostra vita, sia di quei moltissimi di cui in oltre un secolo e mezzo di storia si è smarrito il ricordo. Eppure anch'essi hanno speso la vita prestando al giornale il loro servizio: professionale specializzatissimo, intelligente; e in garbata, silenziosa umiltà.
Come in ogni redazione dietro le firme più o meno note e talvolta prestigiose, e i titoli più o meno efficaci, o il corredo illustrativo più o meno pertinente, vi è sempre una serie di persone le cui firme o sigle non compaiono quasi mai, così e a maggior ragione, questo vale per il personale della tipografia i cui nomi non vengono mai resi noti. Eppure sono essi che materialmente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, determinano il prodotto finito curandone i dettagli, perfezionandone la struttura e la veste.
E se oggi la tecnologia informatica ha decisamente semplificato il lavoro umano, non va dimenticato quel patrimonio storico di fatica, di dedizione, di cura, riversato quotidianamente sui telai dove si assiepavano le colonne di piombo e dove, sotto gli occhi del redattore di turno, gli impaginatori disponevano i materiali composti a seconda delle necessità e delle priorità d'impaginazione: apertura, spalla, taglio centrale, taglio basso, fogliettone, notizie. Il testo era troppo lungo? Bisognava tagliare - possibilmente senza far riscrivere nulla o quasi ai linotipisti. "Da qui a qui": quel periodo poteva essere rimosso senza danni; di altre righe si poteva fare a meno purché una virgola, "proprio quella lì", diventasse un punto. In tal caso bastava un sapiente, chirurgico, intervento con pinzetta o tenaglie. Testi più brevi, venivano adattati alla pagina con l'aiuto delle interlinee: sottili barrette di piombo di diverso spessore a seconda delle necessità - mezzo punto, un punto due punti tipografici, a seconda delle necessità e delle esigenze grafiche. "La penna dei tipografi" diceva uno degli impaginatori anziani - un signore alto e forte come un toro dall'aria mite e flemmatica (lo chiamavano il Professore) - mentre con sorprendente velocità le sue manone inserivano le interlinee nella colonna. Spazi tipografici presenti anche ora; ma a metterceli ci pensa il computer.
Il progresso tecnologico sostituisce il lavoro manuale; i tempi si riducono, le pagine si fanno e si disfanno in pochi minuti e tanta fatica e tanti sospiri sono risparmiati. Non parliamo poi della salute sempre a rischio. Gli operai ogni giorno dovevano bere bicchieroni di latte che sembra avesse virtù disintossicanti.
Una volta, raccontava uno dei "vecchi" della tipografia, si era svolta una gita aziendale a Tivoli - dove notoriamente vi sono terme di acque sulfuree - e alcuni di noi, diceva l'amico, bagnandosi le mani (quelle mani dalla pelle dura, temprata dalle scottature) se le ritrovarono sorprendentemente colorate di ocra. Era la reazione chimica al piombo e all'antimonio assunti quotidianamente.
Una storia lunga 130 anni scritta da centinaia di volti ignoti. Tutti i nomi però, come sappiamo, sono nel cuore di Dio.
Raccontava a chi scrive, un testimone oculare affidabilissimo e a lui molto vicino, un episodio del 1961 che spinge alla meditazione.
Ricorrendo il centenario de "L'Osservatore Romano", tra le varie iniziative, fu celebrata anche una messa per i tipografi morti che avevano prestato servizio al giornale. Il rito si tenne alla Chiesa Nuova in Roma. L'assemblea era disposta in gran parte sul lato destro dello storico, stupendo tempio barocco dei padri oratoriani che conserva le reliquie di san Filippo Neri. Gli sguardi erano rivolti all'imponente altare maggiore accompagnato dal celebre trittico di Pieter Paul Rubens dominato dall'effigie della Vergine Vallicelliana.
Bene; a un certo punto i presenti in preghiera, avvertirono nell'aria un intensissimo e inconfondibile effluvio di piombo e antimonio. Odore di tipografia. Il testimone di cui sopra, che fin da giovane ben conosceva i dintorni di Santa in Maria in Vallicella, pensò subito a una vecchia tipografia esistente proprio nell'attigua via della Chiesa Nuova. Quindi non diede importanza a quel fenomeno olfattivo. Solo più tardi lo stupore ritornò in lui: quando, facendoci mente locale, si rese conto che quell'esercizio era chiuso già da diversi anni.

(©L'Osservatore Romano 30 giugno - 1 luglio 2011)

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