La nuova evangelizzazione richiama tutti al primato di Dio
Cristiani consapevoli della propria identità
Stanisław Ryłko
Dal 7 al 28 ottobre 2012 si terrà a Roma la XIII assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, convocata dal Santo Padre Benedetto XVI sul tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana» e all’inizio di quest’anno la segreteria generale del Sinodo dei vescovi ne ha pubblicato i Lineamenta, un vero e proprio vademecum sulla nuova evangelizzazione, un approfondimento molto utile. Come è noto, il concetto non è nuovo: tutto il pontificato del beato Giovanni Paolo II è stato caratterizzato dal leit-motiv della nuova evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II non ha mancato di spiegarci cosa intendesse dire apponendo l’aggettivo «nuova» al termine tradizionale «evangelizzazione»: nuova nell’ardore, nuova nei metodi, nuova nelle espressioni (Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla XIX Assemblea ordinaria del Celam, 9 marzo 1983). Per una comprensione appropriata e fedele dei contenuti dei Lineamenta occorre comunque disporre di un’adeguata chiave di lettura. L’espressione «nuova evangelizzazione» infatti è divenuta così comune — persino abusata — che corriamo realmente il rischio di travisarne il senso, o, peggio, di ridurla a uno slogan insignificante.
Per arrivare al nocciolo della questione conviene partire dal magistero del beato Giovanni Paolo II per arrivare agli insegnamenti di Benedetto XVI, che anche in questo campo procede sulla medesima linea del suo predecessore. Per aiutare la Chiesa ad accogliere le sfide del terzo millennio, Giovanni Paolo II ha pubblicato, al termine del grande giubileo, la Lettera apostolica Novo Millennio ineunte, che contiene indicazioni essenziali e molto attuali sulla missione della Chiesa ai nostri giorni e mette in guardia da alcuni seri rischi. E così al numero 15 leggiamo: «Il nostro è tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all’agitazione, col facile rischio del “fare per fare”. Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di “essere” prima che di “fare”. Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: “Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10, 41-42)». Pertanto — conclude il Papa — il «mistero di Cristo» deve essere sempre «fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale». Poco oltre, al n. 29, troviamo una frase divenuta famosa: «Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!». Non una formula, dunque, ma una Persona: di fronte al moltiplicarsi di iniziative di studio sulla nuova evangelizzazione, anche per sé valide e interessanti, bisogna guardarsi dalla illusoria tentazione, sempre presente negli ambienti ecclesiastici, di cercare una «formula magica» per l’evangelizzazione, una sorta di metodo infallibile dall’efficacia garantita.
Per chiarire ulteriormente la questione, conviene rileggere quanto Benedetto XVI ha affermato rivolgendosi ai vescovi della Svizzera: «Si può fare molto, tanto nel campo ecclesiastico, tutto per Dio e in ciò rimanere totalmente presso sé stessi, senza incontrare Dio». Sono parole forti: apparentemente si può fare di tutto per Dio, ma in realtà rimanere ripiegati su se stessi, senza mai entrare davvero in relazione con Dio. Il Papa prosegue: «L’impegno sostituisce la fede, ma poi si vuota dall’interno». Viene evidenziato qui il rischio corso da numerosi evangelizzatori di oggi, lo svuotamento interiore, che è l’inevitabile conseguenza della perdita dell’essenziale, vale a dire della dimenticanza della fede. Neanche negli ambienti ecclesiali, infatti, come spesso ci ricorda papa Benedetto XVI, la fede può essere data per scontata (Cfr. Benedetto XVI, Omelia durante il viaggio apostolico in Portogallo, 11 maggio 2010). «Ritengo pertanto — continua il Santo Padre — che dovremmo impegnarci soprattutto: nell’ascolto del Signore, nella preghiera, nella partecipazione intima ai sacramenti, nell’imparare i sentimenti di Dio nel volto e nelle sofferenze degli uomini, per essere così contagiati dalla sua gioia» (Id., Omelia della Santa Messa con i vescovi della Svizzera, 7 novembre 2006). A partire da questa considerazione, il Papa prosegue sottolineando la necessità di riaffermare la centralità di Dio nella vita dei cristiani. Ribadire l’importanza della centralità di Dio nell’evangelizzazione può forse sembrare una tautologia, ma in realtà non è affatto un concetto scontato.
Per completare il quadro dei riferimenti magisteriali, rileggiamo le parole pronunciate a braccio da Benedetto XVI rispondendo a un giornalista, sul tema del primato di Dio nell’evangelizzazione: «Una Chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata. Perché la Chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un altro, serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità, le grandi forze di amore, di riconciliazione apparse in questa figura e che sempre vengono dalla presenza di Gesù Cristo. In questo senso la Chiesa non cerca la propria attrattività, ma deve essere trasparente per Gesù Cristo. E nella misura nella quale non sta per se stessa, come corpo forte e potente nel mondo, che vuole avere il suo potere, ma si fa semplicemente voce di un altro, diventa realmente trasparenza per la grande figura di Cristo e le grandi verità che ha portato nell’umanità, la forza dell’amore; allora in questo momento si ascolta e si accetta la Chiesa. Essa non dovrebbe considerare se stessa ma aiutare a considerare l’altro, ed essa stessa vedere e parlare dell’altro e per l’altro» (Id., Intervista rilasciata sull’aereo diretto nel Regno Unito, 16 settembre 2010).
È questo il nocciolo della questione della nuova evangelizzazione: la centralità di Dio nella nostra vita. Un antico adagio scolastico latino recita: operari sequitur esse e può essere tradotto in modo appropriato dicendo: il nostro agire esprime il nostro essere. La nostra prima preoccupazione, come i grandi santi ci insegnano, andrebbe rivolta all’essere cristiani. Sant’Ignazio di Antiochia, durante il viaggio verso Roma, dove l’attendeva il martirio, scrive ai fedeli della Città Eterna: «Pregate per me, perché non solo porti il nome di cristiano, ma lo sia veramente» (Cfr. Lettera ai Romani, III, 2)
Alla radice dell’evangelizzazione dunque sta l’essere, non le modalità di annuncio, non i metodi, non le tecniche di comunicazione né le scelte di linguaggio. Certo si tratta di questioni non di poco conto, ma che non possono costituire il punto di partenza. Si parte dall’essere, dall’essere cristiani, dall’essere Chiesa. Infatti, se parliamo di nuova evangelizzazione, abbiamo in mente un modo rinnovato di essere cristiani, abbiamo in mente la preoccupazione di trovare ambienti dove possano nascere cristiani autentici, formati all’unità tra fede e vita, a un nuovo modo di essere Chiesa, capace di testimoniare la bellezza di essere cristiani. Quindi non la ricerca di una formula magica per attirare gli uomini e le donne del nostro tempo, ma la consapevolezza di dover partire da noi stessi, dal nostro modo di essere discepoli di Cristo. Nei Lineamenta per il prossimo Sinodo non mancano inequivocabili richiami alla conversione in tal senso.
Anche i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono chiamati a riconsiderare in questa prospettiva la loro vocazione e missione, il che significa iniziare una seria riflessione sulla loro stessa identità. Indubbiamente le nuove realtà ecclesiali hanno dimostrato una singolare capacità di liberare in tanti, soprattutto laici, donne e uomini, uno slancio missionario insospettabile, che prima neanche i diretti interessati erano consapevoli di possedere. Da dove viene una tale capacità? Non certo da «formule magiche», da metodi preconfezionati, ma piuttosto dalla pedagogia della fede generata dal carisma, idonea a formare i battezzati, a farne cristiani consapevoli della propria vocazione e quindi della propria missione. Per questa ragione, per le nuove comunità e i movimenti ecclesiali l’appello alla nuova evangelizzazione significa un forte richiamo alla propria identità. Essere se stessi, come movimenti, vuol dire precisamente riaccogliere con spirito nuovo, con entusiasmo rinnovato, il carisma proprio della propria comunità, del movimento di appartenenza. Nella fase storica che stiamo attraversando è davvero fondamentale riscoprire il carisma. Nella vita subentrano, presto o tardi, — ne parlano anche i Lineamenta — la stanchezza, lo scoraggiamento e anche una certa routine, non nascondiamolo. Quanto abbiamo di più sacro, di più bello, tende a sbiadire nel quotidiano. La maggior parte dei movimenti e delle nuove comunità internazionali hanno ormai alle spalle una storia consistente: alcuni trent’anni, altri quaranta, cinquanta o più. Il dispiegarsi del tempo per la vita di una comunità comporta il passaggio attraverso diverse «stagioni»: stagione dell’infanzia, dell’adolescenza, e poi della maturità, quella maturità ecclesiale tanto auspicata da Giovanni Paolo II. (Cfr. Discorso ai movimenti e alle nuove comunità, 30 maggio 1998, n. 6). Con il succedersi delle stagioni emerge la necessità di difendere la freschezza dello sguardo sul carisma, lo stupore di fronte al dono singolare ricevuto da Dio. Nella capacità di rinnovata accoglienza del carisma sta dunque la possibilità per i movimenti ecclesiali e le nuove comunità di offrire il loro decisivo contributo a favore della nuova evangelizzazione, la vera novità che può rinvigorire lo slancio missionario della Chiesa di oggi, la specificità che accomuna i nuovi carismi. Vale a dire il loro stesso essere. Il beato Giovanni Paolo II amava l’espressione «essere di più» (Cfr., ad esempio, discorso alla III Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, 28 gennaio 1979, III, 4): per i movimenti ecclesiali e le nuove comunità «essere di più» vuol dire riscoprire sempre di nuovo la bellezza del proprio carisma ricordandosi che nessun carisma è dato solo per se stessi, ma per il bene della Chiesa e della sua missione. Da questa consapevolezza scaturisce la straordinaria fantasia missionaria che tutti riconoscono alle nuove realtà ecclesiali, il loro coraggio nell’annuncio. Non si tratta quindi di elaborare una formula speciale, ma di riappropriarsi del loro stesso essere.
Affrontando il tema della nuova evangelizzazione, accogliere questa premessa è assolutamente necessario per non correre il rischio di strumentalizzare le realtà carismatiche che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa di oggi. Troppo spesso da loro ci si aspettano «ricette» belle e pronte per la nuova evangelizzazione, metodologie eccetera, dobbiamo invece chiedere loro di essere sempre più collaboratrici dello Spirito Santo per generare cristiani veri. L’appello alla nuova evangelizzazione infatti richiama a un nuovo modo di essere cristiani, un nuovo modo di essere Chiesa, dove il «nuovo» è il modello evangelico che traspare dagli Atti degli apostoli, la forza dello Spirito che rinnova tutta la comunità cristiana.
(©L'Osservatore Romano 3 agosto 2011)
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