INTERVISTA
Non c’è più legge se non c’è religione
Andrea Galli
«La religione dà alla legge il suo spirito e ispira la sua adesione alla tradizione e alla giustizia. La legge dà alla religione il senso dell’ordine, dell’organizzazione e dell’ortodossia».
Parla John Witte jr., direttore del Centro per lo studio della Legge e della Religione all’Emory University di Atlanta, negli Stati Uniti, considerato uno dei maggiori esperti nel mondo anglosassone di relazioni tra Stato e Chiesa. E osservatore attento, pur essendo di formazione calvinista e lavorando in un ateneo metodista, del contributo cattolico al dibattito sulla laicità. Interverrà stasera al Centro culturale di Milano, insieme al costituzionalista Andrea Pin, sul tema «Democrazie, Diritto e Stato a partire dal discorso di Benedetto XVI a Westminster», e venerdì alle 18 alla Fondazione di Venezia su «La religione in America».
Professor Witte, la sua posizione su religione e legge non sembra lontana da quella espressa dal Papa a Londra, alla Camera dei Lords, quando ha parlato del contributo della religione al dibattito politico.
«Ho trovato quel discorso del Papa molto efficace, una ripresa sintetica di punti cardinali della Dignitatis Humanae e della Veritatis Splendor. Il magistero e in particolar modo la dottrina sociale della Chiesa cattolica sono un riferimento importante nel nostro Centro alla Emory University, da diversi anni. Molti dei nostri ricercatori, per quanto non cattolici, sono particolarmente versati sull’argomento. Questo perché se il mondo protestante ha abbandonato una visione organica del rapporto tra fede e diritto, fede e politica, agli inizi non è stato così. Riandando al XVI secolo, ai padri della Riforma, si può vedere come in loro fosse presente un’elaborata visione di questo rapporto. Il nostro sforzo è stato di tornare a queste origini, cercando di far capire come per la scienza giurisprudenziale sia necessario studiare le fonti spirituali che hanno orientato il diritto per come lo conosciamo oggi. E come per la fede sia necessario confrontarsi in modo serio con i problemi del diritto contemporaneo. Sviluppando una capacità di argomentazione che le permetta di essere una risorsa per il dibattito pubblico. Ed è quello che invita a fare il Santo Padre».
Benedetto XVI, pur senza citarlo esplicitamente, ha fatto riferimento al diritto naturale quando ha detto che «le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione». È questa il punto di mediazione e di raccordo con la laicità. E nella tradizione protestante il diritto naturale non gode di buona fama…
«Su questo punto siamo stati "ingannati" dai grandi pensatori protestanti dell’800 e ’900, in particolare Karl Barth, secondo cui i protestanti non avrebbero mai creduto nella legge naturale. Grandi e brillanti teologi, ma che hanno distorto la tradizione protestante. In realtà, se uno torna alle fonti che citavo prima – da Melantone a Lutero a Calvino – può notare in tutti una riflessione sul diritto naturale, improntata a un forte senso dell’ordine della creazione. La riscoperta di questa tradizione, per chi la compie, ha tra l’altro spesso come conseguenza un riavvicinamento al mondo cattolico».
Detto da un protestante che lavora in Georgia, in quel Sud dove l’anticattolicesimo è ben radicato, fa quasi effetto…
«L’anti-cattolicesimo negli Stati Uniti si basava sull’immagine e sulle posizioni della Chiesa pre-conciliare. Dopo il Concilio, gradatamente, molti pregiudizi sono scomparsi. Ad aiutare questo processo, attualmente, c’è poi un ritorno di interesse per la patristica, latina e greca, da sant’Agostino a san Giovanni Crisostomo. E chi legge questi Padri della Chiesa tra l’altro, soprattutto Agostino, capisce l’importanza che aveva per loro il diritto naturale. Tutto questo costituisce un’opportunità per un ecumenismo oggi quanto mai necessario: di fronte a una civilizzazione che si fa sempre più ostile ai cristiani in quanto tali, è necessario che costoro mettano in secondo piano le divisioni e prima di tutto riscoprano il loro far parte dello stesso corpo di Cristo, in secondo luogo trovino una sorta di alleanza per difendere la propria fede e i propri valori».
Lei sottolinea con forza il contributo della religione e del cristianesimo particolarmente alla democrazia. Condivide il famoso «ditkum» del giurista tedesco Ernst- Wolfgang Böckenförde, quello secondo cui «lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire»?
«Per dirla in estrema sintesi: sì. Il moderno liberalismo vive effettivamente di postulati teologici formulati da cattolici e protestanti nei secoli. Molti dei fondamenti delle istituzioni democratiche – dall’ordine costituzionale, al ruolo della legge, ai diritti dell’individuo, eccetera – si reggono su un substrato teologico. I diritti umani si reggono su un’ontologia dell’uomo, da cui deriva la sua dignità. L’individuo è sovrano e di conseguenza il popolo è sovrano perché riflette la sovranità di Dio».
© Copyright Avvenire, 30 novembre 2010
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