venerdì 1 aprile 2011

"Cortile dei Gentili". Benvenga un signorile e onesto rilancio del dialogo, del confronto e persino dello scontro tra le due sponde del credere (Silini)

Credenti e atei, fraterni nemici

di CARLO SILINI

Come don Camillo e Peppone. La Chiesa cattolica e gli atei, i cui rappresentanti si sono incontrati a Parigi il 24 e 25 marzo scorsi nell’ambito dell’iniziativa «Il Cortile dei gentili», avrebbero una gran voglia di riempirsi di randellate, ma, in fondo in fondo, si assomigliano e si vogliono bene. Il cortile dei gentili, per chi lo ignorasse, era un vasto spazio vicino al tempio di Gerusalemme, destinato alle discussioni fra giudei e non giudei (i «gentili», nel linguaggio biblico). Nel 2009 papa Benedetto XVI ha lanciato l’idea di organizzare incontri di dialogo con i non credenti e ora, a distanza di due anni, la parola è passata agli illustri relatori che si sono confrontati con reciproca soddisfazione «sui temi della vita» nella città dell’Illuminismo. Ottimo teatro per confrontare la luce della fede ai lumi del dubbio.
Non vorremmo sottrarci ai doverosi, ma scontati, plausi all’iniziativa che agli «scontri di civiltà» sembra preferire i «confronti» (perché non c’è dubbio che esista una civiltà credente ed una non credente). E di questi tempi non è poco.
Ma ci assale il sospetto che il «Cortile dei gentili» celebri la nostalgia di un tempo che fu, più che la passione per quello che verrà. E che segni una crisi comune di fronte ad un «nuovo che avanza» che taglia fuori sia la fede in Dio sia la fede nel fatto che Dio non ci sia.
È infatti solo un ricordo la lunga epoca durante la quale religione e ateismo erano una la negazione dell’altro e viceversa. Nella battaglia per la verità, l’«altro» rappresentava, a seconda del punto di vista, l’errore indotto dal demonio o la cecità generata dalla superstizione. Fase terribile per gli eretici, ma anche indispensabile, nell’epoca moderna, per il reciproco rafforzamento teorico. Non c’è credente adulto che possa fare a meno di confrontarsi, e scottarsi, con l’acido muriatico delle argomentazioni atee. Non c’è ateo intelligente che possa sottrarsi alla vertigine, e al desiderio, dell’ipotesi divina. Credere in Dio è la tentazione che tempra l’ateo e lo costringe a costruire un sistema di verità solitario e alternativo; negare Dio è lo spettro che obbliga il credente a dare ragione della propria fede di fronte al tribunale della dea ragione. Gli uni hanno bisogno degli altri per portare a maturazione le proprie convinzioni ed affermare i propri dogmi.
Nemiche benefiche, ai fini della propria autocomprensione, credenza e non credenza, andavano a braccetto nella ricerca della verità, anche se finivano per trovarla in luoghi, sistemi teorici e dogmi opposti. L’uomo di fede adulta è quasi sempre un eretico mancato. Simmetricamente, lo scettico convinto è quasi sempre un apologeta religioso mancato. In entrambi, tuttavia, brucia con identico tormento l’ossessione per il vero.
Oggi si è passati dal nobile e viscerale scontro con l’avversario, reciproca palestra di formazione dottrinale, allo sberleffo irrispettoso o alle riverenze sospette.
Lo sberleffo: quando i non credenti cercano di convincerci dell’inferiorità intellettuale di chi crede (e così si spiegano le etimologie taroccate di Odifreddi, quando sostiene che «cristiano» significa «cretino»); oppure, sul fronte opposto, quando i religiosi non riescono a nascondere il proprio disprezzo per chi mette in discussione i loro dogmi (Padre Livio Fanzaga, leader ascoltatissimo di Radio Maria, in diretta radiofonica si compiace di mostrare agli atei «quanto sono fessi»). Capolavori di dotto infantilismo.
Le riverenze sospette: quando ecclesiastici normalmente feroci nei confronti dei costumi degradati del mondo sfilano a braccetto con politici che fino all’altro ieri ostentavano noncuranza religiosa o ateismo professo e fino a ieri sera seguivano comportamenti privati in lapalissiana opposizione con i dettami morali della Chiesa. Capolavori di interessata ipocrisia.
Benvenga, al cospetto di queste costernanti derive, un signorile e onesto rilancio del dialogo, del confronto e persino dello scontro tra le due sponde del credere.
Benvenga, addirittura, la speranza inconfessata di strappare un dubbio, se non proprio un’anima, al campo avverso. Ma tutto questo tradisce la sottile malinconia, su un fronte e sull’altro, di un sano e intelligente antagonista col quale fare a pugni. Ridateci Marx, ridateci Freud, gridano i credenti. Ridateci l’antimodernismo, ridateci il Sillabo, replicano atei e agnostici all’antica.
E allora Peppone e don Camillo, perduti nella loro solitudine, pur restando uno irriducibile all’altro, si abbracciano piangendo in un Cortile parigino, da buoni nemici fraterni. E insieme osservano sgomenti l’avanzata di un altro dio, silente e potentissimo: l’indifferenza alla ricerca di un senso ultimo delle cose. Un dio miope, sorridente e menefreghista che della disputa sui massimi sistemi non sa che farsene.

© Copyright Corriere del Ticino, 1° aprile 2011

1 commento:

  1. Magister ha straragiono, pure io sono basita da questa latitanza comunicativa.
    http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347333
    Alessia

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