Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
Il pressing della Cina sul Vaticano
Nella lista dei nuovi futuri vescovi potrebbero entrare candidati privi del consenso papale. Benedetto XVI ha già censurato le pretese di Pechino
Paolo D'Andrea
Per la diplomazia vaticana già alle prese con le crisi arabe potrebbe presto riaprirsi anche il fronte cinese. Ieri è stato ordinato un vescovo nella provincia meridionale del Guangdong. Si tratta di monsignor Paolo Liang Jiansen, nuovo vescovo di Jangmen. L'elezione di Liang di per sé non pone alcun problema: sul suo nome era già confluito da tempo il consenso parallelo dei Palazzi vaticani e di quelli del regime cinese. Ma presto potrebbero seguire altre ordinazioni episcopali a complicare ulteriormente i rapporti tra Pechino e la Santa Sede, entrati in black out dallo scorso dicembre. Nella lista di nuovi futuri vescovi, infatti, potrebbero figurare anche candidati privi del necessario consenso papale. Questi verrebbero ordinati senza l'approvazione della Santa Sede, dopo essere stati selezionati e approvati coi meccanismi di elezione "democratica" locale predisposti dal regime.
La nomina dei vescovi costituisce da almeno dodici anni il nervo scoperto che i circoli di Pechino vanno a punzecchiare ogni volta che vogliono mandare un segnale forte al sistema nervoso centrale della Chiesa di Roma. Ormai il messaggio è chiaro: il potere cinese, nella sua attuale configurazione, è disposto a concedere alla Chiesa una condizione di libertà vigilata, e la Santa Sede deve accettare di negoziare le nomine episcopali con gli apparati di controllo della vita ecclesiale creati dalla politica religiosa del regime.
Negli ultimi anni, un possibile accordo sul punto dolente delle nomine episcopali sembrava profilarsi all'orizzonte. La Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi pubblicata nel giugno 2007 aveva ripetuto che la pretesa di porsi «al di sopra dei vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale» esercitata dagli apparati di controllo ispirati dal Partito - come l'associazione patriottica dei cattolici cinesi - «non corrisponde alla dottrina cattolica». Ma nello stesso tempo, la stessa Lettera papale aveva mostrato comprensione davanti al fatto «che le autorità governative siano attente alla scelta di coloro che svolgeranno l'importante ruolo di guide e di pastori delle comunità cattoliche locali», e aveva auspicato addirittura «un accordo con il governo per risolvere alcune questioni riguardanti la scelta dei candidati all'episcopato».
Tra la primavera e l'estate del 2010, una serie di dieci nomine episcopali avevano ottenuto il riconoscimento parallelo delle autorità civili e del vescovo di Roma. Poi, gli attendismi e le pause della delicata partita a scacchi hanno rallentato la trattativa, e dopo qualche carota i leader cinesi hanno deciso di tornare al bastone. Prima imponendo una nuova ordinazione illegittima, avvenuta nella diocesi di Chengde lo scorso 20 novembre, e poi spingendo vescovi, sacerdoti, religiosi e laici a partecipare a dicembre alla Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi, il parlamentino pseudo-democratico pilotato dal governo che ha redistribuito le cariche ai vertici della Chiesa cinese. Affidando la presidenza del Collegio dei vescovi cinesi - organo riconosciuto dal regime ma non dalla Santa Sede - al vescovo illegittimo Giuseppe Ma Yinglin, ordinato nel 2006 senza mandato apostolico.
Adesso, davanti all'imminente nuova serie di possibili nomine, la palla passa di nuovo Oltretevere. Come ogni anno, nelle prossime settimane dovrebbe riunirsi la commissione di esperti e alti funzionari vaticani convocati periodicamente a confrontarsi per suggerire scelte operative sul delicato dossier cinese. All'interno del brainstorming sino-cattolico c'è chi - a partire dal cardinale di Hong Kong Joseph Zen - da tempo sponsorizza la linea della fermezza. Secondo Zen e i suoi consentanei, è finito il tempo dei compromessi e delle soluzioni negoziate. Adesso bisogna parlar chiaro e richiamare anche i vescovi cinesi a interrompere ogni rapporto con gli organismi pseudo-ecclesiali imposti dal regime, magari minacciando anche qualche pena canonica.
Questa linea della fermezza è sembrata prevalere nell'ultimo anno anche Oltretevere. A fine marzo 2010, un comunicato ufficiale emesso dopo la riunione della commissione vaticana sulla Cina aveva diffidato i vescovi cinesi dal partecipare a incontri e iniziative organizzati dall'Associazione patriottica. A fine anno, dopo l'assemblea di dicembre, un altro duro comunicato di reazione vaticano conteneva alcuni passaggi che potevano esser letti come un pubblico rimprovero anche per quei vescovi che - sotto pressione e coazione - avevano preso parte all'evento.
Sta di fatto che la leadership cinese non sembra essersi troppo preoccupata delle rimostranze vaticane. A pagare il prezzo più alto sembra proprio il gregge inerme dei cattolici cinesi. Indiscrezioni provenienti dalla Cina raccontano di vescovi che si nascondono perché dopo il comunicato vaticano si sentono giudicati come pastori deboli se non addirittura come potenziali traditori. Si riacutizzano le tensioni tra l'area cattolica che si muove entro i limiti imposti dalla politica religiosa del regime e quella cosiddetta "clandestina" che non accetta tutele e sudditanze statali. E se si moltiplicassero ordinazioni illegittime forzate, tornerebbe a affacciarsi lo spettro di quella divisione dolorosa che per lungo tempo ha messo a repentaglio la stessa unità sacramentale tra i cattolici cinesi, e che negli ultimi anni appariva in fase di riassorbimento.
In questa situazione complicata, c'è davvero bisogno di quella lungimiranza con cui la Santa Sede ha saputo tante volte sciogliere i nodi e aggirare le trappole poste sul cammino della Chiesa che è in Cina. Si tratta di parlar chiaro, ma anche di andare a "vedere" le carte degli altri.
Ad esempio, è passata quasi del tutto sotto silenzio la riforma degli statuti del Collegio dei vescovi riconosciuti dal governo, dove per la prima volta si afferma che in materia di dogmi e di morale tale assemblea episcopale è «in unione con il Successore di Pietro, il capo della comunità dei discepoli». E si specifica che il principio di autonomia e di indipendenza a cui si deve attenere la Chiesa di Cina riguarda gli «affari politici, economici e di organizzazione ecclesiale».
Ai dirigenti cinesi sta a cuore che la Chiesa garantisca un lealismo politico senza ombre nei confronti del regime. Per questo mantengono la "presa" sulle ordinazioni episcopali. Coi loro occhiali politici vaglieranno anche la linea che uscirà dalla prossima commissione vaticana sulla Cina. La riapertura di canali di dialogo concreti e operativi potrebbe mettere in stand by anche nuove ordinazioni illegittime. Ma le enigmatiche dinamiche del potere cinese garantiscono margini di tempo ristretti per una ripresa delle trattative: a ottobre entrano nel vivo i preparativi per la successione ai vertici del regime, e a quel punto anche a Pechino risuonerà l'extra omnes e tutte le partite ancora in corso verranno sospese.
© Copyright Il Secolo d'Italia, 31 marzo 2011
Ricordiamo che e' di ieri la notizia della nomina di un vescovo cinese approvato sia da Pechino sia da Roma.
R.
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