mercoledì 6 luglio 2011

Il Papa e la «campagna» dell’anima (Di Giacomo)

Il Papa e la «campagna» dell’anima

Filippo Di Giacomo

Anima», una parola che negli insegnamenti di Benedetto XVI, ricorre spesso. Anzi, per riassumere ciò che il Pontefice indica come «identità» specifica del cattolico contemporaneo, si potrebbe dire che Papa Ratzinger non ha dubbi: essere credenti, oggi, significa cercare di dare un’anima alla storia e alle realtà che la stanno costituendo. Osservando il vasto mare del web, e scorgendovi anche per la Chiesa un «passaggio epocale…ricco e fecondo di nuove opportunità» il Papa vi ha riconosciuto un campo dove abitare «con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete». «La via per andare a Dio», diceva Raïssa Maritain, «è infinitamente corta perché egli è vicino a noi come la nostra anima». La nostra anima è sempre viva.
Ma se vogliamo afferrarla, se vogliamo costringerla nei paramenti della nostra razionalità, ci sfugge. E nonostante questo, continua ad avvolgerci. E’ dentro e fuori di noi. Sottrarsi alla sua presenza sarebbe come sottrarsi alla realtà che incarniamo. La possiamo gettare dalla finestra, ma rientra dalla porta. Quando siamo stanchi di chiamarla “anima”, la chiamiamo “psiche”. Il poeta Omero, che di anime complesse e confuse se ne intendeva, sosteneva che è come «l’occhio che vede e l’orecchio che ode».
E forse a questo alludeva Cristo quando proclamava beati chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Ma l’anima è anche la pelle che profuma, l’olfatto che odora, il palato che gusta, il cuore che ama, il cervello che pensa. E se l’atteggiamento religioso che ci avvicina a Dio è l’umile ammirazione, lo stesso atteggiamento vale per avvicinarci alla nostra anima. Dobbiamo “ammirarci” perché coscienti, con la parole della Bibbia, che Dio ci ha “costruiti” come dei prodigi. Siamo diventati tutti più poveri da quando le parole della meraviglia delle nostre origini sono state confuse con l’uso improprio dei linguaggi delle religioni, della psicoanalisi, della sociologia, della medicina, della filosofia, della politica...E proprio perché così ricchi di idee, così complessi, così confusi in un miscuglio di teorie, modelli, opinioni, sentiamo di dover tornare all’essenziale. Cosa che, spesso, equivale ad interrogarsi sulla propria anima, sul proprio io, sullo spessore che questo “io” che ognuno di noi crede di possedere, di essere. E se in questo percorso il nostro cuore, la nostra anima, dovesse “condannarci”, il cristiano può avere la certezza che viene da Giovanni quando assicura che, anche in questo caso «Dio è più grande del nostro cuore». Benedetto XVI ha esortato più volte, in questi sei anni di pontificato, sia le istituzioni pubbliche sia le società religiosamente motivate a ritrovare la loro «anima» allo scopo di «dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all'azione pratica».
Il mondo in cui viviamo è diventato ormai, uno spaventoso palcoscenico planetario teletrasmesso non-stop ventiquattro ore su ventiquattro. E miliardi di persone, quotidianamente vengono nutrite di orrore e di avanspettacolo, di decapitazioni e di consigli per gli acquisti. Sono cioè, continuamente indotte ad uscire dall’umano che è in loro. Tuttavia riuscire a separare il proprio stile di vita dal furore del mondo contemporaneo è vana illusione, una impossibile fuga dalla realtà. Quello che invece, dal punto di vista morale, sembra improrogabile è l’assunzione della vocazione, condivisibile con l’umanità intera senza alcuna esclusione, a scoprire il bene più o meno celato nel nuovo che sta nascendo. Una vocazione, questa, facilitata dalla straordinaria ricchezza culturale che ereditiamo dall’Occidente cristiano e che i credenti in Cristo sono chiamati, ancora una volta, a far fruttificare. Il nostro è un tempo straordinariamente propizio affinché i cristiani, riprendano a meditare, a Milano e altrove, su come suscitare risposte serie all’esigenza politica di una convivenza sensata e pacificata tra persone e popoli. Questa possibilità, da Giovanni Paolo II in poi, la Chiesa la chiama “nuova evangelizzazione”, in favore della quale il teologo ortodosso Olivier Clément, per decenni, ha suggerito alle Chiese d’Oriente e d’Occidente di interrogarsi in forma poli-fonica e poli-croma, cioè in modo interculturale e interreligioso. Perché questo è il solo modo che abbiamo, riflettendo seriamente sulla nostra e sull’altrui anima, per costruire le categorie di un’antropologia dell’umanità realmente globale. Di un’umanità che non abbia più bisogno, per affermare la propria identità culturale e religiosa, di contrapporsi agli altri con i consueti strumenti dialettici e militari del conflitto politico e della guerra. Perché la storia di tutte le religioni ci insegna che solo dall’ascolto e dalla cura della nostra più fragile interiorità si sprigiona la critica più lucida e radicale alle tante inumanità del nostro mondo.

© Copyright L'Unità, 6 luglio 2011 consultabile online anche qui.

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