Carissimi amici, anche quest'anno abbiamo un po' esagerato con i post e siamo arrivati a quota 11260.
Esagerati! :-)
Come è consuetudine, è arrivato il momento di passare ad un nuovo blog, cambiato nell'indirizzo e nei colori ma non nei contenuti e certamente non nelle finalità.
Ringrazio tutti coloro che nell'ultimo anno hanno manifestato affetto e vicinanza al blog, segnalando articoli e commenti, intervenendo nelle discussioni o facendomi sentire la loro vicinanza in vario modo.
Ringrazio chi ha voluto contribuire sostenendo concretamente il blog con una donazione e auspico che la generosità non venga meno perchè indispensabile alla sopravvivenza di questo spazio virtuale.
Perdonatemi se mi permetto di chiedere a chi può uno sforzo, anche piccolo, per il proseguimento di un lavoro entusiasmante, ma sicuramente non facile di impegno personale.
Detto questo, lasciamo "IL BLOG DEGLI AMICI DI PAPA RATZINGER [4]" e andiamo nella nuova "casa":
IL BLOG DEGLI AMICI DI PAPA RATZINGER [5]
giovedì 1 dicembre 2011
A colloquio con il cardinale Arinze sul viaggio di Benedetto XVI in Benin. L'egoismo del mondo e la speranza dell'Africa (Ponzi)
A colloquio con il cardinale Arinze sul viaggio di Benedetto XVI in Benin
L'egoismo del mondo e la speranza dell'Africa
di MARIO PONZI
Vecchie e nuove schiavitù rendono ancora oggi incerto e faticoso il cammino dell'Africa verso il suo definitivo sviluppo. Egoismi di mercato, interessi di cartello mascherati dal pietismo, escludono di fatto il continente nero dal sistema mondiale che si vuole globalizzato. "L'unico aiuto di cui il popolo africano avrebbe veramente bisogno - sostiene in questa intervista il cardinale nigeriano Francis Arinze, anch'egli nel seguito di Benedetto XVI durante il recente viaggio in Benin - sarebbe quello di essere messo in condizione di alzarsi e camminare da solo. Ha la forza per farlo". Ma "gli sarà mai consentito?" si chiede il porporato.
"Africa, abbi fiducia, alzati". Come interpreta questa esortazione del Papa all'Africa?
Non poteva esserci richiamo più pertinente per l'Africa. Il continente deve affrontare sfide e problemi di varia natura. Ma le sfide si affrontano preparandosi bene e i problemi si possono risolvere, superare. La situazione è molto chiara. E il sinodo, celebrato due anni orsono, l'ha ben definita e ha indicato la strada da percorrere: riconciliazione, giustizia e pace. Indubbiamente il continente ha molto bisogno di tutte e tre. La riconciliazione è necessaria tra le diverse nazioni, ma è molto più urgente all'interno di ogni singolo Paese. Non bisogna però dimenticare che il male viene da lontano. Gli stessi colonizzatori non hanno tenuto molto in considerazione, per esempio, confini geografici ed etnie. Il principio che regolava la loro azione era esclusivamente commerciale. Così è capitato che un gruppo etnico, legato da usanze e costumi tradizionali, ma soprattutto dallo stesso idioma, si sia trovato improvvisamente diviso, costretto a vivere frazionato in Paesi diversi. Chi conosce bene la storia di questo immenso ed eterogeneo continente e dei suoi tanti popoli, guardando una carta geopolitica dell'Africa ha la netta sensazione che qualcuno abbia tracciato un riga dritta, dall'alto verso il basso, per separare le nazioni, quasi senza criterio. Sono nate proprio qui le divisioni che penalizzano il continente. Dunque bisogna cercare di trovare una soluzione, stante il fatto che non si possono mutare i confini. La riconciliazione fra tutti gli africani, sia a livello internazionale che nazionale, sembra l'unica strada percorribile.
Pensa che sia un percorso effettivamente praticabile?
Indubbiamente è difficile. Per avere un'idea di quanto lo sia, basta pensare alla situazione della Nigeria dove vivono, a stretto contatto di gomito, oltre duecento etnie diverse per usi, costumi e lingua. Ecco perché il primo passo da fare è quello verso la riconciliazione. Bisogna imparare a conoscersi, a rispettarsi, ad accettarsi, ad aiutarsi prendendo ciascuno quello che c'è di buono nell'altro. Solo così si può andare avanti, insieme. E poi la giustizia. Ma questa è una virtù da conquistare non solo da parte degli africani. Essa è un valore per tutti i popoli. E devono applicarla prima di tutto i poteri pubblici, la società civile, lo Stato, i governi ed anche la Chiesa. Bisogna avere rispetto dei diritti di tutti gli individui. Il primo diritto da rispettare è quello alla vita. La vita non è voluta, è concepita: dunque richiama in sé una responsabilità individuale e sociale di grande impegno. Infine la pace. L'Africa ha bisogno di pace vera, non di quella del cimitero, dove il silenzio è pace. No, non è questa la pace di cui l'Africa ha bisogno. Essa aspira a una pace costruita sul rispetto degli altri, sul rispetto della sacralità della vita; quella che fa dimenticare i torti subiti e rinnega la vendetta. Questa è la pace di cui il continente ha bisogno.
Nelle poche ore trascorse in Benin, ma soprattutto nella sua esortazione post-sinodale, il Papa è stato molto esplicito in questo senso.
È stato l'aspetto più significativo della visita. In molti passaggi, sia dell'esortazione sia dei discorsi pronunciati, ho colto molto chiaramente indicazioni appropriate di Benedetto XVI per i popoli africani. Ma ho colto anche i segni della sua preoccupazione.
Da dove nasce questa preoccupazione?
Anche se le ha fatto coraggio e ha riacceso nel profondo dell'anima la luce della speranza, egli sa molto bene che l'Africa, per come è stata ridotta, non può farcela da sola. Ha comunque bisogno di un aiuto per rialzarsi. E poi non bisogna dimenticare che alcuni problemi nascono dall'esterno. Voglio dire che dei tanti mali che affliggono il continente esistono cause, o anche concause se si vuole, che non dipendono dal popolo africano, ma sono dovute all'egoismo di nuovi colonizzatori. Faccio un esempio. Il prezzo delle materie prime che si estraggono in Africa non viene deciso dagli africani ma dalle multinazionali che le sfruttano. Il prezzo dello zucchero - una risorsa per esempio per il Benin - viene deciso magari dalle borse di Tokyo, di Parigi, di New York, ma certo non nell'interesse del Paese; o almeno, non si tiene presente che quel prodotto è magari l'unica fonte di sostentamento per quella popolazione. E allora si capisce quale sia il problema: non è tanto l'Africa che non ce la può fare, anzi ha mezzi e forza per poter crescere. Piuttosto è il mondo che deve smettere di considerarla terra da sfruttare, prenderla per mano e farle posto in quel sistema che si vuole globalizzato ma che ancora deva capire fino in fondo il valore primario della solidarietà. C'è bisogno, in pratica, di una profonda conversione delle menti e dei cuori per capire che, nel pellegrinaggio della vita, dobbiamo tenerci tutti per mano. Per l'Africa la strada da percorrere è molto più lunga di quella degli altri Paesi. Ma può farcela. In questo senso acquista tutto il suo valore l'invito biblico del Papa: "Africa, abbi fiducia, alzati".
(©L'Osservatore Romano 1° dicembre 2011)
L'egoismo del mondo e la speranza dell'Africa
di MARIO PONZI
Vecchie e nuove schiavitù rendono ancora oggi incerto e faticoso il cammino dell'Africa verso il suo definitivo sviluppo. Egoismi di mercato, interessi di cartello mascherati dal pietismo, escludono di fatto il continente nero dal sistema mondiale che si vuole globalizzato. "L'unico aiuto di cui il popolo africano avrebbe veramente bisogno - sostiene in questa intervista il cardinale nigeriano Francis Arinze, anch'egli nel seguito di Benedetto XVI durante il recente viaggio in Benin - sarebbe quello di essere messo in condizione di alzarsi e camminare da solo. Ha la forza per farlo". Ma "gli sarà mai consentito?" si chiede il porporato.
"Africa, abbi fiducia, alzati". Come interpreta questa esortazione del Papa all'Africa?
Non poteva esserci richiamo più pertinente per l'Africa. Il continente deve affrontare sfide e problemi di varia natura. Ma le sfide si affrontano preparandosi bene e i problemi si possono risolvere, superare. La situazione è molto chiara. E il sinodo, celebrato due anni orsono, l'ha ben definita e ha indicato la strada da percorrere: riconciliazione, giustizia e pace. Indubbiamente il continente ha molto bisogno di tutte e tre. La riconciliazione è necessaria tra le diverse nazioni, ma è molto più urgente all'interno di ogni singolo Paese. Non bisogna però dimenticare che il male viene da lontano. Gli stessi colonizzatori non hanno tenuto molto in considerazione, per esempio, confini geografici ed etnie. Il principio che regolava la loro azione era esclusivamente commerciale. Così è capitato che un gruppo etnico, legato da usanze e costumi tradizionali, ma soprattutto dallo stesso idioma, si sia trovato improvvisamente diviso, costretto a vivere frazionato in Paesi diversi. Chi conosce bene la storia di questo immenso ed eterogeneo continente e dei suoi tanti popoli, guardando una carta geopolitica dell'Africa ha la netta sensazione che qualcuno abbia tracciato un riga dritta, dall'alto verso il basso, per separare le nazioni, quasi senza criterio. Sono nate proprio qui le divisioni che penalizzano il continente. Dunque bisogna cercare di trovare una soluzione, stante il fatto che non si possono mutare i confini. La riconciliazione fra tutti gli africani, sia a livello internazionale che nazionale, sembra l'unica strada percorribile.
Pensa che sia un percorso effettivamente praticabile?
Indubbiamente è difficile. Per avere un'idea di quanto lo sia, basta pensare alla situazione della Nigeria dove vivono, a stretto contatto di gomito, oltre duecento etnie diverse per usi, costumi e lingua. Ecco perché il primo passo da fare è quello verso la riconciliazione. Bisogna imparare a conoscersi, a rispettarsi, ad accettarsi, ad aiutarsi prendendo ciascuno quello che c'è di buono nell'altro. Solo così si può andare avanti, insieme. E poi la giustizia. Ma questa è una virtù da conquistare non solo da parte degli africani. Essa è un valore per tutti i popoli. E devono applicarla prima di tutto i poteri pubblici, la società civile, lo Stato, i governi ed anche la Chiesa. Bisogna avere rispetto dei diritti di tutti gli individui. Il primo diritto da rispettare è quello alla vita. La vita non è voluta, è concepita: dunque richiama in sé una responsabilità individuale e sociale di grande impegno. Infine la pace. L'Africa ha bisogno di pace vera, non di quella del cimitero, dove il silenzio è pace. No, non è questa la pace di cui l'Africa ha bisogno. Essa aspira a una pace costruita sul rispetto degli altri, sul rispetto della sacralità della vita; quella che fa dimenticare i torti subiti e rinnega la vendetta. Questa è la pace di cui il continente ha bisogno.
Nelle poche ore trascorse in Benin, ma soprattutto nella sua esortazione post-sinodale, il Papa è stato molto esplicito in questo senso.
È stato l'aspetto più significativo della visita. In molti passaggi, sia dell'esortazione sia dei discorsi pronunciati, ho colto molto chiaramente indicazioni appropriate di Benedetto XVI per i popoli africani. Ma ho colto anche i segni della sua preoccupazione.
Da dove nasce questa preoccupazione?
Anche se le ha fatto coraggio e ha riacceso nel profondo dell'anima la luce della speranza, egli sa molto bene che l'Africa, per come è stata ridotta, non può farcela da sola. Ha comunque bisogno di un aiuto per rialzarsi. E poi non bisogna dimenticare che alcuni problemi nascono dall'esterno. Voglio dire che dei tanti mali che affliggono il continente esistono cause, o anche concause se si vuole, che non dipendono dal popolo africano, ma sono dovute all'egoismo di nuovi colonizzatori. Faccio un esempio. Il prezzo delle materie prime che si estraggono in Africa non viene deciso dagli africani ma dalle multinazionali che le sfruttano. Il prezzo dello zucchero - una risorsa per esempio per il Benin - viene deciso magari dalle borse di Tokyo, di Parigi, di New York, ma certo non nell'interesse del Paese; o almeno, non si tiene presente che quel prodotto è magari l'unica fonte di sostentamento per quella popolazione. E allora si capisce quale sia il problema: non è tanto l'Africa che non ce la può fare, anzi ha mezzi e forza per poter crescere. Piuttosto è il mondo che deve smettere di considerarla terra da sfruttare, prenderla per mano e farle posto in quel sistema che si vuole globalizzato ma che ancora deva capire fino in fondo il valore primario della solidarietà. C'è bisogno, in pratica, di una profonda conversione delle menti e dei cuori per capire che, nel pellegrinaggio della vita, dobbiamo tenerci tutti per mano. Per l'Africa la strada da percorrere è molto più lunga di quella degli altri Paesi. Ma può farcela. In questo senso acquista tutto il suo valore l'invito biblico del Papa: "Africa, abbi fiducia, alzati".
(©L'Osservatore Romano 1° dicembre 2011)
mercoledì 30 novembre 2011
L'ultima settimana di Cristo nella lettura del Papa. Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina (Enrico Dal Covolo)
L'ultima settimana di Cristo nella lettura del Papa
Illuminante sproporzione
Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina
Dopo quello tenutosi all'università di Urbino, proseguono gli incontri organizzati dalla Libreria Editrice Vaticana per presentare il libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione nelle università italiane. Lunedì 28 novembre l'opera è stata al centro di un incontro all'università di Messina. Pubblichiamo stralci dell'intervento del vescovo rettore della Pontificia Università Lateranense.
di ENRICO DAL COVOLO
Bisogna riconoscere subito che il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI forma un tutt'uno con il primo, cioè con il volume dedicato alla prima parte della vita pubblica di Gesù, dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione.
Nel secondo volume, invece, si parla degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dall'ingresso in Gerusalemme alla risurrezione.
Ma come, si obietterà: c'è una chiara sproporzione! L'ultima settimana di Gesù, da sola, è trattata con la medesima estensione di tutta la vita pubblica che la precede! Tale "sproporzione", tuttavia, si spiega facilmente, ed è già presente nei Vangeli. Anzitutto il racconto della passione e della risurrezione, anche se viene per ultimo, è il più antico e il più elaborato dalle tradizioni orali e scritte, a cui i Vangeli attingono. Fin dall'inizio, infatti, l'uso liturgico (come è noto, il memoriale della Pasqua è il cuore della celebrazione eucaristica) "fissa" un nucleo piuttosto ampio del racconto.
Inoltre l'apparente "sproporzione" fa capire a un primo sguardo che la passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita.
Dunque, due volumi, due parti di un'unica opera: è adottato lo stesso metodo per narrare Gesù di Nazaret, mentre i contenuti della sua storia continuano.
Quanto ai contenuti del secondo volume, c'è anzitutto una Premessa (pp. 5-10), nella quale è ripreso e puntualizzato il discorso sul metodo.
Ne sottolineo solo un passaggio, che a me pare risolutivo: "Se l'esegesi biblica scientifica - l'Autore allude di fatto all'esegesi storico-critica - non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi, diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo, e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l'ermeneutica positivistica - positivistico-razionalista, dicevamo noi: da essa dipende, di fatto, l'esegesi storico-critica - "deve imparare che l'ermeneutica positivistica (...) non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni, e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo, e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un'interezza metodologica" (pp. 6-7).
Alla Premessa fanno seguito nove capitoli, più uno di Prospettive (pp. 309-324: così il racconto della passione, morte e risurrezione è esteso all'ascensione e all'attesa escatologica del ritorno del Signore), e una bibliografia ragionata, relativa anzitutto al primo volume nel suo complesso, e poi al secondo volume e ai suoi singoli capitoli (pp. 327-342).
Diamo uno sguardo - di necessità molto sintetico, nello stile di un "invito alla lettura" - ai capitoli del volume. La via maestra, lungo la quale il Papa ci conduce, è la meditazione sull'"ora" di Gesù, quella del suo "innalzamento" (Giovanni, 12, 32): cioè la meditazione sul momento salvifico - inscindibile - della morte-risurrezione.
Ingresso in Gerusalemme e purificazione del tempio. Il primo capitolo, scandito precisamente nelle due parti enunciate, rappresenta una potente ouverture rispetto al racconto successivo. Entrando in Gerusalemme, Gesù si annuncia come il nuovo tempio, che egli stesso è venuto a costruire. È questo il significato della parola riportata da Giovanni: "In tre giorni farò risorgere questo tempio!". Egli, spiega infatti l'evangelista, "parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (Giovanni, 2, 18-22). Il discorso di Gesù sulle ultime realtà "non descrive la fine del mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti nell'Antico Testamento. Il parlare dell'avvenire con parole del passato sottrae questo discorso ad ogni connessione cronologica" (p. 63).
Di fatto, lo scopo del discorso non è quello di svelare il futuro, ma di suggerire ai discepoli un certo tipo di comportamento di fronte all'imperativo dell'"ora" di Gesù, che ormai si va compiendo. Si tratta di un'esortazione alla comunità, perché essa vigili con impegno sul tempo presente, evitando di fantasticare vanamente sul futuro. "Le parole apocalittiche di Gesù vogliono condurci all'essenziale: alla vita sul fondamento della parola di Dio, che Gesù ci dona; all'incontro con lui, la Parola vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei vivi e dei morti" (p. 64).
"Dopo i discorsi d'insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto" (p. 65). Ed ecco l'episodio misterioso e sconcertante della lavanda dei piedi, nel contesto dell'ultima cena. "Possiamo dire che in questo gesto di umiltà", scrive il Papa sintetizzando il capitolo, "il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio - come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio". Proprio per questo motivo l'"ora" della croce, misticamente anticipata nella lavanda dei piedi, "è l'ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù" (pp. 88-89).
"Alla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di Giovanni, i discorsi di addio di Gesù, che alla fine (...) sfociano in una grande preghiera sacerdotale" (p. 91). Ebbene, scrive il Papa al termine di questo capitolo, "la Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Questa preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto in cui egli "consacra" se stesso, cioè "si sacrifica" per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rovesciando l'affermazione: nella preghiera l'evento crudele della croce diventa 'parola', diventa festa dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo scaturisce la Chiesa, cioè la comunità di coloro che, mediante la parola degli apostoli, credono in Cristo" (p. 118).
"L'ultima cena"; "Il Getsemani"; "Il processo a Gesù": questi tre capitoli (pp. 119-226) rappresentano la parte centrale del volume, quella più analitica, scritta con maggiore acribia storica, esegetica, teologica. La "chiave di lettura" di questo frammento decisivo, nel quale si compie l'"ora" di Gesù (così, infatti, l'apostolo Giovanni introduce il racconto della cena: "Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine": 13, 1), può essere condensata in alcune brevi parole del Papa, veramente ispirate: "Fa parte delle vie della storia di Dio con gli uomini (...) la "flessibilità" di Dio, che attende la libera decisione dell'uomo, e che da ogni "no" fa scaturire una nuova via dell'amore. Al "no" di Adamo egli risponde con una nuova premura per l'uomo. Al "no" di Babele egli risponde inaugurando con l'elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia (...) Nonostante ogni negazione da parte degli uomini, egli dona se stesso, prende su di sé il "no" degli uomini, attirandolo così dentro il suo "sì"" (pp. 138-141).
"La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro"; "La risurrezione di Gesù dalla morte": finalmente si compie, in maniera definitiva, l'"ora" di Gesù. Come già abbiamo anticipato - e così concludiamo l'"invito alla lettura" del nostro libro -, il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI è soprattutto un'organica meditazione sul mistero dell'"ora" di Gesù. Capitolo dopo capitolo, il Papa ci ha presi per mano, invitandoci a entrare in quest'"ora", a fare esperienza viva della passione, della morte e della risurrezione del Signore, per condurci così all'ultimo traguardo.
L'ultimo traguardo è la definitiva confessione della nostra fede in Gesù di Nazaret: "Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A lui ci affidiamo, e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù, e professiamo: "Mio Signore e mio Dio!"" (p. 307).
Benché il Papa, con molta umiltà, definisca il suo un semplice "tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale" (p. 18), d'altra parte egli appare ben consapevole della svolta decisiva che la sua opera rappresenta nella storia della cristologia. Confessa di esservi giunto "dopo un lungo cammino interiore", e richiama addirittura i tempi della sua giovinezza, anche se la stesura materiale dei due volumi dev'essere stata abbastanza rapida, visto che è iniziata solo nell'estate del 2003.
In ogni caso, si coglie dalla lettura di molte sue pagine qualche cosa di simile al quarto Vangelo: il libro è l'opera di una vita intera, dove il metodo impiegato - lungi dal diventare una mera "tecnica" - come pure i contenuti esposti, vivono di un radicato e maturo innamoramento per Cristo.
In definitiva, "l'intima amicizia con Gesù" va considerata come il vero tema conduttore dell'opera, un tema che il Papa illustra da testimone, non meno che da teologo: di fatto la vera "conoscenza" di Gesù - per Papa Benedetto, come per il discepolo amato - proviene dal "riposare" sopra il suo cuore (p. 262).
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
Illuminante sproporzione
Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina
Dopo quello tenutosi all'università di Urbino, proseguono gli incontri organizzati dalla Libreria Editrice Vaticana per presentare il libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione nelle università italiane. Lunedì 28 novembre l'opera è stata al centro di un incontro all'università di Messina. Pubblichiamo stralci dell'intervento del vescovo rettore della Pontificia Università Lateranense.
di ENRICO DAL COVOLO
Bisogna riconoscere subito che il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI forma un tutt'uno con il primo, cioè con il volume dedicato alla prima parte della vita pubblica di Gesù, dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione.
Nel secondo volume, invece, si parla degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dall'ingresso in Gerusalemme alla risurrezione.
Ma come, si obietterà: c'è una chiara sproporzione! L'ultima settimana di Gesù, da sola, è trattata con la medesima estensione di tutta la vita pubblica che la precede! Tale "sproporzione", tuttavia, si spiega facilmente, ed è già presente nei Vangeli. Anzitutto il racconto della passione e della risurrezione, anche se viene per ultimo, è il più antico e il più elaborato dalle tradizioni orali e scritte, a cui i Vangeli attingono. Fin dall'inizio, infatti, l'uso liturgico (come è noto, il memoriale della Pasqua è il cuore della celebrazione eucaristica) "fissa" un nucleo piuttosto ampio del racconto.
Inoltre l'apparente "sproporzione" fa capire a un primo sguardo che la passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita.
Dunque, due volumi, due parti di un'unica opera: è adottato lo stesso metodo per narrare Gesù di Nazaret, mentre i contenuti della sua storia continuano.
Quanto ai contenuti del secondo volume, c'è anzitutto una Premessa (pp. 5-10), nella quale è ripreso e puntualizzato il discorso sul metodo.
Ne sottolineo solo un passaggio, che a me pare risolutivo: "Se l'esegesi biblica scientifica - l'Autore allude di fatto all'esegesi storico-critica - non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi, diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo, e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l'ermeneutica positivistica - positivistico-razionalista, dicevamo noi: da essa dipende, di fatto, l'esegesi storico-critica - "deve imparare che l'ermeneutica positivistica (...) non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni, e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo, e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un'interezza metodologica" (pp. 6-7).
Alla Premessa fanno seguito nove capitoli, più uno di Prospettive (pp. 309-324: così il racconto della passione, morte e risurrezione è esteso all'ascensione e all'attesa escatologica del ritorno del Signore), e una bibliografia ragionata, relativa anzitutto al primo volume nel suo complesso, e poi al secondo volume e ai suoi singoli capitoli (pp. 327-342).
Diamo uno sguardo - di necessità molto sintetico, nello stile di un "invito alla lettura" - ai capitoli del volume. La via maestra, lungo la quale il Papa ci conduce, è la meditazione sull'"ora" di Gesù, quella del suo "innalzamento" (Giovanni, 12, 32): cioè la meditazione sul momento salvifico - inscindibile - della morte-risurrezione.
Ingresso in Gerusalemme e purificazione del tempio. Il primo capitolo, scandito precisamente nelle due parti enunciate, rappresenta una potente ouverture rispetto al racconto successivo. Entrando in Gerusalemme, Gesù si annuncia come il nuovo tempio, che egli stesso è venuto a costruire. È questo il significato della parola riportata da Giovanni: "In tre giorni farò risorgere questo tempio!". Egli, spiega infatti l'evangelista, "parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (Giovanni, 2, 18-22). Il discorso di Gesù sulle ultime realtà "non descrive la fine del mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti nell'Antico Testamento. Il parlare dell'avvenire con parole del passato sottrae questo discorso ad ogni connessione cronologica" (p. 63).
Di fatto, lo scopo del discorso non è quello di svelare il futuro, ma di suggerire ai discepoli un certo tipo di comportamento di fronte all'imperativo dell'"ora" di Gesù, che ormai si va compiendo. Si tratta di un'esortazione alla comunità, perché essa vigili con impegno sul tempo presente, evitando di fantasticare vanamente sul futuro. "Le parole apocalittiche di Gesù vogliono condurci all'essenziale: alla vita sul fondamento della parola di Dio, che Gesù ci dona; all'incontro con lui, la Parola vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei vivi e dei morti" (p. 64).
"Dopo i discorsi d'insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto" (p. 65). Ed ecco l'episodio misterioso e sconcertante della lavanda dei piedi, nel contesto dell'ultima cena. "Possiamo dire che in questo gesto di umiltà", scrive il Papa sintetizzando il capitolo, "il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio - come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio". Proprio per questo motivo l'"ora" della croce, misticamente anticipata nella lavanda dei piedi, "è l'ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù" (pp. 88-89).
"Alla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di Giovanni, i discorsi di addio di Gesù, che alla fine (...) sfociano in una grande preghiera sacerdotale" (p. 91). Ebbene, scrive il Papa al termine di questo capitolo, "la Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Questa preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto in cui egli "consacra" se stesso, cioè "si sacrifica" per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rovesciando l'affermazione: nella preghiera l'evento crudele della croce diventa 'parola', diventa festa dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo scaturisce la Chiesa, cioè la comunità di coloro che, mediante la parola degli apostoli, credono in Cristo" (p. 118).
"L'ultima cena"; "Il Getsemani"; "Il processo a Gesù": questi tre capitoli (pp. 119-226) rappresentano la parte centrale del volume, quella più analitica, scritta con maggiore acribia storica, esegetica, teologica. La "chiave di lettura" di questo frammento decisivo, nel quale si compie l'"ora" di Gesù (così, infatti, l'apostolo Giovanni introduce il racconto della cena: "Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine": 13, 1), può essere condensata in alcune brevi parole del Papa, veramente ispirate: "Fa parte delle vie della storia di Dio con gli uomini (...) la "flessibilità" di Dio, che attende la libera decisione dell'uomo, e che da ogni "no" fa scaturire una nuova via dell'amore. Al "no" di Adamo egli risponde con una nuova premura per l'uomo. Al "no" di Babele egli risponde inaugurando con l'elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia (...) Nonostante ogni negazione da parte degli uomini, egli dona se stesso, prende su di sé il "no" degli uomini, attirandolo così dentro il suo "sì"" (pp. 138-141).
"La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro"; "La risurrezione di Gesù dalla morte": finalmente si compie, in maniera definitiva, l'"ora" di Gesù. Come già abbiamo anticipato - e così concludiamo l'"invito alla lettura" del nostro libro -, il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI è soprattutto un'organica meditazione sul mistero dell'"ora" di Gesù. Capitolo dopo capitolo, il Papa ci ha presi per mano, invitandoci a entrare in quest'"ora", a fare esperienza viva della passione, della morte e della risurrezione del Signore, per condurci così all'ultimo traguardo.
L'ultimo traguardo è la definitiva confessione della nostra fede in Gesù di Nazaret: "Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A lui ci affidiamo, e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù, e professiamo: "Mio Signore e mio Dio!"" (p. 307).
Benché il Papa, con molta umiltà, definisca il suo un semplice "tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale" (p. 18), d'altra parte egli appare ben consapevole della svolta decisiva che la sua opera rappresenta nella storia della cristologia. Confessa di esservi giunto "dopo un lungo cammino interiore", e richiama addirittura i tempi della sua giovinezza, anche se la stesura materiale dei due volumi dev'essere stata abbastanza rapida, visto che è iniziata solo nell'estate del 2003.
In ogni caso, si coglie dalla lettura di molte sue pagine qualche cosa di simile al quarto Vangelo: il libro è l'opera di una vita intera, dove il metodo impiegato - lungi dal diventare una mera "tecnica" - come pure i contenuti esposti, vivono di un radicato e maturo innamoramento per Cristo.
In definitiva, "l'intima amicizia con Gesù" va considerata come il vero tema conduttore dell'opera, un tema che il Papa illustra da testimone, non meno che da teologo: di fatto la vera "conoscenza" di Gesù - per Papa Benedetto, come per il discepolo amato - proviene dal "riposare" sopra il suo cuore (p. 262).
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
martedì 29 novembre 2011
Il viaggio di un missionario. A colloquio con l’arcivescovo Fernando Filoni sulla visita del Papa in Benin (Ponzi)
A colloquio con l’arcivescovo Fernando Filoni sulla visita del Papa in Benin
Il viaggio di un missionario
Mario Ponzi
Una decisa spinta in avanti per il rinnovarsi della missione evangelizzatrice della Chiesa nelle due dimensioni: ad intra e ad extra. L’arcivescovo Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, propone una lettura in chiave missionaria del viaggio di Benedetto XVI in Benin, al quale egli ha partecipato come membro del seguito. «Il Papa — dice nell’intervista rilasciata al nostro giornale — ha insistito sulla missione molto opportunamente, perché a volte si ha piuttosto l’abitudine di amministrare ciò che si ha, e un po’ meno di occuparci proprio della missio ad gentes».
Sia nell’esortazione Africae munus, sia nei giorni del viaggio apostolico in Benin, il Pontefice ha sottolineato più volte l’importanza della missio ad gentes. Come si può leggere questa insistenza di Benedetto XVI?
Portare Cristo a tutte le genti: è scritto chiaramente nell’esortazione apostolica post-sinodale. Dunque è evidente l’intento del Papa di spronare a rinvigorire l’annuncio. In questi giorni vissuti con Benedetto XVI in Benin abbiamo visto quanto l’Africa attendesse le indicazioni del Pontefice, dopo la celebrazione dell’assemblea sinodale. Una cosa che mi è parsa assai significativa è che a incontrare il Papa siano accorsi non solo i cattolici, ma anche gli esponenti di altre denominazioni cristiane e di altre comunità e confessioni religiose. Tutti indistintamente hanno chiesto la sua benedizione. Un vescovo mi ha detto di aver compreso in quel momento quanto sia importante portare Cristo al mondo di oggi, proprio vedendo l’entusiasmo suscitato dal Pontefice che sollecitava a ridare vigore a questa missione. Una sollecitazione rivolta opportunamente a tutti. A volte, infatti, si ha l’abitudine più di amministrare ciò che si ha, e un po’ meno di occuparci della missio ad gentes. Non a caso Benedetto XVI ha dato atto anche ai catechisti — i più umili servitori del Vangelo forse, certamente però i più preziosi — dello straordinario lavoro compiuto.
Nell’esortazione il Papa ha richiamato, tra le altre cose, il grave fenomeno dell’analfabetismo, una piaga che tormenta l’Africa quasi quanto la povertà.
Certamente l’Africa ha bisogno di tante cose per crescere. È evidente che l’alfabetizzazione è fondamentale per la crescita di questo continente. Per questo la Chiesa punta moltissimo sull’educazione. Sa bene che è proprio grazie alla miglior formazione umana che il Vangelo può trovare ascolto e comprensione. Questo per limitarmi alla sola missione evangelizzatrice. Perché è pure evidente che nel promuovere l’educazione e la formazione si gettano le basi per il progresso del Paese. Tanti vescovi mi dicono che tra le loro preoccupazioni pastorali figura proprio quella di dotare ogni pur piccolo centro missionario di una sua scuola. E poi i giovani oggi chiedono di più, hanno bisogno di qualcosa che vada oltre l’alfabetizzazione di base, ambiscono a raggiungere più alti livelli di istruzione.
Quanto conta effettivamente l’alfabetizzazione per il successo della missione evangelizzatrice?
Del suo valore ci rendiamo conto quando visitiamo le diocesi, o quando i vescovi in visita ad limina vengono da noi per informarci sullo stato della missione. Tra le cose di cui parlano più sovente c’è proprio la questione dell’istruzione. Ci raccontano delle loro scuole e devo dire con sempre maggiore frequenza essi richiedono la creazione di istituti superiori e di università cattoliche. Ciò significa che l’educazione è in crescita. Naturalmente insistiamo molto anche sulla formazione nei seminari. Migliori sacerdoti aiutano a migliorare la missione, a tutti i livelli, anche nel campo dell’educazione a livello parrocchiale. Stesso discorso applichiamo ai catechisti, che spesso sono gli unici maestri in sperduti villaggi. Ci stiamo adoperando affinché istituti di catechesi siano aperti in tutte le diocesi, in tutte le zone che ne sono sprovviste. Siamo convinti che migliorando la formazione dei catechisti migliorerà anche il processo di alfabetizzazione.
Il Pontefice ha parlato dell’Africa come del polmone spirituale della Chiesa. Cosa ha voluto dire secondo lei?
Un corpo non può vivere senza polmoni. L’Africa ha una straordinaria ricchezza di ossigeno da offrire alla Chiesa grazie alla vivacità della sua fede. C’è però bisogno che essa ritrovi presto quella pace che insegue da anni, che riscopra il valore della riconciliazione soprattutto tra etnie e che possa finalmente godere di un clima di giustizia. Questo perché, libera dalla morsa di questi mali, essa metta finalmente al servizio della Chiesa tutta la sua grande ricchezza spirituale. Quella ricchezza della quale ha dato fiera manifestazione in queste giornate vissute con il Papa.
Benedetto XVI ne ha anche parlato come di una speranza per tutta la Chiesa. In che modo una comunità giovane può dare speranza a una Chiesa ultrasecolare?
Il Papa ha colto l’occasione — con la sua presenza alla conclusione del centocinquantesimo anniversario dell’evangelizzazione del Benin — per proporre una nuova prospettiva a una Chiesa che, nonostante sia giovane, mostra una maturità tale da favorire un numero crescente di vocazioni. Centocinquant’anni sono stati un tempo forte di missione, durante il quale numerosi missionari hanno messo la loro vita a disposizione dell’evangelizzazione sino al sacrificio estremo. Non a caso il Papa ha reso loro onore per quanto hanno fatto per la Chiesa in Africa. Ma c’è anche l’oggi. E in questo oggi c’è bisogno di riproporre il Vangelo anche nelle Chiese che in questo continente da tempo hanno ricevuto la prima evangelizzazione. In questi casi non si tratta di portare il primo annuncio ma di favorirne un approfondimento. A questa opera di rievangelizzazione dell’Africa il Papa ha fatto riferimento rivolgendosi a una Chiesa giovane e in crescita, dalla quale si aspetta frutti abbondanti. Sicuramente ne beneficerà non solo la Chiesa ma anche tutta la società civile africana. Il presidente del Benin accogliendo il Pontefice a Cotonou ha riconosciuto pubblicamente i benefici che l’evangelizzazione ha portato al suo Paese. Nasce di qui la speranza riposta da Benedetto XVI nella Chiesa che è in Africa.
Come saranno rilette e tradotte in azione dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli le sollecitazioni del Papa in questi giorni?
Il primo impegno che ci attende come congregazione è naturalmente quello di chiedere a tutti i vescovi di rileggere e di accogliere l’esortazione post-sinodale come un documento programmatico per i prossimi dieci anni almeno. Chiederemo di guidare approfondimenti e meditazioni su quanto il Papa ha scritto e detto in questi giorni. Naturalmente poi seguiremo la sua attuazione pratica, pronti ad affiancare i vescovi per ogni necessità. Ciò che abbiamo davanti adesso è la preparazione dell’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI. Chiederemo a tutti i vescovi di attivarsi affinché questo Anno diventi un’occasione in più per la prima e per la seconda evangelizzazione: le due gambe con le quali deve procedere la missione nel mondo. Questo anno servirà a chi non ha ricevuto l’annuncio del Vangelo per apprenderlo, e a chi lo ha già ricevuto per approfondirlo e amarlo di più.
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
Il viaggio di un missionario
Mario Ponzi
Una decisa spinta in avanti per il rinnovarsi della missione evangelizzatrice della Chiesa nelle due dimensioni: ad intra e ad extra. L’arcivescovo Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, propone una lettura in chiave missionaria del viaggio di Benedetto XVI in Benin, al quale egli ha partecipato come membro del seguito. «Il Papa — dice nell’intervista rilasciata al nostro giornale — ha insistito sulla missione molto opportunamente, perché a volte si ha piuttosto l’abitudine di amministrare ciò che si ha, e un po’ meno di occuparci proprio della missio ad gentes».
Sia nell’esortazione Africae munus, sia nei giorni del viaggio apostolico in Benin, il Pontefice ha sottolineato più volte l’importanza della missio ad gentes. Come si può leggere questa insistenza di Benedetto XVI?
Portare Cristo a tutte le genti: è scritto chiaramente nell’esortazione apostolica post-sinodale. Dunque è evidente l’intento del Papa di spronare a rinvigorire l’annuncio. In questi giorni vissuti con Benedetto XVI in Benin abbiamo visto quanto l’Africa attendesse le indicazioni del Pontefice, dopo la celebrazione dell’assemblea sinodale. Una cosa che mi è parsa assai significativa è che a incontrare il Papa siano accorsi non solo i cattolici, ma anche gli esponenti di altre denominazioni cristiane e di altre comunità e confessioni religiose. Tutti indistintamente hanno chiesto la sua benedizione. Un vescovo mi ha detto di aver compreso in quel momento quanto sia importante portare Cristo al mondo di oggi, proprio vedendo l’entusiasmo suscitato dal Pontefice che sollecitava a ridare vigore a questa missione. Una sollecitazione rivolta opportunamente a tutti. A volte, infatti, si ha l’abitudine più di amministrare ciò che si ha, e un po’ meno di occuparci della missio ad gentes. Non a caso Benedetto XVI ha dato atto anche ai catechisti — i più umili servitori del Vangelo forse, certamente però i più preziosi — dello straordinario lavoro compiuto.
Nell’esortazione il Papa ha richiamato, tra le altre cose, il grave fenomeno dell’analfabetismo, una piaga che tormenta l’Africa quasi quanto la povertà.
Certamente l’Africa ha bisogno di tante cose per crescere. È evidente che l’alfabetizzazione è fondamentale per la crescita di questo continente. Per questo la Chiesa punta moltissimo sull’educazione. Sa bene che è proprio grazie alla miglior formazione umana che il Vangelo può trovare ascolto e comprensione. Questo per limitarmi alla sola missione evangelizzatrice. Perché è pure evidente che nel promuovere l’educazione e la formazione si gettano le basi per il progresso del Paese. Tanti vescovi mi dicono che tra le loro preoccupazioni pastorali figura proprio quella di dotare ogni pur piccolo centro missionario di una sua scuola. E poi i giovani oggi chiedono di più, hanno bisogno di qualcosa che vada oltre l’alfabetizzazione di base, ambiscono a raggiungere più alti livelli di istruzione.
Quanto conta effettivamente l’alfabetizzazione per il successo della missione evangelizzatrice?
Del suo valore ci rendiamo conto quando visitiamo le diocesi, o quando i vescovi in visita ad limina vengono da noi per informarci sullo stato della missione. Tra le cose di cui parlano più sovente c’è proprio la questione dell’istruzione. Ci raccontano delle loro scuole e devo dire con sempre maggiore frequenza essi richiedono la creazione di istituti superiori e di università cattoliche. Ciò significa che l’educazione è in crescita. Naturalmente insistiamo molto anche sulla formazione nei seminari. Migliori sacerdoti aiutano a migliorare la missione, a tutti i livelli, anche nel campo dell’educazione a livello parrocchiale. Stesso discorso applichiamo ai catechisti, che spesso sono gli unici maestri in sperduti villaggi. Ci stiamo adoperando affinché istituti di catechesi siano aperti in tutte le diocesi, in tutte le zone che ne sono sprovviste. Siamo convinti che migliorando la formazione dei catechisti migliorerà anche il processo di alfabetizzazione.
Il Pontefice ha parlato dell’Africa come del polmone spirituale della Chiesa. Cosa ha voluto dire secondo lei?
Un corpo non può vivere senza polmoni. L’Africa ha una straordinaria ricchezza di ossigeno da offrire alla Chiesa grazie alla vivacità della sua fede. C’è però bisogno che essa ritrovi presto quella pace che insegue da anni, che riscopra il valore della riconciliazione soprattutto tra etnie e che possa finalmente godere di un clima di giustizia. Questo perché, libera dalla morsa di questi mali, essa metta finalmente al servizio della Chiesa tutta la sua grande ricchezza spirituale. Quella ricchezza della quale ha dato fiera manifestazione in queste giornate vissute con il Papa.
Benedetto XVI ne ha anche parlato come di una speranza per tutta la Chiesa. In che modo una comunità giovane può dare speranza a una Chiesa ultrasecolare?
Il Papa ha colto l’occasione — con la sua presenza alla conclusione del centocinquantesimo anniversario dell’evangelizzazione del Benin — per proporre una nuova prospettiva a una Chiesa che, nonostante sia giovane, mostra una maturità tale da favorire un numero crescente di vocazioni. Centocinquant’anni sono stati un tempo forte di missione, durante il quale numerosi missionari hanno messo la loro vita a disposizione dell’evangelizzazione sino al sacrificio estremo. Non a caso il Papa ha reso loro onore per quanto hanno fatto per la Chiesa in Africa. Ma c’è anche l’oggi. E in questo oggi c’è bisogno di riproporre il Vangelo anche nelle Chiese che in questo continente da tempo hanno ricevuto la prima evangelizzazione. In questi casi non si tratta di portare il primo annuncio ma di favorirne un approfondimento. A questa opera di rievangelizzazione dell’Africa il Papa ha fatto riferimento rivolgendosi a una Chiesa giovane e in crescita, dalla quale si aspetta frutti abbondanti. Sicuramente ne beneficerà non solo la Chiesa ma anche tutta la società civile africana. Il presidente del Benin accogliendo il Pontefice a Cotonou ha riconosciuto pubblicamente i benefici che l’evangelizzazione ha portato al suo Paese. Nasce di qui la speranza riposta da Benedetto XVI nella Chiesa che è in Africa.
Come saranno rilette e tradotte in azione dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli le sollecitazioni del Papa in questi giorni?
Il primo impegno che ci attende come congregazione è naturalmente quello di chiedere a tutti i vescovi di rileggere e di accogliere l’esortazione post-sinodale come un documento programmatico per i prossimi dieci anni almeno. Chiederemo di guidare approfondimenti e meditazioni su quanto il Papa ha scritto e detto in questi giorni. Naturalmente poi seguiremo la sua attuazione pratica, pronti ad affiancare i vescovi per ogni necessità. Ciò che abbiamo davanti adesso è la preparazione dell’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI. Chiederemo a tutti i vescovi di attivarsi affinché questo Anno diventi un’occasione in più per la prima e per la seconda evangelizzazione: le due gambe con le quali deve procedere la missione nel mondo. Questo anno servirà a chi non ha ricevuto l’annuncio del Vangelo per apprenderlo, e a chi lo ha già ricevuto per approfondirlo e amarlo di più.
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
Cronache Cattoliche (Andrea Tornielli)
Clicca qui per ascoltare la trasmissione segnalataci da Laura.
L’anima dell’evangelizzazione. L’arcivescovo Becciu apre i lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia (O.R.)
L’arcivescovo Becciu apre i lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia
L’anima dell’evangelizzazione
Le famiglie cristiane sono pronte a buttarsi nella mischia per testimoniare il Vangelo nella quotidianità, senza farsi intimorire dal difficile contesto sociale ed economico e senza eludere le più scottanti questioni che riguardano il matrimonio e l’emergenza educativa dei giovani. Ecco il punto di partenza dei lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia cominciati stamani, martedì 29 novembre, per concludersi giovedì 1° dicembre, con l’udienza pontificia. E a Benedetto XVI le famiglie cristiane diranno di essere pronte a impegnarsi, senza indugi, nella nuova evangelizzazione.
La plenaria, che vuole essere proprio un momento di raccordo nella prospettiva della nuova evangelizzazione, è iniziata con la messa celebrata all’altare del beato Giovanni Paolo II, nella basilica Vaticana, dall’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, che ha ribadito, ricordando l’opera di Papa Wojtyła, come la missione della famiglia nel mondo contemporaneo necessiti «di una sempre più attenta considerazione per il ruolo decisivo dell’istituzione familiare nell’evangelizzazione e per la serietà delle sfide che la minacciano». E «il Pontificio Consiglio è fortemente impegnato a sostenere la famiglia e un’adeguata pastorale familiare» ha affermato l’arcivescovo Becciu, con l’incoraggiamento «a portare avanti il vostro sforzo, specialmente in un tempo come il nostro, affinché le famiglie siano sempre più conformi al disegno di Dio, e trovino adeguato appoggio quali cellule vitali della società e della Chiesa».
Un momento privilegiato in questa direttrice sarà l’Incontro mondiale delle famiglie previsto per il prossimo anno a Milano. «Nell’ambito delle diverse Conferenze episcopali e diocesi si stanno attuando numerose iniziative per preparare questo evento» ha detto il sostituto della Segreteria di Stato, auspicando «che tutta questa attività promossa dal dicastero produca abbondanti frutti pastorali nella vita delle Chiese particolari».
Quindi l’arcivescovo ha proposto «tre semplici pensieri che si riassumono in tre parole: presenza, gioia, povertà di spirito». Nella prospettiva dell’Avvento «dobbiamo educare e aiutare le famiglie a vivere e testimoniare il senso della presenza di Dio, che porta la luce del bene capace di illuminare il buio dell’egoismo umano; dobbiamo aiutare le famiglie a testimoniare in modo sempre più chiaro questa vicinanza di Dio, che ama l’uomo e gli porta speranza». Sulla gioia, l’arcivescovo ha ricordato come oggi «viviamo in una società che spesso presenta un volto triste; i tanti problemi che si presentano ogni giorno finiscono spesso per oscurare l’orizzonte personale e familiare, e anche le espressioni di gioia rimangono semplicemente esteriori, senza riflettere la pace e la serenità del cuore. Penso che testimoniare personalmente e nelle famiglie il senso della presenza di Dio, dell’essere suoi veri figli, voglia dire portare nel mondo un po’ di luce, un po’ di gioia, quella vera, quella che è racchiusa nel rapporto con il Signore e non si ferma alle cose». Infine «ecco la terza parola: poveri in spirito. Chi è capace di cogliere la presenza nuova di Dio, che porta gioia? Non sono i sapienti e i dotti, coloro che sono chiusi e si sentono sicuri nel proprio sapere, ma sono piuttosto coloro che hanno il cuore libero, completamente aperto alla novità, al dono di Dio, un cuore capace di vedere e di ascoltare». Del resto «la famiglia — ha ricordato — è il primo ambiente in cui si impara l’incontro con il Signore». E ha concluso con un pensiero alle «tante famiglie cristiane che portano nel mondo un raggio dell’amore di Dio, un raggio di speranza. Vogliamo farci voce della gioia di tante famiglie per l’esperienza quotidiana di sentire la presenza, la vicinanza del Signore, pur in mezzo a difficoltà e fatiche; per la fedeltà mantenuta e arricchita di sacrificio e di offerta, di abnegazione e di umile servizio».
I lavori veri e propri sono stati poi aperti da una riflessione del cardinale presidente Ennio Antonelli «a trent’anni anni dall’esortazione apostolica Familiaris Consortio», con una riaffermazione della «centralità della famiglia nella nuova evangelizzazione, e quindi nella pastorale parrocchiale e diocesana», e dell’importanza della «pastorale delle famiglie per le famiglie».
Sulla «spiritualità e responsabilità missionaria della famiglia» è intervenuto il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano, che ha tenuto la lectio magistralis sulla famiglia «comunità salvata e comunità salvante per la nuova evangelizzazione». In definitiva per il porporato «la nuova evangelizzazione vede la famiglia cristiana come suo oggetto e soggetto, suo termine e principio». E questo «in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante». Ma è «sul proprium coniugale-familiare che deve essere ora considerata la nuova evangelizzazione. Tale proprium — ha spiegato — è dato dalle realtà tipicamente coniugali e familiari, in specie dalle realtà dell’amore e della vita, dell’opera generativa e di quella educativa, della partecipazione libera giusta e solidale alla vita complessiva della società, della partecipazione alla vita e missione della Chiesa. Ora è a tutti noto come queste realtà e questi compiti tipicamente coniugali e familiari siano oggi, un po’ dovunque e con frequenza, sottoposti a gravissime sfide che rendono quanto mai urgente e del tutto irrinunciabile la missionarietà della famiglia cristiana. Le realtà proprie del matrimonio e della famiglia — ha concluso — sono letteralmente derubate o comunque gravemente sfigurate nel loro volto cristiano e umano, sotto il profilo cioè della fede e della razionalità, vittime come sono di una cultura estranea o contraria al disegno di Dio e al vero bene della persona, della coppia e della famiglia».
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
L’anima dell’evangelizzazione
Le famiglie cristiane sono pronte a buttarsi nella mischia per testimoniare il Vangelo nella quotidianità, senza farsi intimorire dal difficile contesto sociale ed economico e senza eludere le più scottanti questioni che riguardano il matrimonio e l’emergenza educativa dei giovani. Ecco il punto di partenza dei lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia cominciati stamani, martedì 29 novembre, per concludersi giovedì 1° dicembre, con l’udienza pontificia. E a Benedetto XVI le famiglie cristiane diranno di essere pronte a impegnarsi, senza indugi, nella nuova evangelizzazione.
La plenaria, che vuole essere proprio un momento di raccordo nella prospettiva della nuova evangelizzazione, è iniziata con la messa celebrata all’altare del beato Giovanni Paolo II, nella basilica Vaticana, dall’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, che ha ribadito, ricordando l’opera di Papa Wojtyła, come la missione della famiglia nel mondo contemporaneo necessiti «di una sempre più attenta considerazione per il ruolo decisivo dell’istituzione familiare nell’evangelizzazione e per la serietà delle sfide che la minacciano». E «il Pontificio Consiglio è fortemente impegnato a sostenere la famiglia e un’adeguata pastorale familiare» ha affermato l’arcivescovo Becciu, con l’incoraggiamento «a portare avanti il vostro sforzo, specialmente in un tempo come il nostro, affinché le famiglie siano sempre più conformi al disegno di Dio, e trovino adeguato appoggio quali cellule vitali della società e della Chiesa».
Un momento privilegiato in questa direttrice sarà l’Incontro mondiale delle famiglie previsto per il prossimo anno a Milano. «Nell’ambito delle diverse Conferenze episcopali e diocesi si stanno attuando numerose iniziative per preparare questo evento» ha detto il sostituto della Segreteria di Stato, auspicando «che tutta questa attività promossa dal dicastero produca abbondanti frutti pastorali nella vita delle Chiese particolari».
Quindi l’arcivescovo ha proposto «tre semplici pensieri che si riassumono in tre parole: presenza, gioia, povertà di spirito». Nella prospettiva dell’Avvento «dobbiamo educare e aiutare le famiglie a vivere e testimoniare il senso della presenza di Dio, che porta la luce del bene capace di illuminare il buio dell’egoismo umano; dobbiamo aiutare le famiglie a testimoniare in modo sempre più chiaro questa vicinanza di Dio, che ama l’uomo e gli porta speranza». Sulla gioia, l’arcivescovo ha ricordato come oggi «viviamo in una società che spesso presenta un volto triste; i tanti problemi che si presentano ogni giorno finiscono spesso per oscurare l’orizzonte personale e familiare, e anche le espressioni di gioia rimangono semplicemente esteriori, senza riflettere la pace e la serenità del cuore. Penso che testimoniare personalmente e nelle famiglie il senso della presenza di Dio, dell’essere suoi veri figli, voglia dire portare nel mondo un po’ di luce, un po’ di gioia, quella vera, quella che è racchiusa nel rapporto con il Signore e non si ferma alle cose». Infine «ecco la terza parola: poveri in spirito. Chi è capace di cogliere la presenza nuova di Dio, che porta gioia? Non sono i sapienti e i dotti, coloro che sono chiusi e si sentono sicuri nel proprio sapere, ma sono piuttosto coloro che hanno il cuore libero, completamente aperto alla novità, al dono di Dio, un cuore capace di vedere e di ascoltare». Del resto «la famiglia — ha ricordato — è il primo ambiente in cui si impara l’incontro con il Signore». E ha concluso con un pensiero alle «tante famiglie cristiane che portano nel mondo un raggio dell’amore di Dio, un raggio di speranza. Vogliamo farci voce della gioia di tante famiglie per l’esperienza quotidiana di sentire la presenza, la vicinanza del Signore, pur in mezzo a difficoltà e fatiche; per la fedeltà mantenuta e arricchita di sacrificio e di offerta, di abnegazione e di umile servizio».
I lavori veri e propri sono stati poi aperti da una riflessione del cardinale presidente Ennio Antonelli «a trent’anni anni dall’esortazione apostolica Familiaris Consortio», con una riaffermazione della «centralità della famiglia nella nuova evangelizzazione, e quindi nella pastorale parrocchiale e diocesana», e dell’importanza della «pastorale delle famiglie per le famiglie».
Sulla «spiritualità e responsabilità missionaria della famiglia» è intervenuto il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano, che ha tenuto la lectio magistralis sulla famiglia «comunità salvata e comunità salvante per la nuova evangelizzazione». In definitiva per il porporato «la nuova evangelizzazione vede la famiglia cristiana come suo oggetto e soggetto, suo termine e principio». E questo «in un’epoca di profonda secolarizzazione, che ha perso la capacità di ascoltare e di comprendere la parola evangelica come un messaggio vivo e vivificante». Ma è «sul proprium coniugale-familiare che deve essere ora considerata la nuova evangelizzazione. Tale proprium — ha spiegato — è dato dalle realtà tipicamente coniugali e familiari, in specie dalle realtà dell’amore e della vita, dell’opera generativa e di quella educativa, della partecipazione libera giusta e solidale alla vita complessiva della società, della partecipazione alla vita e missione della Chiesa. Ora è a tutti noto come queste realtà e questi compiti tipicamente coniugali e familiari siano oggi, un po’ dovunque e con frequenza, sottoposti a gravissime sfide che rendono quanto mai urgente e del tutto irrinunciabile la missionarietà della famiglia cristiana. Le realtà proprie del matrimonio e della famiglia — ha concluso — sono letteralmente derubate o comunque gravemente sfigurate nel loro volto cristiano e umano, sotto il profilo cioè della fede e della razionalità, vittime come sono di una cultura estranea o contraria al disegno di Dio e al vero bene della persona, della coppia e della famiglia».
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità. Da uno scritto poco conosciuto del cardinale Joseph Ratzinger pubblicato nel 1998 (O.R.)
Da uno scritto poco conosciuto del cardinale Joseph Ratzinger pubblicato nel 1998
La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità
A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati
Nel 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, introdusse il volume intitolato Sulla pastorale dei divorziati risposati, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in una collana del dicastero («Documenti e Studi», 17). Per l’attualità e l’ampiezza di prospettive di questo scritto poco conosciuto, ne riproponiamo la terza parte, con l’aggiunta di tre note. Il testo è disponibile sul sito del nostro giornale (www.osservatoreromano.va), oltre che in italiano, anche in francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco.
La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 ha avuto una vivace eco in diverse parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni positive si sono udite anche non poche voci critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina e la prassi della Chiesa sono presentate qui di seguito in forma per altro semplificata.
Alcune obiezioni più significative — soprattutto il riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle Chiese orientali separate da Roma, così come il richiamo ai principi tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica — sono state studiate in modo approfondito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño1 sono stati elaborati nel corso di questo studio. I risultati principali della ricerca, che indicano la direzione di una risposta alle obiezioni avanzate, saranno ugualmente qui brevemente riassunti.
1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio permetta un’applicazione flessibile e non possa essere classificata in una categoria rigidamente giuridica.
Alcuni esegeti rilevano criticamente che il Magistero in relazione all’indissolubilità del matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola pericope — e cioè Marco, 10, 11-12 — e non considererebbe in modo sufficiente altri passi del Vangelo di Matteo e della prima Lettera ai Corinzi. Questi passi biblici menzionerebbero una qualche “eccezione” alla parola del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di pornèia (Matteo, 5, 32; 19, 9) e nel caso di separazione a motivo della fede (1 Corinzi, 7, 12-16). Tali testi sarebbero indicazioni che i cristiani in situazioni difficili avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico un’applicazione flessibile della parola di Gesù.
A questa obiezione si deve rispondere che i documenti magisteriali non intendono presentare in modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo importante compito agli esperti competenti. Il Magistero sottolinea però che la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell’uomo. Egli rinvia — al di là della legge — all’inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: «L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Marco, 10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all’arbitrio umano — soprattutto all’arbitrio del marito, per la moglie infatti non vi era in realtà la possibilità del divorzio. La parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio è il superamento dell’antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia. Solo così il matrimonio può rendere pienamente giustizia alla vocazione di Dio all’amore ed alla dignità umana e divenire segno dell’alleanza di amore incondizionato di Dio, cioè «Sacramento» (cfr. Efesini, 5, 32).
La possibilità di separazione, che Paolo prospetta in 1 Corinzi, 7, riguarda matrimoni fra un coniuge cristiano e uno non battezzato. La riflessione teologica successiva ha chiarito che solo i matrimoni tra battezzati sono «sacramento» nel senso stretto della parola e che l’indissolubilità assoluta vale solo per questi matrimoni che si collocano nell’ambito della fede in Cristo. Il cosiddetto «matrimonio naturale» ha la sua dignità a partire dall’ordine della creazione ed è pertanto orientato all’indissolubilità, ma può essere sciolto in determinate circostanze a motivo di un bene più alto — nel caso la fede. Così la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l’indicazione di san Paolo come privilegium paulinum, cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L’indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore. Su questo ritorneremo più avanti.
A riguardo della retta comprensione delle clausole sulla pornèia esiste una vasta letteratura con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa questione. Molti ritengono che si tratti qui di unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni all’indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve attenersi all’insegnamento chiaro di Cristo.
2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di «economia» delle Chiese orientali separate da Roma.
Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe solo su di un filone della tradizione patristica, ma non su tutta l’eredità della Chiesa antica. Sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell’indissolubilità del matrimonio, alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale una certa flessibilità in riferimento a singole situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più tardi accanto al principio della akribìa, della fedeltà alla verità rivelata, quello della oikonomìa, della condiscendenza benevola in singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, essi permetterebbero in determinati casi un secondo e anche un terzo matrimonio, che d’altra parte è differente dal primo matrimonio sacramentale ed è segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi non sarebbe mai stata condannata esplicitamente dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del 1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa tradizione, per far meglio risplendere la misericordia di Dio.
Lo studio di padre Pelland mostra la direzione, in cui si deve cercare la risposta a queste questioni. Per l’interpretazione dei singoli testi patristici resta naturalmente competente lo storico. A motivo della difficile situazione testuale le controversie anche in futuro non si placheranno. Dal punto di vista teologico si deve affermare:
a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall’inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi secoli non esisteva ancora nessun ordinamento canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.
b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. È vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli Paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra anche vero che singoli Padri, ad esempio Leone Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi limite.
c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:
— Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a seguito dell’intreccio sempre più forte di Stato e Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili. Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si manifestò anche nell’ambito gallico e germanico. Nelle Chiese orientali separate da Roma questo sviluppo continuò ulteriormente nel secondo millennio e condusse a una prassi sempre più liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo ecumenico questo problema deve essere assolutamente affrontato.
— Nell’Occidente fu recuperata grazie alla riforma gregoriana la concezione originaria dei Padri. Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione nel concilio di Trento e fu riproposto come dottrina della Chiesa nel concilio Vaticano II.
La prassi delle Chiese orientali separate da Roma, che è conseguenza di un processo storico complesso, di una interpretazione sempre più liberale — e che si allontanava sempre più dalla parola del Signore — di alcuni oscuri passi patristici così come di un non trascurabile influsso della legislazione civile, non può per motivi dottrinali essere assunta dalla Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un’indicazione espressa dell’impossibilità di un secondo matrimonio.
3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell’epikèia e della aequitas canonica.
Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe anche rispettare e tollerare la coscienza dei singoli. Le dottrine tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica potrebbero giustificare dal punto di vista della teologia morale ovvero dal punto di vista giuridico una decisione della coscienza, che si allontani dalla norma generale. Soprattutto nella questione della recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli dei divieti.
I due contributi di don Marcuzzi e del professor Rodríguez Luño illustrano questa complessa problematica. In proposito si devono distinguere chiaramente tre ambiti di questioni:
a. Epikèia ed aequitas canonica sono di grande importanza nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell’ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L’indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di «diritto divino». La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali — ad esempio nella pastorale dei Sacramenti —, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma.2
b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali condizioni devono essere adempiute, perché un matrimonio possa essere considerato come indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella linea delle affermazioni paoline in 1 Corinzi, 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha sviluppato le figure giuridiche del privilegium paulinum e del privilegium petrinum. Con riferimento alle clausole sulla pornèia in Matteo e in Atti, 15, 20 furono formulati impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati sempre più chiaramente motivi di nullità matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le procedure processuali. Tutto questo contribuì a delimitare e precisare il concetto di matrimonio indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al principio della oikonomìa, senza toccare tuttavia l’indissolubilità del matrimonio come tale.
In questa linea si colloca anche l’ulteriore sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante. Di per sé, secondo il giudizio di persone competenti, sembrano così praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio invalido non sia dimostrabile come tale per via processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale nemo iudex in propria causa («Nessuno è giudice nella propria causa»), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l’applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili.
c. Certamente non è escluso che in processi matrimoniali intervengano errori. In alcune parti della Chiesa non esistono ancora tribunali ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui in linea di principio esclusa l’applicazione della epikèia in “foro interno”. Nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso «per quanto possibile» ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva (cfr. Lettera, 9). Molti teologi sono dell’opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in “foro interno” ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri ritengono che qui in “foro interno” sono pensabili delle eccezioni, perché nell’ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una “eccezione”, allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del matrimonio.
4. Molti accusano l’attuale Magistero di involuzione rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una visione preconciliare del matrimonio.
Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi documenti magisteriali sulle questioni del matrimonio starebbe una concezione naturalistica, legalistica del matrimonio. L’accento sarebbe posto sul contratto fra gli sposi e sullo ius in corpus. Il Concilio avrebbe superato questa comprensione statica e descritto il matrimonio in un modo più personalistico come patto di amore e di vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la domanda se non si possa parlare di «morte del matrimonio», quando il legame personale dell’amore fra due sposi non esiste più. Altri sollevano l’antica questione se il Papa non abbia in tali casi la possibilità di sciogliere il matrimonio.
Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti ecclesiastici riconoscerà che essi nelle affermazioni centrali si fondano su Gaudium et spes e con tratti totalmente personalistici sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal Concilio la dottrina ivi contenuta. È tuttavia inadeguato introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l’ha sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si ripete continuamente che il Concilio ha sostituito il concetto strettamente giuridico di “contratto” con il concetto più ampio e teologicamente più profondo di “patto”, non si può dimenticare in proposito che anche nel “patto” è contenuto l’elemento del “contratto” pur essendo collocato in una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada molto al di là dell’aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell’umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola “sacramento”, ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto dopo il Concilio tocca anche l’ambito del matrimonio, allora questo non è tradimento del Concilio, ma esecuzione del suo compito.
Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l’indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L’opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte.
Ulteriori studi approfonditi esige invece la questione se cristiani non credenti — battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio — veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale. Di fatto anche il Codice indica che solo il contratto matrimoniale «valido» fra battezzati è allo stesso tempo sacramento (cfr. Codex iuris canonici, can. 1055, § 2). All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di «non fede» abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi.3
5. Molti affermano che l’atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.
Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite.
Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Veritatis splendor ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette «pastorali», che si pongono in contrasto con le dichiarazioni del Magistero (cfr. ibidem, 56).
Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni, 8,32).
Note:
1 Cfr. Ángel Rodríguez Luño, L’epicheia nella cura pastorale dei fedeli divorziati risposati, in Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, («Documenti e Studi», 17), pp. 75-87; Piero Giorgio Marcuzzi, s.d.b., Applicazione di «aequitas et epikeia» ai contenuti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 settembre 1994, ibidem, pp. 88-98; Gilles Pelland, s. j., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, ibidem, pp. 99-131.
2 A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica postsinodale Familiaris consortio, n. 84: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”». Cfr. anche Benedetto XVI, Lettera apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, n. 29.
3 Durante un incontro con il clero della diocesi di Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto XVI ha affermato in merito a questa difficile questione: «Particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito.
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità
A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati
Nel 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, introdusse il volume intitolato Sulla pastorale dei divorziati risposati, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in una collana del dicastero («Documenti e Studi», 17). Per l’attualità e l’ampiezza di prospettive di questo scritto poco conosciuto, ne riproponiamo la terza parte, con l’aggiunta di tre note. Il testo è disponibile sul sito del nostro giornale (www.osservatoreromano.va), oltre che in italiano, anche in francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco.
La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 ha avuto una vivace eco in diverse parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni positive si sono udite anche non poche voci critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina e la prassi della Chiesa sono presentate qui di seguito in forma per altro semplificata.
Alcune obiezioni più significative — soprattutto il riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle Chiese orientali separate da Roma, così come il richiamo ai principi tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica — sono state studiate in modo approfondito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño1 sono stati elaborati nel corso di questo studio. I risultati principali della ricerca, che indicano la direzione di una risposta alle obiezioni avanzate, saranno ugualmente qui brevemente riassunti.
1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del Nuovo Testamento, che la parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio permetta un’applicazione flessibile e non possa essere classificata in una categoria rigidamente giuridica.
Alcuni esegeti rilevano criticamente che il Magistero in relazione all’indissolubilità del matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola pericope — e cioè Marco, 10, 11-12 — e non considererebbe in modo sufficiente altri passi del Vangelo di Matteo e della prima Lettera ai Corinzi. Questi passi biblici menzionerebbero una qualche “eccezione” alla parola del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di pornèia (Matteo, 5, 32; 19, 9) e nel caso di separazione a motivo della fede (1 Corinzi, 7, 12-16). Tali testi sarebbero indicazioni che i cristiani in situazioni difficili avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico un’applicazione flessibile della parola di Gesù.
A questa obiezione si deve rispondere che i documenti magisteriali non intendono presentare in modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo importante compito agli esperti competenti. Il Magistero sottolinea però che la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio deriva dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù. Gesù definisce chiaramente la prassi veterotestamentaria del divorzio come una conseguenza della durezza di cuore dell’uomo. Egli rinvia — al di là della legge — all’inizio della creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il suo insegnamento con le parole: «L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Marco, 10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio viene quindi riportato alla sua forma originaria a partire dalla creazione e sottratto all’arbitrio umano — soprattutto all’arbitrio del marito, per la moglie infatti non vi era in realtà la possibilità del divorzio. La parola di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio è il superamento dell’antico ordine della legge nel nuovo ordine della fede e della grazia. Solo così il matrimonio può rendere pienamente giustizia alla vocazione di Dio all’amore ed alla dignità umana e divenire segno dell’alleanza di amore incondizionato di Dio, cioè «Sacramento» (cfr. Efesini, 5, 32).
La possibilità di separazione, che Paolo prospetta in 1 Corinzi, 7, riguarda matrimoni fra un coniuge cristiano e uno non battezzato. La riflessione teologica successiva ha chiarito che solo i matrimoni tra battezzati sono «sacramento» nel senso stretto della parola e che l’indissolubilità assoluta vale solo per questi matrimoni che si collocano nell’ambito della fede in Cristo. Il cosiddetto «matrimonio naturale» ha la sua dignità a partire dall’ordine della creazione ed è pertanto orientato all’indissolubilità, ma può essere sciolto in determinate circostanze a motivo di un bene più alto — nel caso la fede. Così la sistematizzazione teologica ha classificato giuridicamente l’indicazione di san Paolo come privilegium paulinum, cioè come possibilità di sciogliere per il bene della fede un matrimonio non sacramentale. L’indissolubilità del matrimonio veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si tratta quindi di una eccezione alla parola del Signore. Su questo ritorneremo più avanti.
A riguardo della retta comprensione delle clausole sulla pornèia esiste una vasta letteratura con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa questione. Molti ritengono che si tratti qui di unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni all’indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve attenersi all’insegnamento chiaro di Cristo.
2. Altri obiettano che la tradizione patristica lascerebbe spazio per una prassi più differenziata, che renderebbe meglio giustizia alle situazioni difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe imparare dal principio di «economia» delle Chiese orientali separate da Roma.
Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe solo su di un filone della tradizione patristica, ma non su tutta l’eredità della Chiesa antica. Sebbene i Padri si attenessero chiaramente al principio dottrinale dell’indissolubilità del matrimonio, alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale una certa flessibilità in riferimento a singole situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più tardi accanto al principio della akribìa, della fedeltà alla verità rivelata, quello della oikonomìa, della condiscendenza benevola in singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, essi permetterebbero in determinati casi un secondo e anche un terzo matrimonio, che d’altra parte è differente dal primo matrimonio sacramentale ed è segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi non sarebbe mai stata condannata esplicitamente dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del 1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa tradizione, per far meglio risplendere la misericordia di Dio.
Lo studio di padre Pelland mostra la direzione, in cui si deve cercare la risposta a queste questioni. Per l’interpretazione dei singoli testi patristici resta naturalmente competente lo storico. A motivo della difficile situazione testuale le controversie anche in futuro non si placheranno. Dal punto di vista teologico si deve affermare:
a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio. Poiché questa deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere in proposito. Proprio per questo il matrimonio cristiano fu fin dall’inizio diverso dal matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi secoli non esisteva ancora nessun ordinamento canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.
b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli divorziati risposati non furono mai ammessi ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di penitenza. È vero invece che la Chiesa non ha sempre rigorosamente revocato in singoli Paesi concessioni in materia, anche se esse erano qualificate come non compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra anche vero che singoli Padri, ad esempio Leone Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi limite.
c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:
— Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a seguito dell’intreccio sempre più forte di Stato e Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al compromesso in situazioni matrimoniali difficili. Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si manifestò anche nell’ambito gallico e germanico. Nelle Chiese orientali separate da Roma questo sviluppo continuò ulteriormente nel secondo millennio e condusse a una prassi sempre più liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una serie di motivazioni di divorzio, anzi già una «teologia del divorzio», che non è in nessun modo conciliabile con le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo ecumenico questo problema deve essere assolutamente affrontato.
— Nell’Occidente fu recuperata grazie alla riforma gregoriana la concezione originaria dei Padri. Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione nel concilio di Trento e fu riproposto come dottrina della Chiesa nel concilio Vaticano II.
La prassi delle Chiese orientali separate da Roma, che è conseguenza di un processo storico complesso, di una interpretazione sempre più liberale — e che si allontanava sempre più dalla parola del Signore — di alcuni oscuri passi patristici così come di un non trascurabile influsso della legislazione civile, non può per motivi dottrinali essere assunta dalla Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe semplicemente tollerato la prassi orientale. Certamente Trento non ha pronunciato nessuna condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne parlavano continuamente come di una prassi abusiva. Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano firmare una confessione di fede con un’indicazione espressa dell’impossibilità di un secondo matrimonio.
3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali principi dell’epikèia e della aequitas canonica.
Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe anche rispettare e tollerare la coscienza dei singoli. Le dottrine tradizionali dell’epikèia e della aequitas canonica potrebbero giustificare dal punto di vista della teologia morale ovvero dal punto di vista giuridico una decisione della coscienza, che si allontani dalla norma generale. Soprattutto nella questione della recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli dei divieti.
I due contributi di don Marcuzzi e del professor Rodríguez Luño illustrano questa complessa problematica. In proposito si devono distinguere chiaramente tre ambiti di questioni:
a. Epikèia ed aequitas canonica sono di grande importanza nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate nell’ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L’indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di «diritto divino». La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali — ad esempio nella pastorale dei Sacramenti —, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore. In altre parole: se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione in nessuna circostanza può essere considerata come conforme al diritto, e pertanto per motivi intrinseci non è possibile una recezione dei sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma.2
b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali condizioni devono essere adempiute, perché un matrimonio possa essere considerato come indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella linea delle affermazioni paoline in 1 Corinzi, 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha sviluppato le figure giuridiche del privilegium paulinum e del privilegium petrinum. Con riferimento alle clausole sulla pornèia in Matteo e in Atti, 15, 20 furono formulati impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati sempre più chiaramente motivi di nullità matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le procedure processuali. Tutto questo contribuì a delimitare e precisare il concetto di matrimonio indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al principio della oikonomìa, senza toccare tuttavia l’indissolubilità del matrimonio come tale.
In questa linea si colloca anche l’ulteriore sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante. Di per sé, secondo il giudizio di persone competenti, sembrano così praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio invalido non sia dimostrabile come tale per via processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio fondamentale nemo iudex in propria causa («Nessuno è giudice nella propria causa»), le questioni matrimoniali devono essere risolte in foro esterno. Qualora fedeli divorziati risposati ritengano che il loro precedente matrimonio non era mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico, che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con l’applicazione di tutte le possibilità giuridicamente disponibili.
c. Certamente non è escluso che in processi matrimoniali intervengano errori. In alcune parti della Chiesa non esistono ancora tribunali ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui in linea di principio esclusa l’applicazione della epikèia in “foro interno”. Nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso «per quanto possibile» ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva (cfr. Lettera, 9). Molti teologi sono dell’opinione che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche in “foro interno” ai giudizi del tribunale a loro parere falsi. Altri ritengono che qui in “foro interno” sono pensabili delle eccezioni, perché nell’ordinamento processuale non si tratta di norme di diritto divino, ma di norme di diritto ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere chiarite in modo molto preciso le condizioni per il verificarsi di una “eccezione”, allo scopo di evitare arbitri e di proteggere il carattere pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del matrimonio.
4. Molti accusano l’attuale Magistero di involuzione rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una visione preconciliare del matrimonio.
Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi documenti magisteriali sulle questioni del matrimonio starebbe una concezione naturalistica, legalistica del matrimonio. L’accento sarebbe posto sul contratto fra gli sposi e sullo ius in corpus. Il Concilio avrebbe superato questa comprensione statica e descritto il matrimonio in un modo più personalistico come patto di amore e di vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la domanda se non si possa parlare di «morte del matrimonio», quando il legame personale dell’amore fra due sposi non esiste più. Altri sollevano l’antica questione se il Papa non abbia in tali casi la possibilità di sciogliere il matrimonio.
Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti ecclesiastici riconoscerà che essi nelle affermazioni centrali si fondano su Gaudium et spes e con tratti totalmente personalistici sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal Concilio la dottrina ivi contenuta. È tuttavia inadeguato introdurre una contrapposizione fra la visione personalistica e quella giuridica del matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la concezione tradizionale del matrimonio, ma l’ha sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si ripete continuamente che il Concilio ha sostituito il concetto strettamente giuridico di “contratto” con il concetto più ampio e teologicamente più profondo di “patto”, non si può dimenticare in proposito che anche nel “patto” è contenuto l’elemento del “contratto” pur essendo collocato in una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada molto al di là dell’aspetto puramente giuridico affondando nella profondità dell’umano e nel mistero del divino, è già in realtà sempre stato affermato con la parola “sacramento”, ma certamente spesso non è stato messo in luce con la chiarezza che il Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto dopo il Concilio tocca anche l’ambito del matrimonio, allora questo non è tradimento del Concilio, ma esecuzione del suo compito.
Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio è morto, quando i due coniugi non si amano più, allora approverebbe con questo il divorzio e sosterrebbe l’indissolubilità del matrimonio in modo ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale. L’opinione, secondo cui il Papa potrebbe eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino alla morte.
Ulteriori studi approfonditi esige invece la questione se cristiani non credenti — battezzati, che non hanno mai creduto o non credono più in Dio — veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale. Di fatto anche il Codice indica che solo il contratto matrimoniale «valido» fra battezzati è allo stesso tempo sacramento (cfr. Codex iuris canonici, can. 1055, § 2). All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di «non fede» abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi.3
5. Molti affermano che l’atteggiamento della Chiesa nella questione dei fedeli divorziati risposati è unilateralmente normativo e non pastorale.
Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone ferite.
Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a compromessi con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Veritatis splendor ha chiaramente respinto le soluzioni cosiddette «pastorali», che si pongono in contrasto con le dichiarazioni del Magistero (cfr. ibidem, 56).
Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni, 8,32).
Note:
1 Cfr. Ángel Rodríguez Luño, L’epicheia nella cura pastorale dei fedeli divorziati risposati, in Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, («Documenti e Studi», 17), pp. 75-87; Piero Giorgio Marcuzzi, s.d.b., Applicazione di «aequitas et epikeia» ai contenuti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 14 settembre 1994, ibidem, pp. 88-98; Gilles Pelland, s. j., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, ibidem, pp. 99-131.
2 A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica postsinodale Familiaris consortio, n. 84: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”». Cfr. anche Benedetto XVI, Lettera apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, n. 29.
3 Durante un incontro con il clero della diocesi di Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto XVI ha affermato in merito a questa difficile questione: «Particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito.
(©L'Osservatore Romano 30 novembre 2011)
A dicembre, il Papa chiede di pregare per la salvaguardia della dignità dei bambini, veri annunciatori del Vangelo (R.V.)
A dicembre, il Papa chiede di pregare per la salvaguardia della dignità dei bambini, veri annunciatori del Vangelo
“Perché i bambini e i giovani siano messaggeri del Vangelo e perché la loro dignità sia sempre rispettata e preservata da ogni violenza e sfruttamento”. E’ questa l’intenzione missionaria di preghiera di Benedetto XVI per il mese di dicembre. Nel tempo forte che ci avvicina al Natale del Signore, il Papa rinnova dunque l’esortazione a pregare per i bambini, la cui dignità è purtroppo spesso violata dagli adulti. Su questa intenzione, Alessandro Gisotti ha raccolto la riflessione di padre Giulio Albanese, direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie, tra cui “Il Ponte d’oro”, mensile dell’Opera Infanzia Missionaria:
R. – Annuncio e testimonianza del Vangelo, in fondo, a pensarci bene, è stato il tema della Giornata missionaria mondiale che abbiamo celebrato ad ottobre: “Testimoni di Dio”. Ai ragazzi questa proposta viene formulata nuovamente dal Santo Padre, non foss’altro perché in ogni caso loro rappresentano il futuro. E' inutile nascondercelo: se vogliamo un mondo migliore, un mondo decisamente diverso da quello attuale, bisogna investire energia su di loro, ed è per questo che soprattutto la loro dignità va rispettata innanzitutto attraverso un impegno da parte delle agenzie educative. Quando parliamo di agenzie educative, inevitabilmente facciamo riferimento alla famiglia, alla scuola, ma anche alla comunità cristiana nelle sue molteplici articolazioni.
D. – A sostegno di quanto chiede il Papa in questa intenzione di preghiera, c’è in particolare la Pontificia Opera dell’Infanzia missionaria. In qualche modo, questa realtà dimostra che non è mai troppo presto per essere testimoni dell’amore cristiano…
R. – La Pontificia Opera dell'Infanzia è nata proprio con un intento di tipo educativo: aiutare i ragazzi a sperimentare la passione per la missione, per l’impegno. Questo significa anche prendere coscienza del fatto che hanno bisogno di stimoli, bisogno di modelli di riferimento a cui guardare, hanno bisogno di essere accompagnati. In fondo, chi si propone come educatore nei loro confronti non deve guardarli come "oggetti", quanto piuttosto come "soggetti", veri e propri protagonisti.
D. – Cosa le hanno insegnato i bambini dell’Africa?
R. – Il sorriso è quello che colpisce maggiormente. Si tratta di ragazzi che spesso nascono in contesti davvero difficili e non sono certamente ragazzi viziati, non sono ragazzi che hanno sperimentato la contaminazione del consumismo... In questo senso, io credo che la loro testimonianza di vita, e soprattutto l’affiatamento che hanno nel contesto familiare, sia davvero motivo di edificazione quando si guarda al cosiddetto “primo mondo”, mondo industrializzato che sappiamo bene, in questo frangente della storia, sembra in crisi sistemica, sembra davvero in grande difficoltà. Credo che, in fondo, la testimonianza che ci viene da questi ragazzi sia l’affermazione della semplicità. (gf)
© Copyright Radio Vaticana
“Perché i bambini e i giovani siano messaggeri del Vangelo e perché la loro dignità sia sempre rispettata e preservata da ogni violenza e sfruttamento”. E’ questa l’intenzione missionaria di preghiera di Benedetto XVI per il mese di dicembre. Nel tempo forte che ci avvicina al Natale del Signore, il Papa rinnova dunque l’esortazione a pregare per i bambini, la cui dignità è purtroppo spesso violata dagli adulti. Su questa intenzione, Alessandro Gisotti ha raccolto la riflessione di padre Giulio Albanese, direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie, tra cui “Il Ponte d’oro”, mensile dell’Opera Infanzia Missionaria:
R. – Annuncio e testimonianza del Vangelo, in fondo, a pensarci bene, è stato il tema della Giornata missionaria mondiale che abbiamo celebrato ad ottobre: “Testimoni di Dio”. Ai ragazzi questa proposta viene formulata nuovamente dal Santo Padre, non foss’altro perché in ogni caso loro rappresentano il futuro. E' inutile nascondercelo: se vogliamo un mondo migliore, un mondo decisamente diverso da quello attuale, bisogna investire energia su di loro, ed è per questo che soprattutto la loro dignità va rispettata innanzitutto attraverso un impegno da parte delle agenzie educative. Quando parliamo di agenzie educative, inevitabilmente facciamo riferimento alla famiglia, alla scuola, ma anche alla comunità cristiana nelle sue molteplici articolazioni.
D. – A sostegno di quanto chiede il Papa in questa intenzione di preghiera, c’è in particolare la Pontificia Opera dell’Infanzia missionaria. In qualche modo, questa realtà dimostra che non è mai troppo presto per essere testimoni dell’amore cristiano…
R. – La Pontificia Opera dell'Infanzia è nata proprio con un intento di tipo educativo: aiutare i ragazzi a sperimentare la passione per la missione, per l’impegno. Questo significa anche prendere coscienza del fatto che hanno bisogno di stimoli, bisogno di modelli di riferimento a cui guardare, hanno bisogno di essere accompagnati. In fondo, chi si propone come educatore nei loro confronti non deve guardarli come "oggetti", quanto piuttosto come "soggetti", veri e propri protagonisti.
D. – Cosa le hanno insegnato i bambini dell’Africa?
R. – Il sorriso è quello che colpisce maggiormente. Si tratta di ragazzi che spesso nascono in contesti davvero difficili e non sono certamente ragazzi viziati, non sono ragazzi che hanno sperimentato la contaminazione del consumismo... In questo senso, io credo che la loro testimonianza di vita, e soprattutto l’affiatamento che hanno nel contesto familiare, sia davvero motivo di edificazione quando si guarda al cosiddetto “primo mondo”, mondo industrializzato che sappiamo bene, in questo frangente della storia, sembra in crisi sistemica, sembra davvero in grande difficoltà. Credo che, in fondo, la testimonianza che ci viene da questi ragazzi sia l’affermazione della semplicità. (gf)
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Quando la musica è espressione della gioia di vivere (O.R.)
Quando la musica è espressione della gioia di vivere
Un'atmosfera tipicamente spagnola ha avvolto per circa un'ora, sabato pomeriggio 26 novembre, l'Aula Paolo VI, dove sono risuonate musiche alla maniera «ispanica», con il loro senso popolare, i loro toni e i loro ritmi, che trasmettono gioia di vivere, di emozionare, di commuovere e di comunicare.
Le ha eseguite, sotto la direzione del maestro cileno Maximiano Valdés, l'Orchestra sinfonica del Principato delle Asturie, nel concerto in onore di Benedetto XVI, offerto dal Governo locale e dalla Fundación María Cristina Masaveu Peterson.
Tra le volte dell'Aula sono echeggiate le note della Danza rituale del fuoco di Manuel de Falla, dei poemi d'amore Triana e Lavapiés di Isaac Albéniz, della Suite numero 2 da Il cappello a tre punte, del Don Giovanni di Richard Strauss e del Capriccio spagnolo di Nikolai Rimsky-Korsakov. Al termine, il Pontefice ha tenuto un breve discorso. Tra le personalità spagnole presenti, monsignor Jesús Sanz Montes, arcivescovo di Oviedo, Francisco Álvarez Cascos, presidente del Governo del Principato delle Asturie, Fernando Masaveu, presidente della Fondazione che ha organizzato l'avvenimento, il sindaco di Oviedo.
Al concerto hanno assistito quattordici cardinali, tra i quali Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, numerosi presuli e prelati della Curia Romana. Con il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede erano l'arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e i monsignori Peter Bryan Wells, assessore, e Guillermo Javier Karcher, del Protocollo della Segreteria di Stato.
Il Pontefice è giunto nell'Aula Paolo VI accompagnato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, dall'arcivescovo James Michael Harvey, prefetto della Casa Pontificia, dal vescovo Paolo De Nicolò, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, dai monsignori Georg Gänswein, segretario particolare, e Alfred Xuereb, della segreteria particolare, e da Patrizio Polisca, medico personale.
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
Un'atmosfera tipicamente spagnola ha avvolto per circa un'ora, sabato pomeriggio 26 novembre, l'Aula Paolo VI, dove sono risuonate musiche alla maniera «ispanica», con il loro senso popolare, i loro toni e i loro ritmi, che trasmettono gioia di vivere, di emozionare, di commuovere e di comunicare.
Le ha eseguite, sotto la direzione del maestro cileno Maximiano Valdés, l'Orchestra sinfonica del Principato delle Asturie, nel concerto in onore di Benedetto XVI, offerto dal Governo locale e dalla Fundación María Cristina Masaveu Peterson.
Tra le volte dell'Aula sono echeggiate le note della Danza rituale del fuoco di Manuel de Falla, dei poemi d'amore Triana e Lavapiés di Isaac Albéniz, della Suite numero 2 da Il cappello a tre punte, del Don Giovanni di Richard Strauss e del Capriccio spagnolo di Nikolai Rimsky-Korsakov. Al termine, il Pontefice ha tenuto un breve discorso. Tra le personalità spagnole presenti, monsignor Jesús Sanz Montes, arcivescovo di Oviedo, Francisco Álvarez Cascos, presidente del Governo del Principato delle Asturie, Fernando Masaveu, presidente della Fondazione che ha organizzato l'avvenimento, il sindaco di Oviedo.
Al concerto hanno assistito quattordici cardinali, tra i quali Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, numerosi presuli e prelati della Curia Romana. Con il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede erano l'arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e i monsignori Peter Bryan Wells, assessore, e Guillermo Javier Karcher, del Protocollo della Segreteria di Stato.
Il Pontefice è giunto nell'Aula Paolo VI accompagnato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, dall'arcivescovo James Michael Harvey, prefetto della Casa Pontificia, dal vescovo Paolo De Nicolò, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, dai monsignori Georg Gänswein, segretario particolare, e Alfred Xuereb, della segreteria particolare, e da Patrizio Polisca, medico personale.
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
Dal Covolo presenta il libro del Papa: «Un'opera frutto di una vita intera» (Liut)
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Il dolore e la preghiera del Papa per le vittime nella missione di Kiremba
BENEDETTO XVI: IL DOLORE E LA PREGHIERA PER LE VITTIME NELLA MISSIONE DI KIREMBA
Benedetto XVI ha inviato un messaggio, attraverso il Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, al vescovo di Ngozi, alla Congregazione delle Ancelle della Carità di Brescia, alla famiglia ed ai parenti di Francesco Bazzani, dopo i fatti di domenica 27 novembre, avvenuti nella missione di Kiremba, diocesi di Ngozi, in cui, durante una rapina, sono stati uccisi una religiosa ed un volontario laico, mentre un'altra suora è stata ferita.
“Venendo a conoscenza con dolore – si legge nel messaggio pervenuto in copia all'agenzia Fides dalla Nunziatura del Burundi - dell'assassinio di suor Lukrecija Mamic e di Francesco Bazzani, Benedetto XVI esprime le sue sincere condoglianze alla Congregazione delle Ancelle della Carità di Brescia, alla famiglia ed ai parenti del signor Bazzani, e a tutta la comunità diocesana di Ngozi. Il Papa chiede a Dio, Padre di ogni misericordia, di accogliere nel suo Regno questi defunti che hanno consacrato la loro vita al servizio dei malati e dei poveri, e di dare coraggio e speranza a suor Carla Lucia Brienza affinché superi questa prova.
In pegno di conforto spirituale, il Santo Padre invia di gran cuore la benedizione apostolica, alle suore della Congregazione delle Ancelle della Carità, alla famiglia del signor Bazzani, e a tutti coloro che sono colpiti da queste morti brutali”.
© Copyright Sir
Benedetto XVI ha inviato un messaggio, attraverso il Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, al vescovo di Ngozi, alla Congregazione delle Ancelle della Carità di Brescia, alla famiglia ed ai parenti di Francesco Bazzani, dopo i fatti di domenica 27 novembre, avvenuti nella missione di Kiremba, diocesi di Ngozi, in cui, durante una rapina, sono stati uccisi una religiosa ed un volontario laico, mentre un'altra suora è stata ferita.
“Venendo a conoscenza con dolore – si legge nel messaggio pervenuto in copia all'agenzia Fides dalla Nunziatura del Burundi - dell'assassinio di suor Lukrecija Mamic e di Francesco Bazzani, Benedetto XVI esprime le sue sincere condoglianze alla Congregazione delle Ancelle della Carità di Brescia, alla famiglia ed ai parenti del signor Bazzani, e a tutta la comunità diocesana di Ngozi. Il Papa chiede a Dio, Padre di ogni misericordia, di accogliere nel suo Regno questi defunti che hanno consacrato la loro vita al servizio dei malati e dei poveri, e di dare coraggio e speranza a suor Carla Lucia Brienza affinché superi questa prova.
In pegno di conforto spirituale, il Santo Padre invia di gran cuore la benedizione apostolica, alle suore della Congregazione delle Ancelle della Carità, alla famiglia del signor Bazzani, e a tutti coloro che sono colpiti da queste morti brutali”.
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Fellay: «Non possiamo approvare il preambolo così com’è» (Tornielli)
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L'Avvento tra i “meninos de rua”. P. Chiera: sognano una visita del Papa durante la Gmg di Rio
L'Avvento tra i “meninos de rua”. P. Chiera: sognano una visita del Papa durante la Gmg di Rio
“Santo Padre venga a trovarci”: è l’invito dei ragazzi di strada di Rio de Janeiro, lanciato nei giorni scorsi sui social network. I meninos de rua accolti da padre Renato Chiera, fondatore della “Casa do Menor”, sperano che il Papa possa incontrarli durante la visita nella città brasiliana, in occasione della Gmg del 2013. In questa intervista di Alessandro Gisotti, padre Renato Chiera parla dell’iniziativa e di come i suoi ragazzi vivano il periodo forte dell’Avvento:
R. – Guardo all’Avvento e dico “Venuta di chi?”. Guardo al Natale e dico “Natale vuol dire nascita: nascita di chi?” Mi guardo attorno e vedo luci, vedo Babbo Natale, vedo panettoni, vedo supermercati affollati di gente affannata, perché deve comprare qualcosa, ma non trovo Gesù. Io soffro e mi domando: “Ma cosa facciamo del Natale?”. Io cerco Gesù, cerco un Dio bambino che viene tra noi, per dirci che siamo amati, ma non lo trovo in nessun negozio. Adesso lo incontro e lo amo in ogni uomo e in ogni bambino. Questa scoperta ha cambiato la mia vita e mi ha buttato a cercare Gesù nelle strade delle grandi periferie del Brasile, un Gesù “menino de rua”, rigettato da tutti, povero, abbandonato, non c’era posto per Lui. Come Gesù entriamo nelle piaghe dei più piccoli, dei più abbandonati, per dire loro: “Ecco il Natale” - il loro Natale, così come lo vivono - e anche per dire: “Non sei solo, noi siamo con te”. E’ questo il Natale di cui i nostri ragazzi hanno bisogno: sentire la presenza di qualcuno che li ama come sono.
D. – In che modo vengono accompagnati i ragazzi di Casa do Menor in questo periodo che avvicina il Natale?
R. – Abbiamo aperto adesso un centro per accogliere i cracudos, i dipendenti dal crac. Il crac diventa la grande epidemia nazionale, un’epidemia, una tragedia di un popolo. Sono già oltre due milioni le persone che usano il crac. E allora noi vogliamo essere una risposta con questa grande iniziativa. Abbiamo scelto adesso di dedicarci a bambini e adolescenti caduti nella droga, ma soprattutto nel crac, coloro che nessuno vuole e che molte volte le mamme affidano alla polizia dicendo: “Fanne quel che vuoi”. Si arriva a questo punto di disperazione. Così questa è la risposta che Dio vuole che diamo in questo momento: di speranza.
D. – C’è un regalo particolare che i “meninos de rua” si aspettano, magari non proprio per questo Natale, ma in vista della Gmg di Rio?
R. – Oh sì! io vorrei qui parlare al Papa. I bambini hanno scritto tante lettere al Papa. “Papa, vienici a trovare, perché ci hanno detto che tu ami i bambini, ami i ragazzi che soffrono, e allora vienici a trovare alla Casa do Menor”. Ecco il grande regalo che noi osiamo sperare. Il Papa verrà nel 2013, alla Giornata Mondiale della Gioventù. Rio de Janeiro ha il "marchio" un po’ duro e terribile dei bambini di strada, ma noi vorremmo anche mettere un segno di speranza. La Casa do Menor vorrebbe essere nella grande periferia di Rio un segno di speranza e di risposta a questo marchio che sta segnando Rio de Janeiro. Quindi, il nostro appello, il nostro grande regalo sarebbe proprio quello di avere il Papa fra di noi. I nostri bambini hanno bisogno di sentire che Dio li ama, attraverso la Chiesa, attraverso persone che hanno il cuore grande come il Papa. (ap)
© Copyright Radio Vaticana
“Santo Padre venga a trovarci”: è l’invito dei ragazzi di strada di Rio de Janeiro, lanciato nei giorni scorsi sui social network. I meninos de rua accolti da padre Renato Chiera, fondatore della “Casa do Menor”, sperano che il Papa possa incontrarli durante la visita nella città brasiliana, in occasione della Gmg del 2013. In questa intervista di Alessandro Gisotti, padre Renato Chiera parla dell’iniziativa e di come i suoi ragazzi vivano il periodo forte dell’Avvento:
R. – Guardo all’Avvento e dico “Venuta di chi?”. Guardo al Natale e dico “Natale vuol dire nascita: nascita di chi?” Mi guardo attorno e vedo luci, vedo Babbo Natale, vedo panettoni, vedo supermercati affollati di gente affannata, perché deve comprare qualcosa, ma non trovo Gesù. Io soffro e mi domando: “Ma cosa facciamo del Natale?”. Io cerco Gesù, cerco un Dio bambino che viene tra noi, per dirci che siamo amati, ma non lo trovo in nessun negozio. Adesso lo incontro e lo amo in ogni uomo e in ogni bambino. Questa scoperta ha cambiato la mia vita e mi ha buttato a cercare Gesù nelle strade delle grandi periferie del Brasile, un Gesù “menino de rua”, rigettato da tutti, povero, abbandonato, non c’era posto per Lui. Come Gesù entriamo nelle piaghe dei più piccoli, dei più abbandonati, per dire loro: “Ecco il Natale” - il loro Natale, così come lo vivono - e anche per dire: “Non sei solo, noi siamo con te”. E’ questo il Natale di cui i nostri ragazzi hanno bisogno: sentire la presenza di qualcuno che li ama come sono.
D. – In che modo vengono accompagnati i ragazzi di Casa do Menor in questo periodo che avvicina il Natale?
R. – Abbiamo aperto adesso un centro per accogliere i cracudos, i dipendenti dal crac. Il crac diventa la grande epidemia nazionale, un’epidemia, una tragedia di un popolo. Sono già oltre due milioni le persone che usano il crac. E allora noi vogliamo essere una risposta con questa grande iniziativa. Abbiamo scelto adesso di dedicarci a bambini e adolescenti caduti nella droga, ma soprattutto nel crac, coloro che nessuno vuole e che molte volte le mamme affidano alla polizia dicendo: “Fanne quel che vuoi”. Si arriva a questo punto di disperazione. Così questa è la risposta che Dio vuole che diamo in questo momento: di speranza.
D. – C’è un regalo particolare che i “meninos de rua” si aspettano, magari non proprio per questo Natale, ma in vista della Gmg di Rio?
R. – Oh sì! io vorrei qui parlare al Papa. I bambini hanno scritto tante lettere al Papa. “Papa, vienici a trovare, perché ci hanno detto che tu ami i bambini, ami i ragazzi che soffrono, e allora vienici a trovare alla Casa do Menor”. Ecco il grande regalo che noi osiamo sperare. Il Papa verrà nel 2013, alla Giornata Mondiale della Gioventù. Rio de Janeiro ha il "marchio" un po’ duro e terribile dei bambini di strada, ma noi vorremmo anche mettere un segno di speranza. La Casa do Menor vorrebbe essere nella grande periferia di Rio un segno di speranza e di risposta a questo marchio che sta segnando Rio de Janeiro. Quindi, il nostro appello, il nostro grande regalo sarebbe proprio quello di avere il Papa fra di noi. I nostri bambini hanno bisogno di sentire che Dio li ama, attraverso la Chiesa, attraverso persone che hanno il cuore grande come il Papa. (ap)
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La Fraternità San Pio X e il Preambolo dottrinale (Messainlatino)
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Tra ricordi e nuove impressioni l'arcivescovo Giuseppe Bertello parla dell'esperienza vissuta accanto al Papa in Benin (Ponzi)
Tra ricordi e nuove impressioni l'arcivescovo Giuseppe Bertello parla dell'esperienza vissuta accanto al Papa in Benin
In Africa un popolo che cresce con la Chiesa
di Mario Ponzi
L'Africa non si dimentica facilmente, «soprattutto se, come è capitato a me, si è vissuta un'esperienza spirituale e umana che ti segna nel profondo dell'anima». L'arcivescovo Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per lunghi anni nunzio apostolico in diversi Paesi del continente, racconta in questa intervista al nostro giornale le emozioni vissute seguendo il Papa nel viaggio in Benin, Paese nel quale egli ha svolto il suo primo incarico di nunzio dal 1987 al 1991.
Ritorno in Benin. Come ha trovato il Paese dopo tanti anni?
Intanto ho provato una sensazione strana. Non riconoscevo più Cotonou, dove sono stato tanti anni. Ho trovato una città completamente trasformata. Prima c'era solo qualche casupola attorno ai pochi palazzi con più piani adibiti a ministeri. C'è stato in questi anni un grande sviluppo di infrastrutture: ciò significa che è stata imboccata la strada del progresso. E la cosa non può che farmi piacere. Quello che non è cambiato è lo spirito del popolo beninese. Sempre aperto, sorridente, capace di esprimere l'affetto che prova per la gente. E poi ho trovato sempre vivo quello spirito religioso che lo caratterizza.
I rapporti fra Stato e Chiesa sono mutati?
Ho vissuto a Cotonou un periodo interessante. Era il momento della conferenza nazionale. Il Paese attraversava una crisi gravissima e rischiava la bancarotta, da un lato, e la guerra civile, dall'altro. I vescovi, con la loro azione pastorale e il loro impegno, contribuirono a rimettere la nazione in carreggiata. Ricordo la lettera pastorale Convertitevi e il Benin vivrà, che risale al 1999. Questa lettera divenne un po' il vademecum della conferenza nazionale e in seguito fu un indispensabile strumento di riflessione, necessario a muovere i primi passi del nuovo sistema democratico.
In questo processo ha avuto un ruolo primario l'allora arcivescovo Isidore de Souza, sulla cui tomba il Papa ha pregato nella cattedrale di Cotonou.
La sua statura morale è indiscutibile. Monsignor de Souza era un grande sacerdote, di profonda vita spirituale. La Chiesa ha avuto il merito di aver preparato gran parte della classe intellettuale, sia quanti erano rimasti nel Paese sia quanti erano partiti all'estero. Fu dunque quasi naturale che nel momento della transizione essi chiedessero alla Chiesa di prendere la barra del timone per guidare la conferenza nazionale che avrebbe sancito la fine del regime e l'inizio di una nuova era di democrazia. Sapevano di vivere un momento decisivo per il loro futuro e si misero nelle mani di chi riscuoteva unanime riconoscimento in quanto autorità morale.
Ma in quegli anni l'arcivescovo di Cotonou era ancora monsignor Christophe Adimou, mentre monsignor de Souza era solo un parroco. Come mai si pensò a lui per un compito così importante e delicato?
Effettivamente in quegli anni monsignor de Souza era parroco a Santa Rita. Infatti, mentre il 19 novembre scorso ero con il Papa, proprio nella parrocchia di Santa Rita -- dove si è svolto l'incontro con i bambini -- non ho potuto fare a meno di pensare a lui con una certa nostalgia. I vescovi allora si trovarono di fronte a una grande responsabilità. Erano consapevoli del fatto che il Paese era profondamente diviso. Dunque per tenere tutti seduti intorno a un tavolo a discutere per il bene comune, ci voleva una forte personalità, conosciuta e stimata da tutti. Venne spontaneo pensare a quel parroco. Fu una scelta che si è rivelata provvidenziale.
C'è stato però chi ha avuto qualcosa da ridire su questa vicenda.
C'è sempre qualcuno che dice cose non proprio esatte e confonde le idee. Quando Giovanni Paolo II, nel 1993, andò in Benin, riconobbe il ruolo che aveva avuto in quella fase storica monsignor de Souza e il suo merito di aver portato la Chiesa cattolica in soccorso di quel Paese in un momento tanto difficile, contribuendo così al ristabilimento dell'armonia. Semmai il Papa, visto che de Souza era diventato arcivescovo di Cotonou e il Paese cominciava a camminare da solo, pensò che per il presule era giunto il momento di lasciare l'incarico nazionale. Ma io posso assicurare che monsignor de Souza lo avrebbe lasciato comunque, era già nel suo animo una simile decisione. La diocesi lo assorbiva troppo e intendeva ormai dedicarsi a tempo pieno al suo lavoro pastorale. Dunque fu una decisione naturale. Era fuori strada chi volle vederci sotto qualcosa di diverso.
Cosa è cambiato in Benin dopo la conferenza nazionale?
Direi che sono cambiate molte cose. Ho trovato Cotonou completamente rinnovata. Il Paese è molto cresciuto anche a livello spirituale. Ci sono tante nuove vocazioni. Certo bisognerebbe andare all'interno del Paese per capire meglio. Ricordo che in certe zone la situazione era veramente drammatica.
Lei ha fatto riferimento alle vocazioni. È una realtà in crescita. Un segno in più di speranza per l'Africa?
È una realtà in crescita che lascia indubbiamente sperare. A me però è sembrata altrettanto importante, anche se forse è stato poco sottolineato, la crescita della cooperazione tra le Chiese del nord e quelle del sud del Paese, che sono tradizionalmente più ricche di vocazioni, non fosse altro perché si tratta di Chiese di più antica formazione. È indubbiamente un bel segno di collaborazione tra le Chiese.
Per concludere, quali emozioni ha provato nel tornare in queste terre?
Tanta nostalgia.
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
In Africa un popolo che cresce con la Chiesa
di Mario Ponzi
L'Africa non si dimentica facilmente, «soprattutto se, come è capitato a me, si è vissuta un'esperienza spirituale e umana che ti segna nel profondo dell'anima». L'arcivescovo Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per lunghi anni nunzio apostolico in diversi Paesi del continente, racconta in questa intervista al nostro giornale le emozioni vissute seguendo il Papa nel viaggio in Benin, Paese nel quale egli ha svolto il suo primo incarico di nunzio dal 1987 al 1991.
Ritorno in Benin. Come ha trovato il Paese dopo tanti anni?
Intanto ho provato una sensazione strana. Non riconoscevo più Cotonou, dove sono stato tanti anni. Ho trovato una città completamente trasformata. Prima c'era solo qualche casupola attorno ai pochi palazzi con più piani adibiti a ministeri. C'è stato in questi anni un grande sviluppo di infrastrutture: ciò significa che è stata imboccata la strada del progresso. E la cosa non può che farmi piacere. Quello che non è cambiato è lo spirito del popolo beninese. Sempre aperto, sorridente, capace di esprimere l'affetto che prova per la gente. E poi ho trovato sempre vivo quello spirito religioso che lo caratterizza.
I rapporti fra Stato e Chiesa sono mutati?
Ho vissuto a Cotonou un periodo interessante. Era il momento della conferenza nazionale. Il Paese attraversava una crisi gravissima e rischiava la bancarotta, da un lato, e la guerra civile, dall'altro. I vescovi, con la loro azione pastorale e il loro impegno, contribuirono a rimettere la nazione in carreggiata. Ricordo la lettera pastorale Convertitevi e il Benin vivrà, che risale al 1999. Questa lettera divenne un po' il vademecum della conferenza nazionale e in seguito fu un indispensabile strumento di riflessione, necessario a muovere i primi passi del nuovo sistema democratico.
In questo processo ha avuto un ruolo primario l'allora arcivescovo Isidore de Souza, sulla cui tomba il Papa ha pregato nella cattedrale di Cotonou.
La sua statura morale è indiscutibile. Monsignor de Souza era un grande sacerdote, di profonda vita spirituale. La Chiesa ha avuto il merito di aver preparato gran parte della classe intellettuale, sia quanti erano rimasti nel Paese sia quanti erano partiti all'estero. Fu dunque quasi naturale che nel momento della transizione essi chiedessero alla Chiesa di prendere la barra del timone per guidare la conferenza nazionale che avrebbe sancito la fine del regime e l'inizio di una nuova era di democrazia. Sapevano di vivere un momento decisivo per il loro futuro e si misero nelle mani di chi riscuoteva unanime riconoscimento in quanto autorità morale.
Ma in quegli anni l'arcivescovo di Cotonou era ancora monsignor Christophe Adimou, mentre monsignor de Souza era solo un parroco. Come mai si pensò a lui per un compito così importante e delicato?
Effettivamente in quegli anni monsignor de Souza era parroco a Santa Rita. Infatti, mentre il 19 novembre scorso ero con il Papa, proprio nella parrocchia di Santa Rita -- dove si è svolto l'incontro con i bambini -- non ho potuto fare a meno di pensare a lui con una certa nostalgia. I vescovi allora si trovarono di fronte a una grande responsabilità. Erano consapevoli del fatto che il Paese era profondamente diviso. Dunque per tenere tutti seduti intorno a un tavolo a discutere per il bene comune, ci voleva una forte personalità, conosciuta e stimata da tutti. Venne spontaneo pensare a quel parroco. Fu una scelta che si è rivelata provvidenziale.
C'è stato però chi ha avuto qualcosa da ridire su questa vicenda.
C'è sempre qualcuno che dice cose non proprio esatte e confonde le idee. Quando Giovanni Paolo II, nel 1993, andò in Benin, riconobbe il ruolo che aveva avuto in quella fase storica monsignor de Souza e il suo merito di aver portato la Chiesa cattolica in soccorso di quel Paese in un momento tanto difficile, contribuendo così al ristabilimento dell'armonia. Semmai il Papa, visto che de Souza era diventato arcivescovo di Cotonou e il Paese cominciava a camminare da solo, pensò che per il presule era giunto il momento di lasciare l'incarico nazionale. Ma io posso assicurare che monsignor de Souza lo avrebbe lasciato comunque, era già nel suo animo una simile decisione. La diocesi lo assorbiva troppo e intendeva ormai dedicarsi a tempo pieno al suo lavoro pastorale. Dunque fu una decisione naturale. Era fuori strada chi volle vederci sotto qualcosa di diverso.
Cosa è cambiato in Benin dopo la conferenza nazionale?
Direi che sono cambiate molte cose. Ho trovato Cotonou completamente rinnovata. Il Paese è molto cresciuto anche a livello spirituale. Ci sono tante nuove vocazioni. Certo bisognerebbe andare all'interno del Paese per capire meglio. Ricordo che in certe zone la situazione era veramente drammatica.
Lei ha fatto riferimento alle vocazioni. È una realtà in crescita. Un segno in più di speranza per l'Africa?
È una realtà in crescita che lascia indubbiamente sperare. A me però è sembrata altrettanto importante, anche se forse è stato poco sottolineato, la crescita della cooperazione tra le Chiese del nord e quelle del sud del Paese, che sono tradizionalmente più ricche di vocazioni, non fosse altro perché si tratta di Chiese di più antica formazione. È indubbiamente un bel segno di collaborazione tra le Chiese.
Per concludere, quali emozioni ha provato nel tornare in queste terre?
Tanta nostalgia.
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
Siria, il Papa: tutti si impegnino per la pacifica convivenza (Izzo)
SIRIA: PAPA, TUTTI SI IMPEGNINO PER PACIFICA CONVIVENZA
Salvatore Izzo
(AGI) - CdV, 28 nov. - In riferimento alla "delicata situazione della Siria", Benedetto XVI ha ribadito oggi "l'urgenza che tutti si impegnino per una convivenza pacifica, fondata sulla giustizia, sulla riconciliazione e sul rispetto della dignita' della persona e dei suoi diritti inalienabili". Lo afferma una nota della Sala Stampa della Santa Sede che riferisce i contenuti del colloquio di oggi tra il Papa e il premier libanese Njib Mikati. "Si e' richiamato infine - si legge nel testo - il contributo fondamentale che a tale scopo possono offrire i cristiani chiamati a essere artefici di concordia e di pace e la cui permanenza e' essenziale per il bene della Regione". (AGI)
Salvatore Izzo
(AGI) - CdV, 28 nov. - In riferimento alla "delicata situazione della Siria", Benedetto XVI ha ribadito oggi "l'urgenza che tutti si impegnino per una convivenza pacifica, fondata sulla giustizia, sulla riconciliazione e sul rispetto della dignita' della persona e dei suoi diritti inalienabili". Lo afferma una nota della Sala Stampa della Santa Sede che riferisce i contenuti del colloquio di oggi tra il Papa e il premier libanese Njib Mikati. "Si e' richiamato infine - si legge nel testo - il contributo fondamentale che a tale scopo possono offrire i cristiani chiamati a essere artefici di concordia e di pace e la cui permanenza e' essenziale per il bene della Regione". (AGI)
Il Papa agli scolari italiani: siate custodi della vita e del creato (Ambrogetti)
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Il Gesù di Papa Ratzinger. Alla luce della Fede, un nuovo approccio alla figura storica del Nazareno (Bonaventura)
Il Gesù di Papa Ratzinger
Alla luce della Fede, un nuovo approccio alla figura storica del Nazareno
Vincenzo Bonaventura
«La passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo Crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita».
Così mons. Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, ha sintetizzato, nell'aula magna dell'Università di Messina, la necessità avvertita dal Papa – che firma il libro Joseph Ratzinger Benedetto XVI, a sottolineare la sua partecipazione sia di teologo sia di Pontefice – di dedicare per intero il suo "Gesù di Nazaret" a una sola settimana dell'esistenza di Cristo, a fronte del racconto, fatto nel precedente (del 2007) dallo stesso titolo, della vita pubblica dal battesimo nel fiume Giordano fino alla confessione di Pietro e alla trasfigurazione.
Il volume (Libreria Editrice Vaticana), infatti, porta come sottotitolo "Dall'ingresso di Gerusalemme fino alla Resurrezione".
Il libro del Pontefice è stato presentato nell'ambito del progetto "Gesù di Nazaret all'Università", coordinato dal prof. Angelo Sindoni per l'ateneo messinese e dal prof. Pierluca Azzaro per l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e che dopo aver toccato Urbino continuerà a Parma, Sassari e Torino.
Mons. Dal Covolo ha rilevato come i due volumi costituiscano parti di una sola opera, ma non ha confermato l'intenzione annunciata in privato da Benedetto XVI di scrivere – se le forze lo sorreggeranno – anche una terza parte, da considerare – con parola di moda – un "prequel", cioè la storia dell'infanzia di Gesù.
Nell'attesa, si può dire con certezza che il Papa è al lavoro con le sue fedeli matite che ne raccolgono la scrittura in attesa che i collaboratori la trasferiscano sul computer.
I due libri costituiscono l'applicazione di una diversa modalità per avvicinarsi alla figura del Redentore: «Ormai da tempo – ha detto Dal Covolo – si avvertiva la necessità di un metodo nuovo, di un approccio a Gesù di Nazaret che, superando i limiti della ricerca storico-critica, ricomponesse in maniera plausibile l'annosa e devastante divaricazione tra il "Gesù storico", cioè "Gesù di Nazaret", e il "Cristo della fede": quasi che, al limite, si trattasse di due persone distinte; o quasi che l'esperienza post-pasquale dei discepoli, e cioè la fede nel Risorto, a partire soprattutto dalla Pentecoste – avesse imposto un "filtro deformante" alla rilettura dell'esperienza storica di Gesù, rendendo inaffidabile, o almeno discutibile, la storicità dei fatti raccontati nei Vangeli.
Insomma, né lo storico né tantomeno il teologo, qual è Ratzinger, per la loro esegesi possono mai perdere di vista il dato della Fede. «Solo se era successo qualcosa di straordinario – sostiene il Papa scrittore – se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia».
E aggiunge: «Credere che proprio come uomo era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole, e tuttavia in modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico», per poi concludere: «È chiaro che con questa visione della figura di Gesù io vado al di là di quello che dice una buona parte dell'esegesi contemporanea».
Ecco, dunque, l'importanza di questi libri, capaci di guardare alla Fede non per fare un salto indietro nell'irrazionale bensì per trovare nuove strade di comprensione più vicine all'uomo.
Come sarebbe possibile, infatti, che un Dio che si è fatto uomo non sia vicino alle necessità di chi non vuole fermarsi al primo, talvolta oscuro o ambiguo, significato della parola scritta? Non a caso, in questo secondo volume, Benedetto XVI riafferma l'innocenza del popolo ebraico, assolvendolo da quell'accusa di deicidio, partita da una parola – una sola – del Vangelo di Matteo. E scrive: «Matteo non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento (la scelta di condannare Cristo o Barabba, ndr) tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?».
Questo secondo volume si snoda in nove capitoli: Ingresso a Gerusalemme e purificazione del tempio, Il discorso escatologico di Gesù, La lavanda dei piedi, La preghiera sacerdotale di Gesù, L'ultima cena, I Getsemani, Il processo a Gesù, La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro, La risurrezione di Gesù dalla morte.
Un percorso di grande interesse, tanto che – come ha spiegato don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana – si è trattato di un best seller (uscito nel marzo scorso, è stato poi per molti mesi primo in tutte le classifiche) non solo in Italia ma anche negli Usa, in Francia, Germania e molti altri Paesi, e adesso aspira a diventare un long seller in tutto il mondo.
Ed è bello immaginare questo Papa teologo così colto intento a prendere appunti, sempre rigorosamente con la matita, durante gli esercizi spirituali quaresimali che nel 2010 sono stati predicati all'intera Curia romana proprio da mons. Dal Covolo.
I lavori dell'incontro erano stati aperti dal rettore dell'Università di Messina, Franco Tomasello, il quale, dichiarandosi ammiratore di Ratzinger, da medico ha sottolineato che la conoscenza scientifica non può abbracciare tutta la verità: ci vuole umiltà.
A sua volta l'arcivescovo di Messina, mons. Calogero La Piana, ha messo in evidenza il modo in cui il Papa ha reso la figura di Gesù «limpida, accessibile e presente».
Ha concluso i lavori il prof. Sindoni ricordando che la storia non può essere una scienza classificatoria ma umanistica: «L'ermeneutica della Fede per lo storico è un'ipotesi di lavoro e occorre prendersi la responsabilità della sintesi. Lo storico deve provare a dare risposte».
© Copyright Gazzetta del sud, 29 novembre 2011
Alla luce della Fede, un nuovo approccio alla figura storica del Nazareno
Vincenzo Bonaventura
«La passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo Crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita».
Così mons. Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, ha sintetizzato, nell'aula magna dell'Università di Messina, la necessità avvertita dal Papa – che firma il libro Joseph Ratzinger Benedetto XVI, a sottolineare la sua partecipazione sia di teologo sia di Pontefice – di dedicare per intero il suo "Gesù di Nazaret" a una sola settimana dell'esistenza di Cristo, a fronte del racconto, fatto nel precedente (del 2007) dallo stesso titolo, della vita pubblica dal battesimo nel fiume Giordano fino alla confessione di Pietro e alla trasfigurazione.
Il volume (Libreria Editrice Vaticana), infatti, porta come sottotitolo "Dall'ingresso di Gerusalemme fino alla Resurrezione".
Il libro del Pontefice è stato presentato nell'ambito del progetto "Gesù di Nazaret all'Università", coordinato dal prof. Angelo Sindoni per l'ateneo messinese e dal prof. Pierluca Azzaro per l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e che dopo aver toccato Urbino continuerà a Parma, Sassari e Torino.
Mons. Dal Covolo ha rilevato come i due volumi costituiscano parti di una sola opera, ma non ha confermato l'intenzione annunciata in privato da Benedetto XVI di scrivere – se le forze lo sorreggeranno – anche una terza parte, da considerare – con parola di moda – un "prequel", cioè la storia dell'infanzia di Gesù.
Nell'attesa, si può dire con certezza che il Papa è al lavoro con le sue fedeli matite che ne raccolgono la scrittura in attesa che i collaboratori la trasferiscano sul computer.
I due libri costituiscono l'applicazione di una diversa modalità per avvicinarsi alla figura del Redentore: «Ormai da tempo – ha detto Dal Covolo – si avvertiva la necessità di un metodo nuovo, di un approccio a Gesù di Nazaret che, superando i limiti della ricerca storico-critica, ricomponesse in maniera plausibile l'annosa e devastante divaricazione tra il "Gesù storico", cioè "Gesù di Nazaret", e il "Cristo della fede": quasi che, al limite, si trattasse di due persone distinte; o quasi che l'esperienza post-pasquale dei discepoli, e cioè la fede nel Risorto, a partire soprattutto dalla Pentecoste – avesse imposto un "filtro deformante" alla rilettura dell'esperienza storica di Gesù, rendendo inaffidabile, o almeno discutibile, la storicità dei fatti raccontati nei Vangeli.
Insomma, né lo storico né tantomeno il teologo, qual è Ratzinger, per la loro esegesi possono mai perdere di vista il dato della Fede. «Solo se era successo qualcosa di straordinario – sostiene il Papa scrittore – se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia».
E aggiunge: «Credere che proprio come uomo era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole, e tuttavia in modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico», per poi concludere: «È chiaro che con questa visione della figura di Gesù io vado al di là di quello che dice una buona parte dell'esegesi contemporanea».
Ecco, dunque, l'importanza di questi libri, capaci di guardare alla Fede non per fare un salto indietro nell'irrazionale bensì per trovare nuove strade di comprensione più vicine all'uomo.
Come sarebbe possibile, infatti, che un Dio che si è fatto uomo non sia vicino alle necessità di chi non vuole fermarsi al primo, talvolta oscuro o ambiguo, significato della parola scritta? Non a caso, in questo secondo volume, Benedetto XVI riafferma l'innocenza del popolo ebraico, assolvendolo da quell'accusa di deicidio, partita da una parola – una sola – del Vangelo di Matteo. E scrive: «Matteo non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento (la scelta di condannare Cristo o Barabba, ndr) tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?».
Questo secondo volume si snoda in nove capitoli: Ingresso a Gerusalemme e purificazione del tempio, Il discorso escatologico di Gesù, La lavanda dei piedi, La preghiera sacerdotale di Gesù, L'ultima cena, I Getsemani, Il processo a Gesù, La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro, La risurrezione di Gesù dalla morte.
Un percorso di grande interesse, tanto che – come ha spiegato don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana – si è trattato di un best seller (uscito nel marzo scorso, è stato poi per molti mesi primo in tutte le classifiche) non solo in Italia ma anche negli Usa, in Francia, Germania e molti altri Paesi, e adesso aspira a diventare un long seller in tutto il mondo.
Ed è bello immaginare questo Papa teologo così colto intento a prendere appunti, sempre rigorosamente con la matita, durante gli esercizi spirituali quaresimali che nel 2010 sono stati predicati all'intera Curia romana proprio da mons. Dal Covolo.
I lavori dell'incontro erano stati aperti dal rettore dell'Università di Messina, Franco Tomasello, il quale, dichiarandosi ammiratore di Ratzinger, da medico ha sottolineato che la conoscenza scientifica non può abbracciare tutta la verità: ci vuole umiltà.
A sua volta l'arcivescovo di Messina, mons. Calogero La Piana, ha messo in evidenza il modo in cui il Papa ha reso la figura di Gesù «limpida, accessibile e presente».
Ha concluso i lavori il prof. Sindoni ricordando che la storia non può essere una scienza classificatoria ma umanistica: «L'ermeneutica della Fede per lo storico è un'ipotesi di lavoro e occorre prendersi la responsabilità della sintesi. Lo storico deve provare a dare risposte».
© Copyright Gazzetta del sud, 29 novembre 2011
Il Papa incontra il Primo Ministro del Libano (Rome Reports)
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Cuba, nunzio apostolico: Nuovo clima in relazioni Stato-Chiesa. L'anno prossimo probabile visita del Papa
Cuba/ Nunzio apostolico: Nuovo clima in relazioni Stato-Chiesa
Prende servizio mons. Musarò, anno prossimo probabile visita Papa
Città del Vaticano, 28 nov. (TMNews)
Monsignor Bruno Musarò ha iniziato la sua missione come nunzio a Cuba esprimendo la "soddisfazione della Santa Sede per il nuovo clima nelle relazioni Stato-Chiesa". Sull'isola potrebbe giungere in visita a marzo prossimo Papa Benedetto XVI.
Il presule è giunto all'Avana lo scorso 12 ottobre e, riferisce l''Osservatore romano', il 2 novembre ha avuto luogo la cerimonia di presentazione delle lettere credenziali presso il Palacio de la Revolucion.
Alla presenza del ministro degli Affari esteri, Bruno Rodriguez Parrilla, l'arcivescovo ha consegnato le lettere credenziali alla signora Gladis Maria Bejerano Portela, vice-presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri, con la quale si è intrattenuto per una "cordiale conversazione". Il nunzio apostolico, "trasmettendo rispettosi ossequi al presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri della Repubblica, Raul Castro Ruz, e al Comandante Supremo della Rivoluzione, Fidel Castro Ruz", ha portato "il saluto e la benedizione del Papa per tutto il popolo cubano, insieme con la soddisfazione della Santa Sede per il nuovo clima nelle relazioni Stato-Chiesa, che si è instaurato a partire dal dialogo del Governo con i vescovi del Paese, iniziato l'anno scorso". Il giornale vaticano sottolinea che "la signora Bejerano Portela come il signor Rodriguez Parilla hanno ricordato con piacere e viva gratitudine le recenti visite a Cuba del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e dell'arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati Dominique Mamberti".
La sera di martedì 25 ottobre Musarò ha presieduto nella cattedrale dell'Avana la messa con i vescovi ausiliari e un cinquantina di sacerdoti, durante la quale il cardinale Jaime Ortega y Alamino lo ha presentato all'arcidiocesi. Domenica 30 ottobre, infine, nella diocesi di Pinar del Rio, il nuovo nunzio apostolico ha partecipato alla processione della Virgen de la Caridad del Cobre, che ha avuto inizio con la messa solenne nello stadio cittadino Capitan San Luis, "gremito di fedeli entusiasti ad accogliere l'immagine della Madonna, patrona di Cuba e di tutti i cubani".
© Copyright TMNews
Prende servizio mons. Musarò, anno prossimo probabile visita Papa
Città del Vaticano, 28 nov. (TMNews)
Monsignor Bruno Musarò ha iniziato la sua missione come nunzio a Cuba esprimendo la "soddisfazione della Santa Sede per il nuovo clima nelle relazioni Stato-Chiesa". Sull'isola potrebbe giungere in visita a marzo prossimo Papa Benedetto XVI.
Il presule è giunto all'Avana lo scorso 12 ottobre e, riferisce l''Osservatore romano', il 2 novembre ha avuto luogo la cerimonia di presentazione delle lettere credenziali presso il Palacio de la Revolucion.
Alla presenza del ministro degli Affari esteri, Bruno Rodriguez Parrilla, l'arcivescovo ha consegnato le lettere credenziali alla signora Gladis Maria Bejerano Portela, vice-presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri, con la quale si è intrattenuto per una "cordiale conversazione". Il nunzio apostolico, "trasmettendo rispettosi ossequi al presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri della Repubblica, Raul Castro Ruz, e al Comandante Supremo della Rivoluzione, Fidel Castro Ruz", ha portato "il saluto e la benedizione del Papa per tutto il popolo cubano, insieme con la soddisfazione della Santa Sede per il nuovo clima nelle relazioni Stato-Chiesa, che si è instaurato a partire dal dialogo del Governo con i vescovi del Paese, iniziato l'anno scorso". Il giornale vaticano sottolinea che "la signora Bejerano Portela come il signor Rodriguez Parilla hanno ricordato con piacere e viva gratitudine le recenti visite a Cuba del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e dell'arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati Dominique Mamberti".
La sera di martedì 25 ottobre Musarò ha presieduto nella cattedrale dell'Avana la messa con i vescovi ausiliari e un cinquantina di sacerdoti, durante la quale il cardinale Jaime Ortega y Alamino lo ha presentato all'arcidiocesi. Domenica 30 ottobre, infine, nella diocesi di Pinar del Rio, il nuovo nunzio apostolico ha partecipato alla processione della Virgen de la Caridad del Cobre, che ha avuto inizio con la messa solenne nello stadio cittadino Capitan San Luis, "gremito di fedeli entusiasti ad accogliere l'immagine della Madonna, patrona di Cuba e di tutti i cubani".
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Avvento, speranza di giustizia e di pace (Radio Vaticana)
Clicca qui per ascoltare la trasmissione segnalataci da Laura.
lunedì 28 novembre 2011
L'ultima settimana di Cristo nella lettura del Papa. Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina (Enrico Dal Covolo)
L'ultima settimana di Cristo nella lettura del Papa
Illuminante sproporzione
Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina
Dopo quello tenutosi all'università di Urbino, proseguono gli incontri organizzati dalla Libreria Editrice Vaticana per presentare il libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione nelle università italiane. Lunedì 28 novembre l'opera è stata al centro di un incontro all'università di Messina. Pubblichiamo stralci dell'intervento del vescovo rettore della Pontificia Università Lateranense.
di ENRICO DAL COVOLO
Bisogna riconoscere subito che il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI forma un tutt'uno con il primo, cioè con il volume dedicato alla prima parte della vita pubblica di Gesù, dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione.
Nel secondo volume, invece, si parla degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dall'ingresso in Gerusalemme alla risurrezione.
Ma come, si obietterà: c'è una chiara sproporzione! L'ultima settimana di Gesù, da sola, è trattata con la medesima estensione di tutta la vita pubblica che la precede! Tale "sproporzione", tuttavia, si spiega facilmente, ed è già presente nei Vangeli. Anzitutto il racconto della passione e della risurrezione, anche se viene per ultimo, è il più antico e il più elaborato dalle tradizioni orali e scritte, a cui i Vangeli attingono. Fin dall'inizio, infatti, l'uso liturgico (come è noto, il memoriale della Pasqua è il cuore della celebrazione eucaristica) "fissa" un nucleo piuttosto ampio del racconto.
Inoltre l'apparente "sproporzione" fa capire a un primo sguardo che la passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita.
Dunque, due volumi, due parti di un'unica opera: è adottato lo stesso metodo per narrare Gesù di Nazaret, mentre i contenuti della sua storia continuano.
Quanto ai contenuti del secondo volume, c'è anzitutto una Premessa (pp. 5-10), nella quale è ripreso e puntualizzato il discorso sul metodo.
Ne sottolineo solo un passaggio, che a me pare risolutivo: "Se l'esegesi biblica scientifica - l'Autore allude di fatto all'esegesi storico-critica - non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi, diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo, e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l'ermeneutica positivistica - positivistico-razionalista, dicevamo noi: da essa dipende, di fatto, l'esegesi storico-critica - "deve imparare che l'ermeneutica positivistica (...) non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni, e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo, e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un'interezza metodologica" (pp. 6-7).
Alla Premessa fanno seguito nove capitoli, più uno di Prospettive (pp. 309-324: così il racconto della passione, morte e risurrezione è esteso all'ascensione e all'attesa escatologica del ritorno del Signore), e una bibliografia ragionata, relativa anzitutto al primo volume nel suo complesso, e poi al secondo volume e ai suoi singoli capitoli (pp. 327-342).
Diamo uno sguardo - di necessità molto sintetico, nello stile di un "invito alla lettura" - ai capitoli del volume. La via maestra, lungo la quale il Papa ci conduce, è la meditazione sull'"ora" di Gesù, quella del suo "innalzamento" (Giovanni, 12, 32): cioè la meditazione sul momento salvifico - inscindibile - della morte-risurrezione.
Ingresso in Gerusalemme e purificazione del tempio. Il primo capitolo, scandito precisamente nelle due parti enunciate, rappresenta una potente ouverture rispetto al racconto successivo. Entrando in Gerusalemme, Gesù si annuncia come il nuovo tempio, che egli stesso è venuto a costruire. È questo il significato della parola riportata da Giovanni: "In tre giorni farò risorgere questo tempio!". Egli, spiega infatti l'evangelista, "parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (Giovanni, 2, 18-22). Il discorso di Gesù sulle ultime realtà "non descrive la fine del mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti nell'Antico Testamento. Il parlare dell'avvenire con parole del passato sottrae questo discorso ad ogni connessione cronologica" (p. 63).
Di fatto, lo scopo del discorso non è quello di svelare il futuro, ma di suggerire ai discepoli un certo tipo di comportamento di fronte all'imperativo dell'"ora" di Gesù, che ormai si va compiendo. Si tratta di un'esortazione alla comunità, perché essa vigili con impegno sul tempo presente, evitando di fantasticare vanamente sul futuro. "Le parole apocalittiche di Gesù vogliono condurci all'essenziale: alla vita sul fondamento della parola di Dio, che Gesù ci dona; all'incontro con lui, la Parola vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei vivi e dei morti" (p. 64).
"Dopo i discorsi d'insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto" (p. 65). Ed ecco l'episodio misterioso e sconcertante della lavanda dei piedi, nel contesto dell'ultima cena. "Possiamo dire che in questo gesto di umiltà", scrive il Papa sintetizzando il capitolo, "il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio - come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio". Proprio per questo motivo l'"ora" della croce, misticamente anticipata nella lavanda dei piedi, "è l'ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù" (pp. 88-89).
"Alla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di Giovanni, i discorsi di addio di Gesù, che alla fine (...) sfociano in una grande preghiera sacerdotale" (p. 91). Ebbene, scrive il Papa al termine di questo capitolo, "la Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Questa preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto in cui egli "consacra" se stesso, cioè "si sacrifica" per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rovesciando l'affermazione: nella preghiera l'evento crudele della croce diventa 'parola', diventa festa dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo scaturisce la Chiesa, cioè la comunità di coloro che, mediante la parola degli apostoli, credono in Cristo" (p. 118).
"L'ultima cena"; "Il Getsemani"; "Il processo a Gesù": questi tre capitoli (pp. 119-226) rappresentano la parte centrale del volume, quella più analitica, scritta con maggiore acribia storica, esegetica, teologica. La "chiave di lettura" di questo frammento decisivo, nel quale si compie l'"ora" di Gesù (così, infatti, l'apostolo Giovanni introduce il racconto della cena: "Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine": 13, 1), può essere condensata in alcune brevi parole del Papa, veramente ispirate: "Fa parte delle vie della storia di Dio con gli uomini (...) la "flessibilità" di Dio, che attende la libera decisione dell'uomo, e che da ogni "no" fa scaturire una nuova via dell'amore. Al "no" di Adamo egli risponde con una nuova premura per l'uomo. Al "no" di Babele egli risponde inaugurando con l'elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia (...) Nonostante ogni negazione da parte degli uomini, egli dona se stesso, prende su di sé il "no" degli uomini, attirandolo così dentro il suo "sì"" (pp. 138-141).
"La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro"; "La risurrezione di Gesù dalla morte": finalmente si compie, in maniera definitiva, l'"ora" di Gesù. Come già abbiamo anticipato - e così concludiamo l'"invito alla lettura" del nostro libro -, il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI è soprattutto un'organica meditazione sul mistero dell'"ora" di Gesù. Capitolo dopo capitolo, il Papa ci ha presi per mano, invitandoci a entrare in quest'"ora", a fare esperienza viva della passione, della morte e della risurrezione del Signore, per condurci così all'ultimo traguardo.
L'ultimo traguardo è la definitiva confessione della nostra fede in Gesù di Nazaret: "Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A lui ci affidiamo, e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù, e professiamo: "Mio Signore e mio Dio!"" (p. 307).
Benché il Papa, con molta umiltà, definisca il suo un semplice "tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale" (p. 18), d'altra parte egli appare ben consapevole della svolta decisiva che la sua opera rappresenta nella storia della cristologia. Confessa di esservi giunto "dopo un lungo cammino interiore", e richiama addirittura i tempi della sua giovinezza, anche se la stesura materiale dei due volumi dev'essere stata abbastanza rapida, visto che è iniziata solo nell'estate del 2003.
In ogni caso, si coglie dalla lettura di molte sue pagine qualche cosa di simile al quarto Vangelo: il libro è l'opera di una vita intera, dove il metodo impiegato - lungi dal diventare una mera "tecnica" - come pure i contenuti esposti, vivono di un radicato e maturo innamoramento per Cristo.
In definitiva, "l'intima amicizia con Gesù" va considerata come il vero tema conduttore dell'opera, un tema che il Papa illustra da testimone, non meno che da teologo: di fatto la vera "conoscenza" di Gesù - per Papa Benedetto, come per il discepolo amato - proviene dal "riposare" sopra il suo cuore (p. 262).
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
Illuminante sproporzione
Il "Gesù di Nazaret" presentato all'università di Messina
Dopo quello tenutosi all'università di Urbino, proseguono gli incontri organizzati dalla Libreria Editrice Vaticana per presentare il libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione nelle università italiane. Lunedì 28 novembre l'opera è stata al centro di un incontro all'università di Messina. Pubblichiamo stralci dell'intervento del vescovo rettore della Pontificia Università Lateranense.
di ENRICO DAL COVOLO
Bisogna riconoscere subito che il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI forma un tutt'uno con il primo, cioè con il volume dedicato alla prima parte della vita pubblica di Gesù, dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione.
Nel secondo volume, invece, si parla degli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, dall'ingresso in Gerusalemme alla risurrezione.
Ma come, si obietterà: c'è una chiara sproporzione! L'ultima settimana di Gesù, da sola, è trattata con la medesima estensione di tutta la vita pubblica che la precede! Tale "sproporzione", tuttavia, si spiega facilmente, ed è già presente nei Vangeli. Anzitutto il racconto della passione e della risurrezione, anche se viene per ultimo, è il più antico e il più elaborato dalle tradizioni orali e scritte, a cui i Vangeli attingono. Fin dall'inizio, infatti, l'uso liturgico (come è noto, il memoriale della Pasqua è il cuore della celebrazione eucaristica) "fissa" un nucleo piuttosto ampio del racconto.
Inoltre l'apparente "sproporzione" fa capire a un primo sguardo che la passione, la morte e la risurrezione non sono semplicemente l'epilogo della vita di Gesù. Piuttosto, esse danno senso a tutto il resto: dal Cristo crocifisso e risorto prende luce tutto il racconto della sua vita.
Dunque, due volumi, due parti di un'unica opera: è adottato lo stesso metodo per narrare Gesù di Nazaret, mentre i contenuti della sua storia continuano.
Quanto ai contenuti del secondo volume, c'è anzitutto una Premessa (pp. 5-10), nella quale è ripreso e puntualizzato il discorso sul metodo.
Ne sottolineo solo un passaggio, che a me pare risolutivo: "Se l'esegesi biblica scientifica - l'Autore allude di fatto all'esegesi storico-critica - non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi, diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo, e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l'ermeneutica positivistica - positivistico-razionalista, dicevamo noi: da essa dipende, di fatto, l'esegesi storico-critica - "deve imparare che l'ermeneutica positivistica (...) non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni, e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo, e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un'interezza metodologica" (pp. 6-7).
Alla Premessa fanno seguito nove capitoli, più uno di Prospettive (pp. 309-324: così il racconto della passione, morte e risurrezione è esteso all'ascensione e all'attesa escatologica del ritorno del Signore), e una bibliografia ragionata, relativa anzitutto al primo volume nel suo complesso, e poi al secondo volume e ai suoi singoli capitoli (pp. 327-342).
Diamo uno sguardo - di necessità molto sintetico, nello stile di un "invito alla lettura" - ai capitoli del volume. La via maestra, lungo la quale il Papa ci conduce, è la meditazione sull'"ora" di Gesù, quella del suo "innalzamento" (Giovanni, 12, 32): cioè la meditazione sul momento salvifico - inscindibile - della morte-risurrezione.
Ingresso in Gerusalemme e purificazione del tempio. Il primo capitolo, scandito precisamente nelle due parti enunciate, rappresenta una potente ouverture rispetto al racconto successivo. Entrando in Gerusalemme, Gesù si annuncia come il nuovo tempio, che egli stesso è venuto a costruire. È questo il significato della parola riportata da Giovanni: "In tre giorni farò risorgere questo tempio!". Egli, spiega infatti l'evangelista, "parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (Giovanni, 2, 18-22). Il discorso di Gesù sulle ultime realtà "non descrive la fine del mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti nell'Antico Testamento. Il parlare dell'avvenire con parole del passato sottrae questo discorso ad ogni connessione cronologica" (p. 63).
Di fatto, lo scopo del discorso non è quello di svelare il futuro, ma di suggerire ai discepoli un certo tipo di comportamento di fronte all'imperativo dell'"ora" di Gesù, che ormai si va compiendo. Si tratta di un'esortazione alla comunità, perché essa vigili con impegno sul tempo presente, evitando di fantasticare vanamente sul futuro. "Le parole apocalittiche di Gesù vogliono condurci all'essenziale: alla vita sul fondamento della parola di Dio, che Gesù ci dona; all'incontro con lui, la Parola vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei vivi e dei morti" (p. 64).
"Dopo i discorsi d'insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto" (p. 65). Ed ecco l'episodio misterioso e sconcertante della lavanda dei piedi, nel contesto dell'ultima cena. "Possiamo dire che in questo gesto di umiltà", scrive il Papa sintetizzando il capitolo, "il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio - come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio". Proprio per questo motivo l'"ora" della croce, misticamente anticipata nella lavanda dei piedi, "è l'ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù" (pp. 88-89).
"Alla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di Giovanni, i discorsi di addio di Gesù, che alla fine (...) sfociano in una grande preghiera sacerdotale" (p. 91). Ebbene, scrive il Papa al termine di questo capitolo, "la Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Questa preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto in cui egli "consacra" se stesso, cioè "si sacrifica" per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rovesciando l'affermazione: nella preghiera l'evento crudele della croce diventa 'parola', diventa festa dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo scaturisce la Chiesa, cioè la comunità di coloro che, mediante la parola degli apostoli, credono in Cristo" (p. 118).
"L'ultima cena"; "Il Getsemani"; "Il processo a Gesù": questi tre capitoli (pp. 119-226) rappresentano la parte centrale del volume, quella più analitica, scritta con maggiore acribia storica, esegetica, teologica. La "chiave di lettura" di questo frammento decisivo, nel quale si compie l'"ora" di Gesù (così, infatti, l'apostolo Giovanni introduce il racconto della cena: "Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine": 13, 1), può essere condensata in alcune brevi parole del Papa, veramente ispirate: "Fa parte delle vie della storia di Dio con gli uomini (...) la "flessibilità" di Dio, che attende la libera decisione dell'uomo, e che da ogni "no" fa scaturire una nuova via dell'amore. Al "no" di Adamo egli risponde con una nuova premura per l'uomo. Al "no" di Babele egli risponde inaugurando con l'elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia (...) Nonostante ogni negazione da parte degli uomini, egli dona se stesso, prende su di sé il "no" degli uomini, attirandolo così dentro il suo "sì"" (pp. 138-141).
"La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro"; "La risurrezione di Gesù dalla morte": finalmente si compie, in maniera definitiva, l'"ora" di Gesù. Come già abbiamo anticipato - e così concludiamo l'"invito alla lettura" del nostro libro -, il secondo volume del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI è soprattutto un'organica meditazione sul mistero dell'"ora" di Gesù. Capitolo dopo capitolo, il Papa ci ha presi per mano, invitandoci a entrare in quest'"ora", a fare esperienza viva della passione, della morte e della risurrezione del Signore, per condurci così all'ultimo traguardo.
L'ultimo traguardo è la definitiva confessione della nostra fede in Gesù di Nazaret: "Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A lui ci affidiamo, e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù, e professiamo: "Mio Signore e mio Dio!"" (p. 307).
Benché il Papa, con molta umiltà, definisca il suo un semplice "tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale" (p. 18), d'altra parte egli appare ben consapevole della svolta decisiva che la sua opera rappresenta nella storia della cristologia. Confessa di esservi giunto "dopo un lungo cammino interiore", e richiama addirittura i tempi della sua giovinezza, anche se la stesura materiale dei due volumi dev'essere stata abbastanza rapida, visto che è iniziata solo nell'estate del 2003.
In ogni caso, si coglie dalla lettura di molte sue pagine qualche cosa di simile al quarto Vangelo: il libro è l'opera di una vita intera, dove il metodo impiegato - lungi dal diventare una mera "tecnica" - come pure i contenuti esposti, vivono di un radicato e maturo innamoramento per Cristo.
In definitiva, "l'intima amicizia con Gesù" va considerata come il vero tema conduttore dell'opera, un tema che il Papa illustra da testimone, non meno che da teologo: di fatto la vera "conoscenza" di Gesù - per Papa Benedetto, come per il discepolo amato - proviene dal "riposare" sopra il suo cuore (p. 262).
(©L'Osservatore Romano 28-29 novembre 2011)
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