lunedì 25 luglio 2011

Verso il congresso eucaristico italiano. Il Corpo donato (Inos Biffi)

Verso il congresso eucaristico italiano

Il Corpo donato

di Inos Biffi

Il «Corpo dato» e il «Sangue sparso» non si ritrovano per caso nella storia della salvezza, come fossero una disavventura inaspettata e un accidente impreveduto, ma rappresentano la sostanza e il fine di questa storia. La passione e la morte del Signore sono intimamente iscritte nella Parola di Dio, a significare il senso dell'esistenza stessa di Gesù, il quale reagisce con estrema fermezza a ogni tentativo di chi voglia inframmettersi e intralciare questo suo esito (cfr. Marco, 8, 31-33).
«Non bisognava -- dice Gesù ai due discepoli di Emmaus -- che il Cristo subisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». La sua passione faceva parte del progetto divino; e, infatti, il Risorto stesso, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca, 24, 26-27). Di là da qualsiasi causa esteriore -- il tradimento di Giuda, la condanna del sinedrio e di Pilato, la violenza dei carnefici -- il «Corpo dato» e il «Sangue sparso» risalgono totalmente al consenso di Cristo.
Fu lui «a sottoporsi alla croce in cambio della gioia che gli era posta innanzi, disprezzando l'ignominia» (Ebrei, 12, 2); d'altronde, in coerenza con quanto aveva dichiarato: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine» (Matteo, 20, 28).
Vi è poi la lavanda dei piedi che precede l'istituzione della Cena in Giovanni (13, 3-17) a fare da esegesi simbolica dell'oblazione eucaristica come vita di Cristo che serve, e che riesce per la sua «offerta». Agli occhi di Gesù, Pietro -- insofferente e scandalizzato per la sorte ingloriosa preannunziata per sé dal Signore -- appare nelle vesti e nel ruolo di Satana, che il Signore rigetta perché il suo pensiero, puramente umano, è difforme dal pensiero di Dio (cfr. Marco, 8, 33): «il Corpo dato» e il «Sangue sparso» appartengono a questo pensiero, dove la vita di Cristo è concepita per essere data.
Né sorprende che Gesù abbia chiamato Pietro col nome di Satana. Nel deserto l'intento del diavolo -- ugualmente allontanato: «Vattene, Satana!» (Matteo, 4, 10) -- era stato quello di introdurre Cristo nell'autosufficienza e nell'indipendenza dalla Parola di Dio, e quindi in un messianismo glorioso e autonomo, conforme al modo di pensare degli uomini, e così di sottrarlo al disegno di Dio, distornandolo dal suo destino di passione e di morte (cfr. Matteo, 4, 1-11). Del resto, l'insofferenza di Satana per Gesù Cristo -- il Figlio obbediente -- risale al principio, con l'avversione alla Verità e alla Vita (cfr. Giovanni, 8, 44). Il Corpo «dato» e il Sangue «sparso», mentre portano a compimento la vita di Cristo, attuano la predestinazione di Dio: «Gesù Cristo crocifisso» è la «Sapienza divina misteriosa preordinata prima dei secoli» (1 Corinzi, 2, 2. 7).
Il suo è il «sangue prezioso» dell'«agnello senza difetti e senza macchia», «predestinato già prima della fondazione del mondo» (1 Pietro, 1, 19-20) e Adamo è interessante solo perché «figura di Colui che doveva venire» (Romani, 5, 14) il Crocifisso risorto. Tutto questo non ha certamente una ragione logica: si tratta assolutamente di una scelta divina, la cui motivazione è conosciuta soltanto dalla Trinità. Ci è tuttavia possibile, ed è il compito della teologia o della riflessione sulla fede, illustrare i multiformi contenuti della Croce. Nel Corpo e nel Sangue di Gesù offerti sulla croce noi troviamo: l'immensa compiacenza del Padre per il Figlio, esaltato dalla sua umiliazione e dalla sua obbedienza; l'inenarrabile amore del Padre, che ha voluto il Figlio come «Primogenito tra molti fratelli» (Romani, 8, 29) e ha concepito e predestinato gli uomini «a essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Ibidem).
Ancora, nel Corpo e nel Sangue di Gesù crocifisso appare la sua piena confidenza nel Padre, che è il termine primo dell'offerta della croce. Il sacrificio del Calvario rappresenta il «sì» assoluto di Gesù alla volontà del Padre (Matteo, 26, 39), che è stata il nutrimento di tutta la sua vita: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Giovanni, 4, 34); «Io faccio sempre le opere che sono gradite al Padre» (Giovanni, 8, 29). Il sacrificio di Gesù è l'epifania e lo stato dell'assoluta adorazione di Gesù e del suo perfetto amore filiale. Gesù si avvia alla croce perché -- dice -- «bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Giovanni, 14, 31). Il Crocifisso, infine, è il segno della fraternità incondizionata, dell'amore che non trattiene la vita per sé, ma la elargisce per gli altri (cfr. Matteo, 20, 28; Galati, 2, 20). In conclusione: Gesù è sulla croce come un paziente, che si è disposto alla morte per amore; il Corpo dato e il Sangue sparso sono simboli della carità di Gesù, la quale, unicamente, redime.
Redentiva, infatti, non è la sofferenza, che per sua natura dispera e che il discepolo sarà inviato a lenire. Redentivo è invece l'amore. Ed è, precisamente, questo amore che disfa il peccato di Adamo e il peccato di ogni uomo, che assume, prosegue e imita questo amore.
Sul Calvario, infatti, Gesù si rivela come l'Anti-Adamo. Nel dono del suo Corpo e del suo Sangue Gesù si configura come l'Anti-Adamo, l'«uomo futuro», o che «doveva venire» (Romani, 5, 14). A lui Dio, scrive Tertulliano, «pensava in tutto quello che veniva plasmato come fango: quel fango, che già allora rivestiva l'immagine del Cristo futuro, non era solo un'opera di Dio, ma anche un suo pegno» (De resurrectionem mortuorum, vi, 3, 5). E infatti, Gesù è «il Principio», «il Primogenito», «il Primeggiante», e «in lui», «per mezzo di lui» e «verso di lui» tutto è stato creato (Colossesi, 1, 16-17); «in virtù del quale esistono tutte le cose, e noi esistiamo per mezzo di lui» (1 Corinzi, 8, 6).
Ora, Gesù «ripara» ossia dissolve la diffidenza e il risentimento dell'inizio, concepiti da Adamo, sotto la suggestione del serpente (cfr. Genesi, 3, 1-6). Il peccato di Adamo fu la ribellione al Padre; il fastidio di essere stato creato e di essere «figlio», e quindi la pretesa dell'autonomia assoluta. Si potrebbe, di conseguenza, anche dire: fu il rifiuto del rendimento di grazie, dell'adorazione, della preghiera. E questo totalmente in antitesi rispetto all'atteggiamento e al sentimento di Gesù, il quale, confidando nel Padre, si abbandonò a lui senza alcuna riserva; godette di essere Figlio, e concepì la propria vita come un rendimento di grazie e un'adorazione del Padre, fino a consumarsi in lui, divenendo filialmente obbediente fino alla morte in croce, dove non trattenne per sé, ma offrì «per la moltitudine», in totale fraternità, il proprio Corpo e il proprio Sangue.
La multiforme carità in atto sulla croce rovescia e ribalta il peccato di Adamo e avvia un inizio nuovo, una nuova e definitiva creazione. Il sacrificio glorioso di Gesù rivela e porta a compimento il disegno di Dio, mirante dall'eternità al Risorto da morte, all'uomo vero, unicamente autentico ed esemplare.
Proprio per questo l'evento della croce appare l'evento definitivo. La morte gloriosa di Gesù Cristo appare l'opera di Dio «sufficiente» e definitiva, o come l'opera «ultima», in se stessa «in-oltrabile» -- o senza un «oltre» -- e dotata, conseguentemente, del carattere di irrepetibilità a motivo della sua pienezza. Il sacrificio di Cristo non aspetta una perfezione ulteriore, a riparazione di una sua consumabilità. È l'affermazione ribadita dalla Lettera agli Ebrei: Gesù «possiede un sacerdozio che non tramonta»; egli «non ha bisogno di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso (7, 24-27). «Egli entrò una volta per tutte nel santuario, non mediante il sacrificio di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna»; «Una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (9, 12-26).
Realizzatosi nel tempo, il sacrificio della croce, da un lato, rimane «inattaccabile» e incondizionabile dal logorio del tempo, di cui in certo modo stabilisce la fine; dall'altro lato, emerge su tutta la storia come gesto di salvezza illimitato e «attraente» a cui tutto dice relazione: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Giovanni, 12, 32). L'immolazione del Calvario è «imminente» e operante sopra ogni tempo e spazio. Non c'è un angolo o un momento da cui il sacrificio di Gesù sia assente o sia lontano, con la precisazione che non siamo noi a ridurlo dentro i nostri confini; al contrario, è il sacrificio di Cristo a prevalere sui nostri confini, e a ridurli a sé. Nel Corpo dato di Cristo e nel suo Sangue sparso -- dove si avvera il disegno trinitario -- è, quindi, dato divinamente tutto e una volta per sempre. Sul Calvario la «grazia» è portata a termine, ultimata, e destinata ormai, nella sua disponibilità escatologica, a essere assunta e partecipata. L'aspettativa non è più di qualche «altra» e più estesa grazia. Quello che manca e che ci si deve aspettare è adesso l'accoglienza dell'unica «grazia» escatologicamente fruibile.
Detto in altre parole: l'attesa non è che il Corpo di Cristo venga nuovamente offerto e il suo Sangue nuovamente sparso, ma che l'identico Corpo sia «mangiato» e l'identico Sangue sia «bevuto». È, quindi, solo attendibile il «sacramento» del Corpo e del Sangue di Cristo, per la «comunione». Dal carattere definitivo del sacrificio della croce, a motivo della sua perfezione, deriva che di esso non si può concepire una sua ripetizione, ma solo un suo «memoriale»: un memoriale, d'altra parte, che sia un semplice ricordo o un'immagine variamente e superficialmente evocativa, risulterebbe insignificante di fronte alla «realtà» salvifica del sacrificio della croce, in cui solo c'è la grazia. È come dire che ci si può solo aspettare una modalità di presenza che si collochi tra un'impossibile e inutile ripetizione e un ricordo inefficace, e quindi un «sacramento»; diciamo: una memoria, dove sporga una presenza.
Di fatto, Gesù Cristo nell'Ultima cena non ha lasciato agli apostoli un fragile richiamo di sé, ma ha consegnato il suo Corpo dato e il suo Sangue sparso, o il suo sacrificio pasquale, come cibo e bevanda da assumere in ricordo di lui. Secondo l'istituzione di Gesù e l'ininterrotta coscienza della Chiesa, l'Eucaristia è -- come scrive Tommaso d'Aquino -- «il sacramento della passione del Signore»; «il «memoriale della passione del Signore» (Summa Theologiae, III, 73, 5, 2m. 3m). Ossia: l'identica immolazione della croce nella forma del segno o del mistero. Nella celebrazione eucaristica non avviene nessuna ripetizione del sacrificio di Cristo: il rito conviviale, ripetuto in obbedienza al mandato di Cristo si trova come aperto e attratto allo stesso avvenimento del Calvario, che vi emerge realmente nella sua presenza. Per questo la messa non è un altro sacrificio, ma lo stesso e medesimo atto sacrificale del Calvario, che la Chiesa commemora e accoglie, per offrirlo al Padre in comunione con Cristo, a sua volta rendendosi sacrificio con lui. Ridurre il carattere sacrificale della messa al rendimento di grazie -- come si fa da qualche parte, con incompiuta conoscenza storica e scarso senso teologico -- significherebbe misconoscere il contenuto proprio dell'Eucaristia, contro la chiara persuasione della fede della Chiesa, fin dal principio.
L'Eucaristia è, inoltre, il sacramento «principale» dei sacramenti (Ibidem, III, 65, 3, c), il «compimento della vita spirituale» e il «fine di tutti i sacramenti» (Ibidem, III, 73, 3, c) del quale gli altri sacramenti sono come la derivazione e l'«imitazione». Dice san Tommaso: «La fonte della vita cristiana è Cristo: l'Eucaristia è il sacramento della perfezione in quanto congiunge con Cristo; e così questo sacramento è la perfezione di tutti i sacramenti, per cui anche coloro che ricevono gli altri sacramenti vengono alla fine confermati con questo » (In quartum Sententiarum, 8, 1, 1 sol. 1).

(©L'Osservatore Romano 22 luglio 2011)

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