Trentatré anni fa l’elezione di Giovanni Paolo I
Non solo Papa del sorriso
Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace
Rivolgendosi al collegio cardinalizio, Paolo VI ebbe a dire che «la Chiesa, nel duplice simbolo della pietra e della nave, esprime splendidamente la dialettica dei suoi doveri e dei suoi destini». Il suo successore Albino Luciani era nel collegio cardinalizio, ascoltò le parole del Papa e ne fece motivo di attenta riflessione. È vero, pensò: gli estranei vedono la pietra e non vedono la nave, scorgono l’immobilità e non l’avventura della fede. Ma il segno dei tempi spostava sempre più la prospettiva verso il viaggio, grazie anche a Giovanni XXIII e allo stesso Paolo VI.
Ne era consapevole, papa Giovanni Paolo I, anche quel 26 agosto del 1978. Da allora molti anni sono passati: 33, lo stesso numero dei giorni del suo breve pontificato, vissuto nel segno dell’amore. «È legge di Dio che non si possa fare del bene a qualcuno se prima non gli si vuole bene», affermava già nel 1969, nell’eco di un altro patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, il futuro Pio X. Questi, infatti, nel 1893 aveva detto al suo nuovo popolo: «Cosa sarebbe di me, veneziani, se non vi amassi?». Proseguendo in questo dialogo a distanza tra due patriarchi della cattedra di Marco, prendendo possesso di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma, papa Luciani confidò ai «suoi romani»: «Posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, quel poco che ho e che sono».
Poche parole per un concetto talmente profondo, bello nella sua semplicità e ricco nella sua umiltà, che ben descrive la figura del Papa del sorriso, appellativo conquistato per il suo atteggiare il volto nello scambio comunicativo a un’espressione di gioia mite e serena che conferiva alla sua persona un aspetto lieto e piacevole. Motivazioni influenti, ma affatto sufficienti a dar conto delle origini e della forza del sorriso di papa Luciani, del quale Aldo Palazzeschi avrebbe detto che mostrava «la faccia sorridente di amor fraterno», che fa anche pensare al «sorriso della primavera».
Nel suo dialogare, in effetti, spesso anche le parole erano sorridenti, così come intende Dante quando parla di «sorrise parolette brevi», capaci di spiegare un concetto o di chiarire un dubbio in modo piano e veloce. In Albino Luciani sorridere era parte e strumento della comunicazione e quindi della catechesi, nella quale era maestro. Psicologia e sociologia dimostrano che molte sono le cose che possono parlare: le pietre, ad esempio («grideranno le pietre», Luca 19, 40); una statua («Perché non parli?», chiede Michelangelo al suo Mosè); le stesse parole («Le parole sono pietre», scrive Primo Levi in Se questo è un uomo). E, naturalmente, a parlare bastano il sorriso (come nel nostro caso), oppure l’ira, o lo sdegno, o la gioia, il dolore e ogni altro sentimento che alberga nel cuore dell’uomo.
Ma in Luciani oltre a ciò il sorriso era anche qualcosa d’altro. Lui, che aveva dimestichezza con i letterati, non ignorava François Rabelais — il cinquecentesco romanziere francese autore di Gargantua e Pantagruel —, anche se mai gli indirizzò una delle sue lettere. Ebbene, Rabelais detestava coloro che non sorridono, anzi neppure ridono. Gli facevano paura, perché non dotati da madre natura di spirito e di umorismo.
È questo il concetto che egli stesso esprime nella lettera a santa Teresa d’Avila: «La Teresa mistica dei rapimenti in Dio è pure una vera Teresa». Albino Luciani parlava del famoso gruppo marmoreo che si trova in Roma nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, nella quale il grande Bernini la riproduce nell’atto di essere raggiunta dalla freccia del serafino. E aggiunge: «Ma è vera anche l’altra Teresa, che mi piace di più […]: è la Teresa della vita pratica, che prova le stesse nostre difficoltà e le sa superare con destrezza, che sa sorridere, ridere e far ridere, che si muove con spigliatezza, in mezzo al mondo ed alle vicende più diverse e tutto ciò in grazia delle abbondanti doti naturali, ma più ancora della sua costante unione con Dio».
Umorismo e sorriso, dunque, come sapienza di vita; ottimismo come carità. Perfino la visibile amabilità di Albino Luciani era governata dal desiderio di sorreggere, incoraggiare, valorizzare i suoi interlocutori. Non è da dimenticare che egli sia stato e sia ricordato come un grande catecheta. Certo, si ispirava a grandi esempi, ma di suo ci metteva l’amore per la semplicità, per l’essenzialità: l’una come l’altra ancelle della verità.
Tutti abbiamo nella mente e nel cuore quel suo andare al segno usando espressioni efficaci, anche se, o forse proprio per questo, mai artificiosamente lunghe e retoriche. Tutti ricordiamo come riuscisse a coinvolgere gli auditori più eterogenei, dai fanciulli agli accademici, dai lavoratori agli intellettuali, dalle gerarchie alle persone del popolo. Aveva identificato la conversazione, ovvero l’espressione più diretta di comunicazione interpersonale, con la catechesi. «La conversazione — affermava — ci mette vicino agli altri e ci dà un profondo senso di noi stessi [...]. Sono triste? La simpatia di chi conversa con me mi conforta. Mi sento solo? La conversazione fa cessare la solitudine». E qui citava il più grande dei comunicatori: «Nella conversazione ha trovato sollievo anche Gesù; per toccarlo con mano, basta leggere in san Giovanni le confidenze fatte ai suoi apostoli durante l’ultima Cena. Della conversazione Gesù ha fatto spessissimo il veicolo del suo apostolato: parlava camminando lungo le strade, passeggiando sotto i portici di Salomone; parlava nelle case, con le persone attorno, con Maria seduta ai Suoi piedi, e con Giovanni che reclinava la testa sul suo petto».
I concetti anche più alati restano tuttavia ben poca cosa se chi li comunica non li fa arrivare alla testa e al cuore di chi li riceve. Come Albino Luciani, appunto.
(©L'Osservatore Romano 26 agosto 2011)
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1 commento:
Davvero bello questo articolo che rende gloria ad un grande papa a Roma e ad un grande pastore prima. Il profondo auspicio è che possa essere proclamato beato.
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