VIA CRUCIS AL COLOSSEO
Il giardino e la madre
Un luogo e una persona nel racconto della passione
Marco Testi
Due sono gli elementi che colpiscono di più nel testo della Via Crucis del Venerdì Santo presieduta dal Pontefice, scritto da suor Maria Rita Piccione, agostiniana: uno è un luogo, il giardino, l’altro è una persona, la Madre.
Nella disposizione dei medioevali “loci deputati” e nelle sacre rappresentazioni, lo spazio era di una importanza fondamentale, perché favoriva la capacità di visualizzare l’evento drammatico e di renderlo fruibile a persone che non avevano forti capacità astrattive. Non è un caso che nella presentazione della Via Crucis venga citato sant’Agostino che, nel “Commento al Vangelo di Giovanni”, parla di “patria”.
La patria è un luogo fisico, ma è anche impressa nell’anima: il vescovo di Ippona la descrive come vista “da lontano” perché c’è “di mezzo il mare”. La patria è dunque il “verde paradiso” perduto, di cui parla anche un poeta “maledetto” come Baudelaire (a dimostrazione della forte componente religiosa presente anche laddove non sembrerebbe, nel rifiuto e nella trasgressione), è il sacro recinto dell’infanzia cui si aspira ma da cui ci separa uno spazio fisico e insieme metaforico, quello della lontananza – e si pensi oggi a quanti abbandonano la patria per persecuzioni o per fame – e quello dell’“esilio” dopo la caduta.
Agostino accentua il senso dell’esistenza come esilio, ma esilio vuol dire provenire da un luogo e vuol dire anche movimento interiore verso la patria perduta: quel tendere senza nome che i romantici tedeschi chiamavano “tensione spasmodica verso la morte”. Ma in realtà non era la morte che attirava il viandante alla ricerca del vero sé, non era la morte cui anelava l’ormai folle (reso folle dall’attesa?) Hölderlin, ma la percezione di un luogo primigenio abbandonato. Ecco il senso etimologico di nostalgia, in greco dolore-del-ritorno, volontà radicale del ritorno nell’antico luogo della comunione con il Tutto.
Eden perduto, quindi, poi luogo del riconoscimento del proprio abbandono e della propria (non solo del Cristo, ma di ognuno di noi) solitudine, il Getsemani, poi spazio del cammino e della caduta, la via verso il Golgota, e poi di nuovo giardino, luogo deputato alla pace dopo la violenza e la disperazione, fine di ogni dolore, rinascita, ritorno a quello che era in iranico la radice del termine paradiso, “pairi-daeza”, luogo recintato, protetto, pacificato. Ecco la quiete dopo la tempesta, dopo che tutto si è compiuto, e il capro espiatorio è stato sacrificato: il mare si è calmato, si intravede di nuovo la patria di Agostino e di Dante, il giardino perduto.
La Madre rappresenta la figura più umana, perché il suo silenzio è in realtà un urlo: riassume in sé tutto il dolore indicibile, impossibile da dire a parole. Quando si sente sulla propria pelle il dolore di essere stato tradito, quando si è colpiti negli affetti familiari, il senso sparisce, entra il buio, si spalancano gli abissi. Ma rimane la presenza, “quella” presenza.
Questo è l’elemento che colpisce noi e che colpiva settecento anni fa Iacopone, ad esempio: questo “esserci” nonostante tutto in silenzio, questa cessazione di ogni voce che di per sé esprime il dolore di chi è troppo ferito per comunicare.
Mai un personaggio sacro ha parlato tanto quanto la Madre nella Passione, proprio perché quel silenzio solo può far gridare gli innocenti sterminati, i perseguitati, gli offesi, i nudi, coloro cioè che hanno sentito “in corpore vili” l’oltraggio di essere spogliati in pubblico di fronte allo sguardo delle madri. La Madre come qualsiasi donna che vede oltraggiato e torturato il figlio, come ogni donna che oggi ha paura per i suoi figli.
Mai un silenzio ha urlato e lacerato così le orecchie di quanti come noi, durante il ricordo della Passione sentono che si sta parlando di noi, di quando il dolore si fa indicibile, e ci sembra che nessuno possa avere sofferto come noi.
Ci capita di notarlo, purtroppo, solo quando rivediamo la Passione, anche se le scene della patria perduta e della Madre dolente si ripetono ogni giorno a pochi passi da noi: non eravamo soli, nel momento delle tenebre, “non è vero che non fummo spezzati mai: siamo stati dilaniati dalla ruota”, come affermava un personaggio di Chesterton, per esprimere la propria sofferenza di creatura.
Solo il silenzio della Madre può esprimere l’indicibile, non in una astratta idea di passione, ma della passione di tutti i giorni, durante il difficile pellegrinaggio verso il giardino perduto.
Dal 1750 al 2011
Da Benedetto XIV a Benedetto XVI
Fu papa Benedetto XIV a chiamare a Roma Leonardo da Porto Maurizio, dei Frati minori, la cui fama di predicatore e di appassionato propagatore dell’esercizio della Via Crucis (diffuso in Occidente dai Francescani) aveva ormai raggiunto l’apice, soprattutto a livello popolare. Era il 1750 e a Roma si celebrava l’Anno Santo. Padre Leonardo fece della Via Crucis il punto centrale delle manifestazioni giubilari e della sua predicazione. Avviò contemporaneamente una missione penitenziale che coinvolse la maggior parte del popolo romano. Momento culminante di quell’Anno Santo fu appunto la Via Crucis al Colosseo, celebrata il 27 dicembre 1750, sotto la regia e la supervisione, si direbbe oggi, di padre Leonardo, il quale eresse una grande croce al centro dell’arena e segnò le 14 stazioni con altrettante croci infisse nelle mura di travertino. Morì l’anno dopo, nel 1751, e nel 1867 fu dichiarato santo da Pio IX.
Nel 1964 Paolo VI riprese la tradizione del rito della Via Crucis al Colosseo. Da allora le celebrazioni della pia pratica si sono susseguite regolarmente, la sera del Venerdì Santo, fino ai giorni nostri. Dai testi dei discorsi di Paolo VI furono riprese le meditazioni che accompagnarono la prima Via Crucis presieduta da Giovanni Paolo II nel 1979. In precedenza le meditazioni erano state tratte da testi di santi e padri della Chiesa. Consuetudine che durò fino al 1984, quando a chiusura dell’Anno Santo straordinario della Redenzione, fu il Papa stesso, Giovanni Paolo II, a scrivere i commenti delle 14 stazioni. Dal 1985, per volere del Papa, i testi delle meditazioni sono stati affidati a scrittori o personalità del mondo ecclesiastico e religioso. Apre la serie, nel 1985, lo scrittore Italo Alighiero Chiusano, e poi a seguire, per citarne alcuni, André Frossard nel 1986, Hans Urs von Balthasar nel 1988, Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, nel 1990, Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga, nel 1992. Nel 1993 è madre Anna Maria Canopi, badessa benedettina, a redigere i testi delle meditazioni e delle preghiere. Altre due donne seguiranno nel 1995 (la monaca protestante Minke de Vries) e quest’anno 2011, con i testi preparati da suor Maria Rita Piccione, dell’ordine di Sant’Agostino, del monastero dei Santi Quattro Coronati in Roma. Ricordiamo che non sono le prime. Sono state precedute da tre donne elevate agli onori degli altari. Nella cronologia delle Viae Crucis al Colosseo sono iscritte le meditazioni su testi di santa Teresa di Gesù (1977), santa Caterina da Siena (1981), beata Angela da Foligno (1983). Altri nomi illustri, di personaggi e in anni più recenti: il patriarca ecumenico Bartolomeo I nel 1994, il card. Vinko Puljic nel 1996, Olivier Clement, teologo ortodosso, nel 1998, Mario Luzi nel 1999, lo stesso Giovanni Paolo II nell’Anno Santo 2000 e ancora nel 2003, il card. Joseph Ratzinger nel 2005, mons. Angelo Comastri nel 2006, mons. Gianfranco Ravasi nel 2007, il card. Camillo Ruini nel 2010. Nomi forse meno illustri, ma altrettanto accreditati, per la Via Crucis del 2002, non fosse altro perché gli autori delle meditazioni furono proprio 14 giornalisti accreditati presso la sala stampa della Santa sede. Nel 2001, a interrompere la serie dei “viventi”, fu scelto un autore di due secoli fa ma sempre attuale: il card. John Henry Newman, ora beato, di cui ricorreva in quell’anno il bicentenario della nascita. Il titolo del suo libro, dal quale erano tratti i vari passi, quanto di più appropriato per il pio esercizio della Via Crucis: “Meditazioni e devozioni”.
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