venerdì 1 aprile 2011

Anniversario della morte di Papa Wojtyla: lo speciale dell'Osservatore Romano

I sacerdoti e la Chiesa in Polonia agli inizi degli anni Settanta in un'intervista al cardinale Karol Wojtyla arcivescovo metropolita di Cracovia

A tempo pieno per una vita diversa

La libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona ininterrottamente proclamato e difeso dal pensiero cristiano

Anticipiamo in esclusiva il testo di un'intervista all'arcivescovo metropolita di Cracovia, cardinale Karol Wojtyla, che esce nel numero speciale dedicato a Giovanni Paolo II da "Palabra" e che la stessa rivista aveva pubblicato nel numero 86, dell'ottobre 1972. Il futuro Giovanni Paolo II rispose sul sacerdozio - di cui l'assemblea del Sinodo dei vescovi si era occupata un anno prima - e sulla situazione della Chiesa in Polonia. Inedito è il testo manoscritto in polacco delle risposte, dove all'inizio di ogni pagina il porporato trascrisse versi del Veni sancte Spiritus e altre espressioni in latino: nihil est in homine, nihil est innoxium, lava quod est sordidum, et omnia mea tua sunt, totus tuus.

di JOAQUÍN ALONSO PACHECO

La Polonia è uno dei Paesi che ha registrato negli ultimi anni un maggiore incremento di vocazioni al sacerdozio. In questo fenomeno svolge un ruolo indubbiamente importante l'immagine del sacerdote che i cittadini polacchi desiderano per la loro Chiesa. Potrebbe spiegare, Eminenza, quali aspettative ha la Chiesa in Polonia in tal senso? Prima di tutto devo dire che dobbiamo all'ultimo Sinodo dei vescovi il fatto che si sia intensificata e sistematizzata la riflessione sul tema del sacerdozio ministeriale e che tale riflessione abbia coinvolto tutta la Chiesa, passando dalle Conferenze episcopali alle Chiese locali e a tutti i fedeli. In tal modo abbiamo affrontato uno dei punti fondamentali della coscienza della Chiesa. A questa coscienza della Chiesa ravvivata dal Sinodo si pone anche, per quanto riguarda la Polonia, il problema delle aspettative dei cattolici rispetto alla figura del sacerdote.
È vero che la forte carenza di organizzazioni cattoliche nel nostro Paese ci ha impedito molte volte di consultare tutti i settori del laicato nella fase preparatoria del Sinodo; tuttavia altri eventi ci hanno permesso di prendere nota in modo diretto dei suoi sentimenti riguardo al problema del sacerdozio. La celebrazione nel 1970 del cinquantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Paolo VI, vissuta con particolare intensità in Polonia, il venticinquesimo anniversario della liberazione dei 250 sacerdoti dai campi di concentramento di Dachau, e, lo scorso anno, la preparazione della beatificazione di Massimiliano Kolbe - il sacerdote cattolico che diede la propria vita ad Auschwitz in cambio di quella di un padre di famiglia - hanno rappresentato per i nostri fedeli una sorta d'introduzione spirituale al Sinodo e, per noi, un'occasione per constatare che la figura del sacerdote si trova al centro della coscienza della Chiesa in Polonia.
Lo dimostrano anche le risposte date dai nostri sacerdoti, la scorsa primavera, alle domande formulate dalla Segreteria del Sinodo nella fase preparatoria. Tali risposte si attengono a questa coscienza, ossia definiscono la figura del sacerdote nelle sue convinzioni proprie e allo stesso tempo in conformità con le esigenze concrete del resto del Popolo di Dio. In Polonia è un elemento confortante la stretta relazione che esiste fra la vita sacerdotale concreta - il modo in cui il sacerdote vede se stesso - e le esigenze della fede viva della Chiesa: il sensus fidei del Popolo di Dio per il quale egli è stato chiamato al ministero. Da quelle risposte si deduce che per i cattolici polacchi la problematica del sacerdozio verte soprattutto sul momento stesso della vocazione sacerdotale. Viene giustamente concepita come una particolarissima chiamata personale di Cristo, come il prolungamento naturale della chiamata rivolta da Gesù agli Apostoli. Tutti i fedeli, nelle diverse forme dell'esistenza umana, cercano di condurre una vita in sintonia con la speciale intenzione di Dio contenuta nel Battesimo, ma la vocazione sacerdotale s'intende proprio nella sua peculiarità. A questo nuovo "vieni e seguimi" pronunciato in modo imperativo da Cristo, corrisponde, nella sensibilità dei nostri fedeli, la certezza che, al carattere personale di tale chiamata, deve seguire un impegno totale della persona. Riassumendo, si vive, letteralmente, l'espressione con la quale la lettera agli ebrei descrive il sacerdote, ossia ex hominibus assumptus (Ebrei, 5, 1).
Ciò spiega come, nonostante le difficoltà obiettive, i seminari siano oggetto di particolare attenzione da parte di tutti e vengano mantenuti grazie, esclusivamente, alle donazioni dei fedeli. E spiega anche la straordinaria partecipazione con cui - specialmente nelle comunità di provincia ma anche nelle grandi città - si seguono le ordinazioni sacerdotali e le celebrazioni delle prime Messe.
Possiamo continuare a servirci del modello del testo paolino per illustrare un secondo aspetto importante di questa coscienza dei cattolici polacchi relativa al sacerdozio: pro hominibus constituitur. I fedeli vedono nel sacerdote il sostituto e il seguace di Cristo, che sa affrontare con piacere qualsiasi sacrificio personale per la salvezza delle anime che gli sono state affidate. Hanno fiducia in lui e apprezzano soprattutto il suo zelo apostolico concreto e il suo instancabile spirito di sacrificio per il prossimo, realizzato nello spirito di Cristo. Ed è proprio insistendo su queste dimensioni dell'esistenza sacerdotale che penso si possa superare qualsiasi "crisi d'identità". Il sacerdote è utile alla società se riesce a utilizzare tutte le sue capacità fisiche e spirituali nello svolgimento del suo ministero pastorale. I fedeli non hanno bisogno di funzionari della Chiesa, o di efficaci dirigenti amministrativi, ma di guide spirituali, di educatori (fra la mia gente regna la convinzione che il cristianesimo possieda principi morali e possibilità educative insostituibili).
Tornando al documento sinodale, per vedere riflessa in esso la situazione polacca, sarebbe necessario apportare una lieve correzione: più che insistere sulla crisis identitatis, sarebbe bene mettere in evidenza la identificatio per vitam et ministerium che costituisce l'elemento più importante del modo in cui i nostri fedeli considerano il sacerdozio, alla luce di tutto ciò che hanno già sottolineato alcuni documenti conciliari come la Lumen gentium, e il Presbyterorum ordinis. Ciò non significa che i sacerdoti polacchi non guardino con gratitudine al compito realizzato dal Sinodo.

In numerosi Paesi occidentali, dove con l'industrializzazione si è diffusa una mentalità sempre più tipica della società secolarizzata, si parla di sacerdozio part-time, e di attività professionali dei sacerdoti. Come considera, Eminenza, questo problema rispetto a quello della scarsità del clero?

Il documento finale del Sinodo risponde a questa domanda in termini essenziali. Nella parte dedicata ai principi dottrinali si legge: "La permanenza per tutta la vita di questa realtà che imprime un segno, la quale è dottrina di fede e, nella tradizione della Chiesa, prende il nome di carattere sacerdotale, serve ad esprimere il fatto che Cristo si è associata irrevocabilmente la Chiesa per la salvezza del mondo, e che la Chiesa stessa è consacrata a Cristo in modo definitivo, affinché la sua opera abbia compimento. Il ministro, la cui vita reca il suggello del dono ricevuto attraverso il sacramento dell'Ordine, ricorda alla Chiesa che il dono di Dio è definitivo". In accordo con tutta la tradizione, il Sinodo ha affermato che il sacerdozio ministeriale, come frutto della particolare vocazione di Cristo, è un dono di Dio nella Chiesa e per la Chiesa; e questo dono, una volta accettato dall'uomo nella Chiesa, è irrevocabile. In effetti, il Sinodo ha riaffermato che "questa peculiare partecipazione al sacerdozio di Cristo non scompare in alcun modo, sebbene il sacerdote sia dispensato o rimosso dall'esercizio del ministero per motivi ecclesiali o personali". Nella pratica è la Chiesa che, attraverso il vescovo, chiama determinati individui al sacerdozio e lo trasmette loro in modo sacramentale, ma questo non deve far dimenticare che l'autore del dono, colui che ha istituito il sacerdozio, è Dio stesso. "Attraverso l'imposizione delle mani viene comunicato il dono indelebile dello Spirito Santo (cfr. 2 Timoteo, 1, 6). Tale realtà configura e consacra a Cristo sacerdote il ministro ordinato e lo rende partecipe della missione di Cristo nel suo duplice aspetto, di autorità e di servizio. Questa autorità non è propria del ministro: essa è, infatti, la manifestazione della exousìa, cioè della potestà del Signore, in virtù della quale il sacerdote svolge il ruolo di ambasciatore nell'opera escatologica della riconciliazione (cfr. 2 Corinzi, 5,18-20)". Che dire pertanto del sacerdote part-time? Anche qui la risposta ce la dà il documento finale del Sinodo: "come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero sacerdotale. Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei presbiteri". Si tratta pertanto di fornire una risposta adeguata alla domanda: che cos'è il sacerdote? e in tale ottica il Sinodo riprende le parole della Presbyterorum ordinis: i presbiteri, senza essere del mondo e senza avere il mondo come esempio, devono tuttavia vivere nel mondo (cfr. Presbyterorum ordinis, 3, 17; Giovanni, 17, 14-16) come testimoni e dispensatori di un'altra vita diversa da questa vita terrena (cfr. Presbyterorum ordinis, 3). Solo partendo da queste premesse si può trovare una soluzione realistica e conforme alla fede. Il Sinodo non ha dimenticato che anche in epoche passate della storia della Chiesa ci sono stati sacerdoti che si sono dedicati ad attività extra-sacerdotali, ma esercitandole sempre in stretta connessione con la specifica missione pastorale; per questo, "per determinare, nelle circostanze concrete, quale convenienza vi sia tra le attività profane ed il ministero sacerdotale, bisogna chiedersi se e come quelle funzioni e attività servano sia alla missione della Chiesa, sia agli uomini non ancora evangelizzati, sia, infine, alla comunità cristiana, a giudizio del Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato, in quanto è necessario, la Conferenza Episcopale". La decisione del vescovo o della Conferenza episcopale dovrebbe quindi tener conto di queste premesse. Infine, per quanto riguarda lo svolgimento delle attività propriamente extra-sacerdotali, il Sinodo lo consente, ma con alcune importanti precisazioni: "Quando codeste attività, ordinariamente di spettanza dei laici, siano richieste dalla stessa missione evangelizzatrice del presbitero, devono essere poste in armonia con le altre attività del ministero, dal momento che si possono considerare, in quelle circostanze, come modalità necessarie di un vero ministero (cfr. Presbyterorum ordinis, 8)". Il Sinodo si è pertanto assunto la responsabilità di proteggere la Chiesa dal rischio di sminuire il dono divino del sacerdozio. Conforme a questo stesso senso di responsabilità, ritengo che si debba inquadrare nelle sue giuste dimensioni il problema della scarsità del clero; non si può pensare di risolvere le difficoltà derivanti dalla quantità rinunciando alla qualità. Si tratta di migliorare l'impiego del sacerdote nella Chiesa, senza però dimenticare che solo "il Signore della Messe" può moltiplicare questo dono e che agli uomini spetta accoglierlo con la disposizione che per sua natura esso richiede.

Dalle sue parole si può desumere che la crisi che ha coinvolto il sacerdozio deriva soprattutto da difficoltà di fede e dalla mancanza di una genuina spiritualità sacerdotale nella Chiesa di oggi. Le sembra tuttavia che, al di là di questa crisi, agisca anche una cultura enormemente scristianizzata? Il Sinodo, a cui lei ha fatto riferimento, ha affrontato anche questo aspetto: qual è la sua opinione al riguardo?

Durante i lavori sinodali si parlò molto di crisi d'identità del sacerdote, inquadrandola in una crisi d'identità più essenziale della Chiesa stessa. Certe espressioni però mi sembra che restino vaghe: è chiaro che più che a una crisi obiettiva, in esse si alludeva a una coscienza soggettiva di crisi. Chiarito ciò, passo a rispondere direttamente alla sua domanda. Il documento finale sul sacerdozio, sebbene abbia evitato l'espressione "Crisi d'identità" - usata invece nel documento preparatorio - proprio nei punti dedicati a illustrare tale crisi, evoca questa idea. Ecco un esempio: "Dinanzi a tale realtà in alcuni nascono queste inquietanti domande: Esiste o non esiste una ragione specifica del ministero sacerdotale? È o non è necessario questo ministero? È permanente questo sacerdozio? Che cosa vuol dire oggi essere sacerdote? Non sarebbe sufficiente per il servizio delle comunità poter contare su alcuni presidenti designati per servire il bene comune, senza che debbano ricevere l'ordinazione sacerdotale e che esercitino il loro incarico temporaneamente?". Si può senza dubbio affermare che domande come questa sono nate storicamente nell'ambito teologico, facendo appello a presupposti teorici elaborati sistematicamente da alcuni teologi come forma di contestazione alla metodologia teologica tradizionale. Ma una volta formulati e comunicati all'opinione pubblica ecclesiale, esprimono un atteggiamento di contestazione esistenziale più profonda. Il testo si preoccupa proprio di ricostruire la genesi di questo secondo tipo di contestazione e a tale riguardo continua a riferirsi all'ambito globale della cultura contemporanea. "Le questioni anzidette, che in parte sono nuove ed in parte erano già note da tempo, ma che si presentano oggi in forma nuova, non possono esser comprese fuori dal contesto globale della cultura moderna, la quale dubita molto del suo stesso significato e valore. I nuovi ritrovati della tecnica suscitano speranze eccessivamente entusiastiche ed insieme profonde ansietà. Ci si domanda, giustamente, se l'uomo potrà essere capace di dominare la sua opera e di indirizzarla verso il progresso. Alcuni, soprattutto i più giovani, hanno una concezione pessimistica intorno al significato di questo mondo e cercano salvezza in sistemi puramente meditativi, o in paradisi artificiali e appartati, estraendosi da quello che è lo sforzo comune dell'umanità. Altri, animati da una grande speranza utopistica senza alcun riferimento a Dio, si impegnano nella conquista di uno stato di liberazione totale e trasferiscono dal presente al futuro il significato di tutta la loro personale esistenza. In tal modo, risultano profondamente scompaginate l'azione e la contemplazione, il lavoro e lo svago, la cultura e la religione, l'aspetto immanente e quello trascendente della vita umana".
Il problema è: è giusta questa diagnosi? O meglio: spiega veramente tutto? Ossia, questo contesto della cultura contemporanea è veramente globale? I membri dell'Episcopato polacco, che devono affrontare difficoltà di ogni sorta, tendono a sostenere che il documento generalizza un insieme di sintomi caratteristici del mondo occidentale con grande sviluppo tecnologico: la situazione della Chiesa in altri Paesi presenta aspetti molti diversi.
Il Sinodo, certamente, non ignorò questa realtà: "Sappiamo bene che esistono regioni del mondo, nelle quali fino ad ora meno si avverte quella profonda trasformazione culturale, e che le questioni, che sono state sopra richiamate, non si pongono dappertutto, né da parte di tutti i sacerdoti, né dallo stesso punto di vista". Ebbene, in Polonia, forse per l'influenza di un regime politico e socioeconomico diverso, la trasformazione culturale non solo si avverte meno, ma anche in modo abbastanza diverso. Dai sondaggi condotti di recente fra i sacerdoti polacchi si desume che fra noi non si può parlare né di crisi d'identità del sacerdote, né di crisi d'identità della Chiesa. Nell'impatto con l'ideologia marxista e il suo ateismo programmato e diffuso in modo propagandistico, la Chiesa non ha perso la propria identità. Le crisi, quando ci sono, sono individuali; e qui torniamo al problema della fede e della spiritualità. La fede è una grazia soprannaturale che si sviluppa nelle circostanze più diverse e contraddittorie. In questo tempo, posto che l'incremento del progresso materiale comporta forti tensioni nella vita spirituale, penso che si debba sottolineare che la sua risoluzione radicale dipende da un incremento proporzionale della vita della fede. È stata sempre questa, al di là delle diagnosi, la risposta fondamentale del Sinodo.

Parallelamente alla missione di promuovere e di garantire la fede (Magistero) c'è la funzione di orientare i credenti, trasmettendo loro fedelmente le indicazioni magisteriali. Potrebbe in tal senso spiegare l'allusione fatta poco fa alla teologia?

Non si tratta solo della teologia, bensì in generale, della formazione dell'opinione pubblica nella Chiesa. In questo settore svolgono un ruolo determinante i mass media, che, come è noto, si strutturano in base a leggi proprie. Questi, naturalmente, non possono agire a detrimento della loro fedeltà al messaggio. Il problema è così reale che lo stesso Sinodo se ne fece eco nel documento sulla giustizia con queste parole: "La coscienza del nostro tempo esige la verità nei sistemi di comunicazione sociale, il che include anche il diritto all'immagine obiettiva diffusa dagli stessi mezzi e la possibilità di correggere la sua manipolazione". La Chiesa ha trattato la problematica della comunicazione in modo sempre più positivo e fiducioso (basti pensare al decreto conciliare Inter mirifica e all'istruzione Communio et progressio), ma allo stesso tempo non si può occultare l'esistenza oggettiva del rischio che i mezzi di comunicazione ledano il diritto alla verità e diventino uno dei principali centri d'ingiustizia nel mondo contemporaneo. Per questo, assegnando ai mass media la loro giusta finalità, il testo sinodale afferma esplicitamente: "Questo tipo di educazione, dato che rende tutti gli uomini più integralmente umani, li aiuterà a non continuare ad essere in futuro oggetto di manipolazioni, né da parte dei mezzi di comunicazione, né da parte delle forze politiche, ma, al contrario, li renderà capaci di forgiare il proprio destino e di costruire comunità veramente umane".
Questi testi toccano il nostro tema, anche se in un certo senso lo trascendono: aiutano a dissipare gli equivoci che nascono quando si passa dal piano della vita della Chiesa - al quale pastori e teologi apportano il loro specifico contributo, rimanendo fedeli al ministero pastorale e sacerdotale - al piano della comunicazione e della creazione di un'opinione pubblica. Ritengo pertanto giustificate le preoccupazioni dei padri sinodali per evitare che, nel passaggio delle comunicazioni sociali, si deformino elementi che sono fondamentali per la vita della Chiesa. Si tratta di porre in atto un movimento di sensibilizzazione che promuova nei responsabili della comunicazione una maggiore consapevolezza della loro responsabilità nell'edificazione della Chiesa secondo la volontà di Cristo, individuando con realismo quei fattori che - per interessi di parte e per un diffuso spirito di divismo - influiscono in modo negativo.

Fra le raccomandazioni rivolte ai sacerdoti dal Magistero ecclesiastico recente, spicca, per la su frequenza, la messa in guardia contro la tentazione di adattare l'annuncio della parola e i criteri di azione pastorale alla mentalità mondana. Visto che questa mentalità si mostra sempre più intrisa d'ideologia permissiva, tanto che si parla già apertamente di "teologia permissiva", ritiene che sia necessario estendere tale monito anche ai teologi?

Il permissivismo e le sue manifestazioni nell'ambito teologico sono fenomeni tipici della società occidentale che, in Paesi come la Polonia, hanno un'influenza per ora piuttosto relativa. Come osservatore dal di fuori posso quindi solo limitarmi a fare considerazioni generali.
In primo luogo è chiaro che all'origine del permissivismo c'è una concezione esclusivamente orizzontale - e per questo un po' riduttiva - della libertà. La libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona ininterrottamente proclamato e difeso dal pensiero cristiano. Occorre però anche tener presente che la libertà cristiana non è mai un fine in se stesso. È piuttosto forzatamente finalizzata: è il mezzo per il conseguimento del vero bene. L'errore di prospettiva del permissivismo consiste nel capovolgere l'obiettivo: il fine diviene la ricerca della libertà individuale, senza alcun riferimento al bene con cui la libertà s'impegna. La conseguenza pratica è che, al di fuori della finalizzazione del bene, la libertà si trasforma in abuso, e invece di fornire alla persona l'ambito per la sua autorealizzazione, determina il suo svuotamento e la frustrazione. Della libertà non resta altro che lo slogan. È indubbio che una simile impostazione sia da considerare assolutamente contraria ai criteri che devono orientare una retta teologia e una efficace azione pastorale. Teologi e pastori devono, in tale situazione, interrogarsi incessantemente sui veri valori cristiani. L'uomo porta la norma della sua libertà - secondo l'espressione paolina - in "vasi di creta" (2 Corinzi, 4, 7). Le tentazioni sono molte, ma altrettante sono le possibilità di recuperare. Si potranno evitare molte confusioni non chiudendosi ai problemi della società permissiva, ma piuttosto ricordando che deve essere il messaggio cristiano - il suo radicamento nella coscienza naturale - e non il permissivismo, a dettare le leggi della lotta per l'autentica libertà, che è anche sempre una delle componenti indispensabili nella missione della Chiesa.

Qual è, a suo giudizio, Eminenza, l'insegnamento che i sacerdoti di oggi, e in particolare i sacerdoti polacchi, possono trarre da una figura come quella di Massimiliano Kolbe?

Il fatto che Massimiliano Maria Kolbe sia stato beatificato durante i lavori del Sinodo attribuisce alla sua figura - come ha sottolineato il cardinale Duval, presidente di turno dell'assemblea sinodale - un significato che valica i confini nazionali e fa di lui un esempio per tutti i sacerdoti: il simbolo di un tempo segnato da crudeltà disumane, ma anche da consolanti episodi di santità. Poi, per noi polacchi, la sua beatificazione acquista chiaramente un carattere particolare: ai più anziani fra noi sacerdoti ricorda i tormenti subiti con il resto della popolazione nei campi di sterminio, dove il dolore e la solidarietà prepararono la Chiesa in Polonia a nuove prove. Ma per i più giovani, padre Kolbe rappresenta un'indicazione di quanto il sacerdote deve esigere a se stesso nel servizio agli altri.
Si possono anche considerare paradigmatici altri aspetti della sua personalità (basti pensare alla sua devozione a Nostra Signora e alla sua azione apostolica nella stampa). Tutta la sua figura, tanto intimamente raffigurata dalla croce, è un appello pressante alla finalità apostolica della vocazione cristiana e alla totale rinuncia a se stessi, che costituisce una dimensione costante dell'esistenza sacerdotale.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

In due libri (e nei disegni) di Philipp e Caroline von Ketteler e di don Marcello Cruciani

Il segreto del parroco del mondo

di SILVIA GUIDI

"A proposito: se uno di voi trovasse la mia canoa, che ho lasciato sui laghi tra le montagne di Masuren, può usarla fino alla fine della sua vita. Gliela regalo": la vignetta che conclude L'amico Karol. Giovanni Paolo II, la sua vita raccontata ai bambini di Philipp e Caroline von Ketteler (Venezia, Marcianum Press, 2011, pagine 70, euro 13) non raffigura, volutamente, il protagonista del libro, ma ne sintetizza visivamente il messaggio: la celebre canoa ormeggiata in tutta fretta sulla riva del lago - la notizia della nomina a vescovo di Cracovia lo raggiunse durante un'escursione lungo il fiume Lyne - indica il cammino della vita, diretto verso orizzonti infiniti, ma percorso ogni giorno grazie ai piccoli, faticosi, apparentemente insignificanti colpi di pagaia del quotidiano.
L'amico Karol - ma il titolo originale è molto più bello, Karols Geheimnis, il "segreto di Karol" - racconta ai bambini l'infanzia del piccolo Lolek, il suo amore per il teatro, la letteratura e lo sport, senza omettere gli aspetti drammatici di una vita segnata dalla perdita prematura delle persone più care; la madre, scomparsa quando Karol aveva solo nove anni, la sorella Olga e l'amatissimo fratello maggiore Edmund: narrando questi episodi, i disegni a colori vivaci sfumano nel monocromo blu per indicare il dolore di un passato sereno che si allontana e la durezza della prova presente.
"Leggi, Lolek, prega e leggi! Solo così imparerai a sopportare la tristezza" ripete il padre al suo bambino, che riesce ad "attraversare" la sofferenza impegnando tutto se stesso nello studio e lasciandosi sostenere dall'affetto degli amici: con loro va a nuotare, organizza lunghe gite in bicicletta, gioca a hockey su ghiaccio, pattina e impara a sciare. Una passione, quella per la neve, che continuerà anche negli anni della maturità e delle "chiavi pesanti" del ministero di successore di Pietro; una celebre foto lo ritrae nel 1984 sull'Adamello in perfetta tenuta da sci; altre immagini simili sono state recentemente raccolte da Roberto e Stefano Calvigioni a corredo del libro Lo sport in Vaticano appena pubblicato (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pagine 180, euro 16). Philipp e Caroline von Ketteler, gli autori di L'amico Karol, raccontano in modo sintetico e chiaro anche le ferite più profonde della storia: le minacce alla Chiesa, le lunghe ombre della guerra e dell'ideologia totalitaria: "In Polonia la vita era diventata ancora più difficile. Un uomo di nome Stalin era salito al potere in Russia. Poiché la Polonia era strettamente legata alla Russia, Stalin decideva quello che doveva succedere anche in Polonia. Stalin sosteneva che bisognasse togliere tutto agli uomini, anche la fiducia in Dio e la Verità. Perciò, più nessuno sembrava dare più importanza alla Verità. E poiché questo era ciò che la Chiesa rappresentava, i preti furono deportati e uccisi e le chiese vennero chiuse. Chiunque aveva fiducia in Dio per i comunisti rappresentava un pericolo". La stessa semplicità e chiarezza di narrazione, unite a una simile scelta di rappresentare per immagini la vita di Giovanni Paolo II, si possono ritrovare nell'ultimo libro di don Marcello Cruciani, sacerdote dal 1982 e parroco del Crocifisso a Todi. Ogni settimana don Cruciani pubblica una sua vignetta sul settimanale "La Voce" delle diocesi dell'Umbria; tra i volumi che ha pubblicato, c'è anche una Vita Francisci (Todi, 2010) una sorridente biografia a fumetti in cui il santo di Assisi dialoga attraverso gli episodi più celebri della sua vita con i miti della contemporaneità. "Questo piccolo lavoro - si legge nella quarta di copertina di Don Karol parroco del mondo (Todi, Tau editrice, 2011, pagine 31, euro 1) - presenta in modo semplice ed agile la vita di Giovanni Paolo II ed è illustrato dallo stesso autore del testo con i fatti salienti della sua vita; è un opuscolo popolare, adatto alla gente che non ha molto tempo da dedicare alla lettura ma che senz'altro è affascinata dalla vita di uno dei più grandi uomini della storia recente".
Il Papa- scrive don Cruciani - "non trova solo applausi; viene più volte contestato ma tutto questo non lo spaventa, come afferma durante una catechesi: "Guai se il romano Pontefice si spaventasse delle critiche e delle incomprensioni". Non è un propagandista, è un innamorato; la preghiera e, soprattutto, la celebrazione dell'Eucaristia sono il respiro delle sue giornate. Giornate intense, faticose, dove il colloquio con Dio rimane sempre al primo posto. I collaboratori sono attenti a non farlo passare durante gli spostamenti dei suoi numerosi viaggi, di fronte ad un tabernacolo con il Santissimo Sacramento, perché il Papa si sarebbe prostrato in adorazione, creando ritardi sulla tabella di marcia. Ha una certezza granitica: il primo compito del Papa verso la Chiesa e verso il mondo è pregare".

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

Ricordo di Giovanni Paolo II a sei anni dalla morte

Dove sta il centro del mondo

di KONRAD KRAJEWSKI

Stavamo in ginocchio attorno al letto di Giovanni Paolo II. Il Papa giaceva in penombra. La luce discreta della lampada illuminava la parete, ma lui era ben visibile.
Quando è arrivata l'ora di cui, pochi istanti dopo, tutto il mondo avrebbe saputo, improvvisamente l'arcivescovo Dziwisz si è alzato. Ha acceso la luce della stanza, interrompendo così il silenzio della morte di Giovanni Paolo II. Con voce commossa, ma sorprendentemente ferma, con il tipico accento montanaro, allungando una delle sillabe, ha cominciato a cantare: "Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore".
Sembrava un tuono proveniente dal cielo. Tutti guardavamo meravigliati don Stanislao. Ma la luce accesa e il canto delle parole che seguivano - "O eterno Padre, tutta la terra ti adora..." - davano certezza a ciascuno di noi. Ecco - pensavamo - ci troviamo in una realtà totalmente diversa. Giovanni Paolo II è morto: vuol dire che egli vive per sempre.
Anche se il cuore singhiozzava e il pianto stringeva la gola, abbiamo ripreso a cantare. A ogni parola la nostra voce diventava più sicura e più forte. Il canto proclamava: "Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli".
Così, con l'inno del Te Deum, abbiamo glorificato Dio, ben visibile e riconoscibile nella persona del Papa. In un certo senso, questa è anche l'esperienza di tutti coloro che lo hanno incontrato nel corso del pontificato. Chi entrava in contatto con Giovanni Paolo II, incontrava Gesù, che il Papa rappresentava con tutto se stesso. Con la parola, il silenzio, i gesti, il modo di pregare, il modo di incedere nello spazio liturgico, il raccoglimento in sagrestia: con tutto il suo modo di essere. Lo si notava immediatamente: era una persona ricolma di Dio. E per il mondo era diventato segno visibile di una realtà invisibile. Anche attraverso il suo corpo straziato dalla sofferenza degli ultimi anni.
Spesso bastava guardarlo per scoprire la presenza di Dio e, così, cominciare a pregare. Bastava per andare a confessarsi: non solo dei propri peccati, ma di non essere santi come lui.
Quando ha smesso di camminare e, durante le celebrazioni, è diventato totalmente dipendente dai cerimonieri, ho cominciato a rendermi conto che stavo toccando una persona santa. Forse facevo irritare i penitenzieri vaticani allorché, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, seguendo un imperativo interiore e sentendone una forte necessità. Avevo bisogno di ricevere l'assoluzione per stare accanto a lui. Quando si sta accanto a una persona santa, quando l'uomo in qualche modo tocca la santità, questa si irradia in tutta la persona. Ma, allo stesso tempo, si sperimenta sulla propria pelle anche la tentazione: evidentemente allo spirito maligno non piace l'aria di santità. Quando, verso le 3 di notte, sono uscito dall'appartamento del Palazzo Apostolico, a Borgo Pio c'era una moltitudine di gente: camminavano nel silenzio più raccolto. Il mondo si era fermato, si era inginocchiato e aveva pianto.
C'era chi piangeva solo per il fatto di aver perso una persona amata e poi ritornava a casa così come era venuto. E c'era chi, alle lacrime esteriori, univa quelle interiori, che scaturivano dal sentirsi inadeguati e infedeli di fronte al Signore. Questo pianto era benedetto. Era l'inizio del miracolo della conversione. Per tutti i giorni successivi, fino al funerale del Papa, Roma è diventata un cenacolo: tutti si comprendevano, anche se parlavano lingue diverse.
Sono stato a contatto con il Papa per sette lunghi anni: durante la sua vita, ma anche quando la sua anima si è staccata dal corpo. Nel momento della morte restano a noi solo le spoglie che si trasformeranno in polvere: il corpo svanisce, e la persona è accolta nel mistero di Dio.
Tra i compiti dei cerimonieri c'è anche quello di prendersi cura del corpo del Papa defunto. L'ho fatto per sette lunghi giorni, fino al funerale. Poco dopo la sua morte, ho vestito Giovanni Paolo II insieme a tre infermieri che lo avevano seguito per lungo tempo. Anche se era già trascorsa un'ora e mezza dal decesso, essi continuavano a parlare con il Papa come se stessero parlando al proprio padre. Prima di mettergli la tonaca, il camice, la casula, lo baciavano, lo accarezzavano e lo toccavano con amore e riverenza, proprio come se si trattasse di una persona di famiglia.
Il loro atteggiamento non manifestava solo la devozione al Pontefice: per me rappresentava il timido annuncio di una beatificazione vicina.
Forse è per questo che non mi sono mai dedicato a pregare intensamente per la sua beatificazione, dal momento che avevo già cominciato a parteciparvi.
Ogni giorno celebro l'Eucaristia nelle Grotte Vaticane. Osservo come i dipendenti della basilica e tutti coloro che si recano al lavoro nei diversi dicasteri e uffici del Vaticano, i gendarmi, i giardinieri, gli autisti, cominciano la giornata con un momento di preghiera presso la tomba di Giovanni Paolo II: toccano la lapide e gli mandano un bacio. È così tutte le mattine.
Dal 2000 il Papa aveva cominciato a indebolirsi sempre di più. Aveva grande difficoltà nel camminare. Preparando il grande Giubileo con l'arcivescovo Piero Marini ci auguravamo che almeno potesse aprire la porta santa. Era quasi impossibile pensare al futuro.
Mentre mi trovavo sulle montagne polacche, una volta ho sentito questa affermazione: "Ancora non ci conosciamo, perché non abbiamo sofferto insieme". Con monsignor Marini abbiamo partecipato per cinque lunghi anni alle sofferenze del Papa, al suo eroico combattimento con se stesso per sopportare la sofferenza. Mi vengono in mente le parole del salmo 51: "Purificami con issopo e sarò mondato", che si possono intendere anche così: "Toccami con la sofferenza e sarò puro".
Essere con Giovanni Paolo II voleva dire vivere nel Vangelo, essere dentro il Vangelo.
Negli ultimi anni del servizio accanto a lui mi sono reso conto che la bellezza è sempre legata alla sofferenza. Non si può toccare Gesù senza toccare la croce: il Pontefice era così provato, si può dire martoriato dalla sofferenza, ma così estremamente bello, in quanto con gioia ha offerto tutto ciò che ha ricevuto da Dio e con gioia ha restituito a Dio tutto ciò che da Lui ha avuto. La santità infatti - come diceva Madre Teresa di Calcutta - non significa soltanto che noi offriamo tutto a Dio, ma anche che Dio prende da noi tutto quello che ci ha dato.
L'atleta che camminava e sciava sulle montagne ora aveva smesso di camminare; l'attore aveva perso la voce. A poco a poco gli era stato tolto tutto.
Prima di cominciare le esequie, monsignor Dziwisz e monsignor Marini hanno coperto il volto del Papa con un panno di seta, un simbolo dal significato molto profondo: tutta la sua vita è stata coperta e nascosta in Dio. Mentre compivano questo gesto, stavo accanto alla bara e tenevo in mano l'Evangeliario, un altro segno forte. Giovanni Paolo II non si vergognava del Vangelo. Viveva secondo il Vangelo. Scioglieva secondo il Vangelo tutti i problemi del mondo e della Chiesa. Secondo il Vangelo ha costruito tutta la sua vita interiore ed esteriore.
Il mistero di Giovanni Paolo II, cioè la sua bellezza, si esprime molto bene attraverso la preghiera di Papa Clemente XI che si trovava negli antichi breviari: "Voglio tutto ciò che tu vuoi, lo voglio perché tu lo vuoi, lo voglio come e quando lo vuoi tu". Chi pronuncia queste parole con il cuore diventa come Gesù che, umile, si nasconde nell'ostia e si offre per essere consumato. Chi fa proprie queste parole comincia a vivere con lo spirito di adorazione del Santissimo Sacramento.
Seguendo il Pontefice nei viaggi apostolici, durante le lunghe trasvolate, mi domandavo spesso: dove sta il centro del mondo?
Tredici giorni dopo l'elezione, con alcuni suoi collaboratori, il Papa si recò vicino Roma, alla Mentorella, dove c'è il santuario della Madre delle Grazie. Domandò ai suoi compagni di viaggio: "Cosa è più importante per il Papa nella sua vita, nel suo lavoro?". Gli suggerirono: "Forse l'unità dei cristiani, la pace nel Medio Oriente, la distruzione della cortina di ferro...?". Ma egli rispose: "Per il Papa la cosa più importante è la preghiera".
Nel mio Paese c'è questo detto: "Il re è nudo davanti agli occhi dei suoi servi". Quanto più cominciavamo a conoscere Giovanni Paolo II, tanto più eravamo convinti della sua santità, la vedevamo in ogni momento della sua vita. Egli non oscurava Dio.
Se volessi indicare cosa è più importante per la vita sacerdotale e per ciascuno di noi, guardando a lui potrei dire: non coprire o offuscare Dio con se stesso, ma, al contrario, mostrarlo e diventare il segno visibile della sua presenza. Dio nessuno lo ha visto, ma Giovanni Paolo II lo ha reso visibile attraverso la sua vita.
Quando pregava, ho avuto l'impressione che si gettasse ai piedi di Gesù. Quando pregava, sul suo viso era visibile il totale affidamento a Dio. Era veramente trasparente; era, per usare un'immagine poetica, come l'arcobaleno che lega il cielo alla terra e la sua anima correva sulle scale dalla terra al cielo. Torno ora alla domanda: "Dove sta il centro del mondo?".
Pian piano ho cominciato a rendermi conto che il centro del mondo era sempre dove io mi trovavo con il Papa: non perché stavo con Giovanni Paolo II, ma perché lui ovunque egli si trovasse, pregava. Ho capito che il centro del mondo è dove io prego, dove io sono insieme a Dio, nella più intima unione che c'è: la preghiera. Sono al centro del mondo quando cammino alla presenza di Dio, quando "in lui infatti vivo, mi muovo ed esisto" (cfr. Atti degli apostoli, 17, 28). Quando celebro o partecipo all'Eucaristia sono al centro del mondo; quando confesso e mi confesso, nel confessionale c'è il centro del mondo; il posto e il tempo della mia preghiera costituiscono il centro del mondo perché, quando prego, Dio respira dentro di me. Il Papa ha permesso a Dio di respirare attraverso di lui: ogni giorno passava tanto tempo davanti al tabernacolo. Il Santissimo Sacramento era il sole che illuminava la sua vita. E lui davanti a quel sole andava a riscaldarsi con la luce di Dio. La vita di Giovanni Paolo II era intessuta di preghiera. Aveva sempre tra le dita la coroncina del rosario, con la quale si rivolgeva a Maria confermando il suo Totus tuus.
Una volta, dopo l'infortunio del 1991, il cardinale Deskur portò al Papa un contenitore di acqua santa da Lourdes e gli disse: "Santità, quando laverà la parte dolente, dovrà recitare l'Ave Maria". Giovanni Paolo II rispose: "Caro Cardinale, io dico sempre l'Ave Maria".
Il mio compito nell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche consiste nel curare, sotto la guida del maestro, le celebrazioni pontificie e non di scrivere articoli o preparare conferenze. È stato così per tredici anni. Dopo il 2 aprile 2005, quando qualcuno mi chiede di dare testimonianza su Giovanni Paolo II, rispondo spesso: "Sì, con grande gioia!". E invito a prendere parte ogni giovedì alla messa davanti alla sua tomba nelle Grotte Vaticane. Così come invito a recarsi nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, dove ogni pomeriggio si recita la coroncina della Divina Misericordia seguita dalla Via Crucis. Ogni giovedì sera si incontrano nel mio appartamento sacerdoti che lavorano o studiano a Roma, suore e laici. Insieme recitiamo i vespri, preghiamo e ci sediamo alla tavola comune.
Radunarsi in preghiera e stare insieme per ritrovarsi al centro del mondo: ho imparato questo da Giovanni Paolo II.
Non mi meraviglia che il Papa sia beatificato nella domenica della Divina Misericordia, anche se è una sorpresa della Provvidenza il fatto che quest'anno coincida con il 1° maggio. Così quel giorno si parlerà principalmente di santità. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II trasformeranno quella ricorrenza in un evento religioso inedito nella storia: una processione di maggio verso la santità e la preghiera.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

La profonda spiritualità mariana di Karol Wojtyla

L'architettura è fatta di amore e correttezza

di GIOVANNI COPPA
Cardinale diacono di San Lino

L'amore di Giovanni Paolo II per la Vergine fu un amore sconfinato. Non ha mai tralasciato occasione per parlare di Maria. Le ha dedicato l'enciclica Redemptoris Mater: la redenzione è stata infatti il filo conduttore del suo magistero petrino. Inoltre l'ha onorata non solo col suo ministero di Sommo Pontefice, ma anche in tante altre forme.
Fin dall'inizio ha voluto recitare per tanti anni il Rosario ogni primo sabato del mese, insieme con i fedeli in Vaticano. Con la sua fantasia instancabile ha arricchito il rosario con i misteri della luce. E ormai quasi alla fine del pontificato, ha celebrato l'Anno del rosario, che ha avuto tanti frutti di devozione e di rinnovamento spirituale. Ricordo poi i suoi pellegrinaggi a Lourdes e a Fátima. In ogni suo viaggio, inoltre, ha programmato una visita ai più importanti santuari mariani del mondo.
So con quanto desiderio voleva che un'immagine della Madonna campeggiasse nella basilica Vaticana, dove del resto ci sono stupende cappelle a Lei dedicate. E volle che almeno il Palazzo Apostolico mostrasse un'immagine della Madonna, che si leva, alta e materna, su piazza San Pietro.
Tutti sanno che il motto da lui scelto prima della sua ordinazione episcopale è Totus tuus. Il futuro Papa trasse queste parole dalla preghiera di un grande santo mariano, Luigi Maria Grignion de Montfort. Ebbene, il Papa non solo recitava ogni giorno quella preghiera, ma ne scriveva un brano su ogni pagina dei testi autografi delle sue omelie, dei discorsi, delle encicliche, in alto a destra del foglio. Nella prima pagina metteva l'inizio della preghiera: Tuus totus ego sum, "Io sono tutto tuo"; nella seconda, Et omnia mea tua sunt, "E tutte le cose mie sono tue"; nella terza, Accipio Te in mea omnia, "Ti accolgo in tutte le cose mie"; nella quarta, Praebe mihi cor tuum, "Dammi il tuo cuore". E così proseguiva su ogni pagina, ripetendo, se necessario, le singole invocazioni, finché non aveva terminato di scrivere. Negli archivi della Segreteria di Stato vi sono migliaia di queste pagine, dove Giovanni Paolo II ha manifestato in modo così intimo e commovente il suo amore alla Madonna.
Questo amore sconfinato a Maria nasceva dall'amore che egli aveva per Cristo. Amare Gesù è il fulcro di tutta la nostra vita. E se ciò è vero per ogni cristiano, tanto più lo è per il Papa. È una cosa tanto ovvia che potrebbe sembrare inutile sottolinearla. Ma vi accenno, perché ho un ricordo particolare, che riguarda l'ultima visita apostolica che Giovanni Paolo II compì nel 1997 nella Repubblica Ceca.
Era già venuto in Cecoslovacchia nel 1990, appena caduto il muro di Berlino, fermandosi a Praga, Velehrad e Bratislava. Nel 1995 venne per la seconda volta, sostando a Praga, in Boemia, e a Olomouc, in Moravia. Era già sofferente. Cominciava a portare il bastone e ci scherzava sopra con i giovani, sempre entusiasti di stringersi attorno a lui. Ma era ancora in forze, tanto da fare le scale senza ascensore.
La prima sera, dopo l'arrivo e la cena con i vescovi, sostò in cappella davanti al Santissimo. Le suore avevano preparato per lui un grande inginocchiatoio, ma egli preferì pregare nel banco. Io lo accompagnai, attendendo fuori della cappella. La sera seguente fui trattenuto da impegni e telefonate urgenti, e non potei accompagnarlo in cappella. Ci arrivai dopo, quando era già inginocchiato. Prima di entrare avevo udito come una musica indistinta, e quando aprii silenziosamente la porta, sentii che, inginocchiato nel banco, cantava sommessamente davanti al tabernacolo. Il Papa cantava sottovoce davanti a Gesù Eucaristia: il Papa e Cristo nell'Ostia, Pietro e Cristo. Fu per me una cosa sconvolgente, un fortissimo richiamo alla fede e all'amore per l'Eucaristia, e alla realtà del ministero petrino. Non ho più dimenticato quell'esile canto, che era come un colloquio d'amore con Cristo. Ho raccontato una sola volta questo episodio, in Repubblica Ceca, ma è bene che sia noto, tanto più ora che si avvicina la sua beatificazione, perché dice magnificamente che dobbiamo avere un legame sempre vivo, intimo e profondo con Gesù, vivente nell'Eucaristia. E dimostra, in modo superlativo, che Giovanni Paolo II è stato veramente un innamorato di Cristo.
Infine, vorrei sottolineare l'amore dei popoli slavi per il Pontefice polacco. Nel 1990 fui inviato in Cecoslovacchia, che due anni dopo si divise pacificamente in due Stati, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Questo è stato il regalo più grande che mi abbia fatto Giovanni Paolo II, dopo quello di avermi ordinato vescovo. Ricordo che, ancora la vigilia della mia partenza per Praga, lo vidi all'eliporto vaticano, di ritorno da una visita in una diocesi italiana, e gli dissi: "Padre Santo, domani parto, e finalmente vedrò anch'io, in Slovacchia, i "suoi" monti Tatra". Ma lui, sorridendo bonariamente, mi disse. "Oh! I Tatry sono molto più belli dal versante polacco che non da quello slovacco!".
L'esperienza come nunzio apostolico è stata la più intensa che io abbia fatto. In quegli anni, potei toccare con mano quanto il Papa fosse amato dal popolo ceco e slovacco, a cominciare dalle autorità. Il presidente Havel mi disse due volte che Giovanni Paolo II aveva svolto un ruolo fondamentale nella caduta del comunismo: "Certamente - sosteneva - ci furono anche altre cause per la vittoria della libertà sul comunismo, ma, senza di lui, il risultato non sarebbe stato così subitaneo e inatteso". Altre volte mi sottolineò che i suoi colloqui col Papa erano sempre molto informali e cordiali: "Lui parla in polacco, io in ceco - diceva - e ci intendiamo molto bene".
Ciò che gli attirava le simpatie di tutti era il fatto che fosse il primo Papa slavo della storia. La gente, che per quarant'anni era stata frastornata dalla propaganda ateistica, cominciava a capire che cos'era la Chiesa, quale mistero di comunione e di fratellanza portasse agli uomini insieme con la fede in Dio e l'amore di Cristo, negati per così lungo tempo. Anche per questo, Giovanni Paolo II è stato un grande dono di Dio alla Chiesa e all'umanità.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

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