Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
L’Africa agli africani
Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, racconta i giorni della crisi.
Appena ha capito quanto stava per accadere, un sacerdote fidei donum di Trento è riuscito a prendere l’ultimo volo per Tripoli, ed è tornato qui, per rimanere accanto a chi avrebbe avuto bisogno di lui. Una famiglia di musulmani di Beida ha fatto, a suo modo, anche meglio. Ha percorso centinaia di chilometri sino al confine con l’Egitto per attendere suor Lucia, un’amica che tornava per lavorare in ospedale. Non avendo la possibilità di un volo diretto per Bengasi, suor Lucia è dovuta passare dall’Egitto, dove è stata ospitata dai parenti di quegli stessi amici libici che poi l’hanno accolta al confine. Anche lei ora è qui, ora che molto dolore viene sparso, e la gente non sa capire davvero perché.
Eppure in ottobre, per il venticinquesimo anniversario di nomina episcopale del vicario apostolico di Tripoli, la festa era stata spontanea, serena e condivisa tra cristiani e musulmani, con tanta cordialità di tutti verso tutti. Nessuno immaginava che sarebbe arrivata la guerra.
Dopo i primi momenti della ribellione contro il regime, a Tripoli la vita continuava quasi come sempre, mentre i combattimenti si svolgevano altrove. C’era più silenzio del solito, una tranquillità apparente e ricercata per scansare la paura e la tristezza. C’è chi, comprensibilmente, è fuggito via, sperando di poter ritornare presto. Che ci fossero nel Paese scontri violenti ce lo ha ricordato la presenza dei checkpoint. Poi sono arrivati i bombardamenti della coalizione, che hanno fatto molte vittime civili: ne ho avuto testimonianze numerose e degne di fede e l’ho ripetuto pubblicamente. Come si può pretendere di colpire un obiettivo militare vicino alle case della gente senza immaginare le conseguenze? A causa delle bombe “umanitarie” sono crollati edifici portandosi via famiglie intere; hanno riportato danni anche alcuni ospedali.
Adesso abbiamo la camionetta della polizia davanti al portone della nostra casa francescana, siamo divenuti oggetto di maggiore protezione da parte del governo, ed è più che ovvio data la situazione.
In generale, comunque, la Chiesa cattolica non è stata toccata, anzi, è stata protetta.
La vita della nostra comunità si è attenuata… ma continua. In questa “normalità”, con i pochi cattolici rimasti riusciamo ancora a celebrare la santa messa la mattina di venerdì, del sabato e della domenica. La maggior parte dei fedeli è composta da stranieri; è noto che la nostra identità cattolica è afroasiatica, rappresentata per lo più dai lavoratori filippini, occupati negli ospedali, e dagli immigrati africani, francofoni e anglofoni. Gli occidentali che lavoravano nelle compagnie straniere aggiudicatarie degli appalti se ne sono andati nel momento della chiusura dei battenti, al primo rumore delle armi.
In questa guerra l’islam non c’entra e noi non abbiamo mai avuto problemi con i nostri amici musulmani. Anzi. L’islam libico non è mai stato una preoccupazione per noi.
Con la guerra in corso, alla fine di marzo, abbiamo anche mantenuto i nostri regolari incontri con la Dawa al Islamiya, nota come World Islamic Call Society, il celebre ente governativo di dialogo religioso. Ho avuto prima un colloquio personale con il segretario generale Mohamed Ahmed Sherif, e qualche giorno dopo si è tenuto un incontro con il gruppo dei religiosi cristiani e cattolici presenti a Tripoli. Per quanto ho potuto, ho promosso quest’iniziativa. Sono visite utili, vissute con spirito fraterno, e servono ora anche a propiziare una attività di mediazione, laddove sia possibile, in questa guerra. La Dawa infatti, in sintonia con la Santa Sede, chiede di favorire subito una via d’uscita dalla guerra.
Mentre parlo c’è ancora da sperare in un soluzione politica e diplomatica. Cioè che ci sia un vero dialogo tra le fazioni e che si possa con realismo offrire una soluzione onorevole a tutti. Vanno coinvolte l’Unione africana e la Lega araba.
Questi sono giorni in cui mi pare di vedere dei segni di riconciliazione, sia nel Paese che fuori. Ci sono dei tentativi in atto.
L’Unione africana non viene seriamente interpellata, non in maniera tale che possa portare avanti concretamente delle trattative. Forse qualcuno ha un complesso di superiorità. Gli africani, da parte loro, non si espongono, ma sappiamo che all’interno dell’Ua c’è chi ha chiesto che si agisca per la Libia.
Da decenni diciamo l’“Africa agli africani”, perché non deve valere proprio ora?
D’altro canto, ci sono Paesi della coalizione che vogliono al contrario dare le armi ai ribelli. Le armi non portano la pace, chiunque sia a usarle. Che cosa si vuole, che i libici continuino ad ammazzarsi tra loro? Qui il popolo è unito per sua natura – io non ho incontrato nessuno che mi abbia detto di volere che il Paese venga diviso in due – e dispensare armi è contro il popolo. Sembra quasi che lo si voglia eliminare. Bisogna far di tutto per favorire un dialogo tra le parti, in un clima rasserenato, con le persone idonee; bisogna raggiungere l’accordo col compromesso.
Voglio ringraziare tutti i vescovi che mi hanno chiamato, e prima di tutti ringraziare papa Benedetto, che ci ha molto confortato e ha assunto una posizione semplice e precisa.
Da piazza San Pietro ha chiesto «che un orizzonte di pace e concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nordafricana». Basta con le armi; sì subito al dialogo e alla pace. Abbiamo tradotto le sue dichiarazioni in inglese e in arabo e le abbiamo diffuse quanto più potevamo. Abbiamo letto il testo in tutte le nostre messe e sono andato a consegnarlo di persona a qualche amico libico.
Ogni giorno mi sostiene il guardare alla testimonianza dei cristiani che sono qui, alle infermiere filippine e alle religiose che lavorano negli ospedali in Tripolitania, alle tante altre che sono invece in Cirenaica, nelle città degli insorti. Tutte loro curano tutte le vittime, da una parte e dall’altra della barricata.
© Copyright 30 Giorni, aprile 2011
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