Concretezza e misericordia
Saper essere «toccati»
Francesco Botturi
Nella sua omelia per la Messa crismale di ieri, papa Benedetto XVI si prende cura della nostra fede, quasi la prende per mano per aiutarci a vedere il mondo «dall’alto della croce», come diceva Romano Guardini; vedere il mondo cioè come esso appare dopo l’irruzione di Cristo in esso.
«Nei Sacramenti – afferma il Papa – il Signore ci tocca per mezzo degli elementi della creazione»: il mondo è diventato lo spazio entro il quale il Signore «ci tocca»; è lo spazio-tempo con il quale il Signore ci tocca, in forza della «sua umanità penetrata dalla forza dello Spirito». In tal senso, dice il Papa, con grande intensità di significato, «i Sacramenti sono espressione della corporeità della nostra fede che abbraccia corpo e anima, l’uomo intero». In questo, dunque, sta il mutamento di visione della fede, in un’esperienza della vita come "toccata" da Cristo e dalla sua azione sacramentale.
I sacri olii che vengono benedetti nel giovedì santo riguardano – richiama il Papa – «tre dimensioni essenziali dell’esistenza cristiana», in cui Egli legge anche tre situazioni umane fondamentali. L’olio dei catecumeni, che indica l’essere «toccati da Cristo» come uomini attirati interiormente da Lui sino a volergli appartenere nel battesimo; in cui si rappresenta la situazione umana della ricerca del senso e dell’inquietudine e insieme la scoperta non solo di essere cercatori, ma di essere anche, e ancor prima, cercati, perché Dio si è fatto uomo ed è «disceso negli abissi dell’esistenza umana». Per cui il senso della ricerca è in realtà già un’appartenenza, che inizia con essa ma che è destinata a proseguire eternamente in una conoscenza e un amore che non avranno fine. L’essere toccati da Cristo porta in sé qualcosa di eterno e di questa intuizione si nutre la gioia della sua esperienza.
C’è poi l’olio per l’unzione degli infermi, in cui è comunicata l’azione messianica della guarigione, strettamente congiunta all’annuncio del regno di Dio, che passa attraverso il risanamento delle infermità e, alla radice, del «cuore ferito degli uomini», come la Chiesa ha sempre fatto in tutta la sua storia di soccorso, di cura e di perdono,
Vi è infine «il più nobile degli olii ecclesiali», quello che serve soprattutto per l’unzione nel Battesimo, nella Confermazione e nelle Ordinazioni sacerdotali ed episcopali. Sono le consacrazioni con cui si costituisce e si struttura il popolo di Dio, «popolo sacerdotale per il mondo», che dà senso pieno alla fondamentale esigenza umana di essere popolo, di appartenere a un popolo quale matrice ed espressione del proprio stare al mondo.
Di ciascuna di queste prospettive il Papa evoca la profondità umana e di fede, ma insieme suggerisce anche la possibile estraneità con cui sono avvertite nell’uomo d’oggi non credente, ma anche credente. Si potrebbe dire che l’uomo occidentale, con stratificati passaggi culturali, abbia raggiunto un senso di sé in cui non vuole più essere "toccato", quasi fosse qui il segreto della sua dignitosa autonomia. Viviamo l’inquietudine del cuore, ma forse non vogliamo essere cercati, trovati e conosciuti da Chi può accoglierla e darle senso.
Avvertiamo la ferita del cuore, ma forse non vogliamo essere guariti quanto alla «relazione fondamentale con Dio», in cui è risanato il nostro turbamento più profondo. Soprattutto, osserva il Papa, forse «il popolo di Dio» è diventato in gran parte «popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio»: «Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo», per cui rischiano di diventare «non-popolo»? È una diagnosi drammaticamente realista, ma non pessimista. La stessa prospettiva del giovedì santo aiuta a comprendere dove stia la grande posta in gioco: lo stesso essere "toccati", che suscita ostilità e rifiuto, può diventare una straordinaria concretezza, una impensata misericordia per chi avverta con liberante sincerità l’inquietudine, la ferita del cuore, la solitudine in un mondo che non ha più nemmeno le parole per dirne la irrimediabile sofferenza.
© Copyright Avvenire, 22 aprile 2011 consultabile online anche qui.
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