Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
Da Porta Pia a via Rasella: strade del dialogo
Francesco Antonio Grana
Domenica i manuali di storia si arricchiranno di una pagina importante.
Benedetto XVI visiterà il Sacrario delle Fosse Ardeatine, 67 anni dopo il massacro di 335 civili e militari italiani compiuto il 24 marzo 1944 dalle truppe tedesche, in rappresaglia per l’attentato subito il giorno prima in via Rasella.
Quella di Ratzinger sarà la terza visita di un pontefice alle Fosse Ardeatine, dopo quelle di Paolo VI, il 12 settembre 1965, e di Giovanni Paolo II, il 12 marzo 1982. Un gesto che si ricollega alla visita del Papa al campo di concentramento di Auschwitz, durante il suo viaggio in Polonia nel maggio del 2006, quando condannò duramente il nazismo.
“Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile, ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania”, disse in quell’occasione. “In un luogo come questo – proseguì Benedetto XVI – vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio. Un silenzio che è un interiore grido verso Dio: perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”.
Non è un caso che questa visita del Papa alle Fosse Ardeatine avviene nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva chiesto a Benedetto XVI di unirsi alle celebrazioni e il Papa ha accolto l’invito inviando al capo dello Stato un messaggio in occasione di questo storico anniversario.
“Il cristianesimo – scrive Ratzinger a Napolitano – ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative e assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica”. Da Dante a Petrarca, da Giotto a Michelangelo, da Raffaello a Caravaggio, da san Francesco d’Assisi a santa Caterina da Siena, da Vincenzo Gioberti a Massimo d’Azeglio, da Alessandro Manzoni a san Giovanni Bosco, da Aldo Moro a Vittorio Bachelet. Sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi uomini e donne che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana e che Benedetto XVI ha scelto di ricordare nel suo messaggio.
Significativo, come egli sottolinea, è anche il fatto che l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del successore di Pietro. Da qui il Papa ricorda tutti i problemi politici che derivarono quando, il 20 settembre 1870, con la breccia di Porta Pia, Roma fu annessa al Regno d’Italia e fu così decretata la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei papi. “Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse – scrive Ratzinger a Napolitano – il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale.
Senza negare – prosegue il Papa – il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”. Benedetto XVI ripercorre le diverse tappe del conflitto tra Stato Chiesa, che è passato alla storia con il nome di “Questione Romana”, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale “Conciliazione”, avvenuta l’11 febbraio 1929 con la firma dei Patti lateranensi, riconosciuti costituzionalmente nell’articolo 7 della Carta del 1948, e rivisti e approvati il 18 febbraio 1984.
Nessun conflitto, però, come sottolinea il Papa, si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra la comunità civile e quella ecclesiale. Come ha scritto Giovanni Maria Vian sulle colonne de L’Osservatore Romano, “senza la tradizione cristiana, e in particolare senza la tradizione cattolica e senza il papato, l’Italia non sarebbe ciò che è stata e ciò che è oggi”.
© Copyright Il Denaro, 26 marzo 2011
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