Su segnalazione di Alice leggiamo:
Umanità orfana se dimentica la croce
Fare i conti con quei chiodi
Alessandro D’Avenia
L’Italia è stata assolta dalla colpa di ledere i diritti umani per la presenza di un crocifisso su una parete, colpevole – per alcuni – di indottrinare con la sua presenza. Era necessaria l’assoluzione della Corte europea. Amen. Se togliamo il crocifisso dovremmo anche eliminare dal nostro calendario, se non le vacanze di Natale, almeno quelle di Pasqua, andare al lavoro anche la domenica, per non subire la violenza della risurrezione di quel crocifisso che ci obbliga a dormire fino a mezzogiorno, stare con la nostra famiglia e mangiare un dolce, senza avere ragioni particolari per festeggiare...
I crocifissi non ci sono sempre stati. Non già alle pareti delle scuole, ma delle chiese. Solo nel V secolo compaiono i primi. Non si può rappresentare Dio in croce: è scandaloso, sia per gli ebrei sia per i pagani, e quindi anche per i cristiani, che provenivano culturalmente da quelle file. Pochi sono i crocifissi, qualcuno in più in età carolingia, finché Francesco ne fa il baluardo della sua preghiera, a partire da San Damiano. Così fiorisce l’immagine del crocifisso nell’arte e nella devozione privata, e conquista anche le pareti degli edifici pubblici. Sono necessari?
Ogni luogo ha i suoi arredi. In chiesa voglio trovare un crocifisso, in classe una lavagna. Non si tratta di mettere crocifissi dove non è necessario che stiano, né toglierli da dove sono sempre stati. Lo scriveva già la Ginzburg, ebrea, negli anni ’80: «Il crocifisso non genera discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo.
Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino. Prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini... A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola».
Va oltre Potok ne Il mio nome è Asher Lev, primo di due romanzi meravigliosi, in cui il protagonista è un ragazzo che ha talento per la pittura. La sua vocazione di artista è minacciata dall’appartenenza a una famiglia di ebrei osservanti. Nel chassidismo infatti le immagini sono un inaccettabile tentativo di scimmiottare la creazione divina, così il padre del ragazzo ostacola la vocazione artistica del figlio come fosse un peccato. Asher persegue ugualmente il suo talento e intanto scopre il nascosto dramma della madre.
Così rappresenta nel suo dipinto più famoso la madre crocifissa e, ai suoi piedi, lui e suo padre. Viene allontanato dalla comunità, nonostante il suo tentativo di giustificarsi: «Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per il Padrone dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco. Io, un ebreo osservante che lavora su una crocifissione perché nella tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e tormento estremi».
Diceva Eliot che nessuna cultura può comparire e svilupparsi senza una religione e la cultura di un popolo è l’incarnazione della sua religione. Non sono i crocifissi appesi alle pareti, ma viceversa. In quella croce c’è la verticalità che collega cielo e terra, la fame di altezza e profondità che caratterizza persino la struttura del corpo umano rispetto a quella degli animali, e c’è l’orizzontalità che abbraccia tutto e tutti.
Forse il crocifisso è tornato osceno come lo è stato nei primi secoli del cristianesimo. Forse lo toglieremo e ci colpirà ancor più la sua assenza, come mi ha detto un amico: «Chi toglie il crocifisso dai muri non può non fare i conti con il segno dei chiodi».
© Copyright Avvenire, 19 marzo 2011 consultabile online anche qui.
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