Su come "fare gli italiani"
Il Risorgimento sarà "zoppo" finché resterà mito anticattolico
di Pietro De Marco
Se guardare a un secolo e mezzo di storia unitaria con risentimenti terzomondistici - ‘il Nord colonizzatore è stata la causa del nostro declino’ - o con repliche (settentrionali) del genere “il fardello dell’uomo bianco”, pare sterile, anche le nostalgie per la palingenesi, attesa e mancata, del “primo” come del “secondo” Risorgimento, non sembrano portarci lontano in questo 2011.
Mi permetto di proporre alcune tesi con una premessa: rispetto al ruolo e al prestigio europeo goduto dagli Stati italiani in età moderna (sia detto, contro la tesi della “decadenza”), l’unificazione ottocentesca di entità politiche in declino fu un atto di ragione, diversamente pensato dai protagonisti ma eseguito secondo il principio di realtà, tenendo conto, cioè, della nuova configurazione delle potenze, delle loro dimensioni e organizzazione, insomma dei prerequisiti di esistenza e azione di uno stato moderno.
Va subito aggiunto, però, che se non fosse esistita un’Italia culturale e politica multistato, e popoli “italiani” di spessore, alcuni, più che bimillenario, l’unità nazionale non sarebbe stata realizzabile, nemmeno pensabile. Questa preesistenza fu, d’altronde, argomento di molte rivendicazioni risorgimentali. Con Aldo Schiavone, Italiani senza Italia, ma per ricavarne implicazioni diverse, sembra dunque più corretta la formula che vede una primogenitura degli “italiani” sull’Italia unita, contro la celebre, a mio avviso fuorviante, formula adespota: ‘fatta l’Italia bisogna fare gli italiani’.
Si trattava infatti di una Italia a più “nazioni”; né la nazione è solo quella nazionalisticamente perseguita nell’Ottocento europeo e latinoamericano. I risorgimentali, seguiti dalle culture liberali postunitarie, poi dalle nazionalistiche, si avvalsero degli italiani esistenti, e legittimanti l’atto unitario, ma vollero trasformarli, fallendo, nell’individuo ideale, nel civis-patriota ovunque eguale.
“Bisogna fare gli italiani” è, nel suo significato meno banale, un errore diagnostico e prognostico; una visione delle cose che estirpa il fondamento fattuale e ideale della stessa azione unitaria.
Vicenda analoga mi pare quella che caratterizza la “costruzione” velleitaria e astratta di un Europa che invece esiste già, da non annullare ma dalla quale partire. Una contraddizione tra dato culturale fondante e istanze rivolte piuttosto a negarlo utopisticamente, caratteristica delle borghesie liberali ascendenti, poi delle élites progressiste. Di tale contraddizione fu espressione conseguente, e ancora oggi cruciale, la tentata decattolicizzazione dell’Italia unita, perseguita in molti modi da classi dirigenti che cercarono di ‘protestantizzare’ gli italiani, poi dalle culture socialistiche e dai nazionalismi che li vollero atei, o fedeli di una religione politica (progetto cui la soluzione pattizia del 1929 mise obiettivamente fine).
“Fare gli italiani” significò, e significa spesso, sottrarli alla formazione e al sentire cattolici, cioè alla storia. Sulla forma cattolica dell’età moderna (XVI-XVIII secolo), sulla Chiesa e il Papato, furono così proiettate le origini e le responsabilità, etiche e politiche, intellettuali e sociali, di ogni male d’Italia, perché gli italiani la rinnegassero. Se il Risorgimento fu, come si è detto, una “rivoluzione mancata” o una rivoluzione (con deliberato ossimoro) “moderata”, l’alterazione eversiva della memoria culturale, essenziale ad un’identità comune, al comune sentire della Patria, vi fu certamente.
La frattura tra il presente-futuro della “Nuova Italia” e il suo passato, la damnatio dell’Italia cattolica istituti di memoria degli italiani, furono la rivoluzione operata dal nostro Risorgimento. Prima delle “due Nazioni” generate dalla ‘guerra civile’ 1943-1945 e dal dopoguerra (Galli Della Loggia) vi è, dunque, lo iato tra due narrazioni identitarie, quella della continuità civile e religiosa dell’Italia, e quella della discontinuità, proclamata da élites che si alimentavano di una pura volontà di nation building.
Con un’eccezione, poiché vi è sempre bisogno di ‘martiri’: la narrazione della discontinuità afferma una continuità della ‘Nuova Italia’ con la memoria di ogni minoranza eretica, di ogni vittima dei poteri politici e religiosi preunitari. Ideologia non estinta, e di nuovo attiva nella reviviscenza recente di polemiche sugli eretici italiani, su Inquisizione e caso Galileo, essa è rivolta da oltre 150 anni a ‘colonizzare’ il sentire comune e fondare così l’amor di Patria.
Non è certo sull’eredità degli “eretici” che si costruiscono gli ordinamenti e formano i cittadini di uno stato moderno; vi si possono cristallizzare, però, degli istituti di memoria divisivi, generatori di cittadinanze antagonistiche. Il mito-motore intellettuale del movimento unitario fu certo necessario al processo di unificazione; ma, parziale e conflittuale, non fu e non è sufficiente all’unità degli Italiani. La memoria culturale dell’Italia è più e altro, precede e eccede la cultura generatrice dello stato unitario. Non sorprenda se talora non vi si riconosce.
Finché la pretesa astorica di “nuova nascita” (o di supponente “riforma intellettuale e morale”) non verrà criticamente accantonata, è mia convinzione che la dominante discontinuista della memoria identitaria di una sola parte farà sentire inerte e estrinseca ogni celebrazione dell’Unità. E come può essere plausibile, nel semplice senso comune, la deprecazione o l’imposto oblio ‘civico’ per secoli di vita italiana, di fronte al mirabile arredo urbano, sacro e civile, dei centri storici, scenario dei nostri passi quotidiani, e al fondamento e alimento cattolico del capitale spirituale delle nostre società?
© Copyright L'Occidentale, 20 marzo 2011 consultabile online anche qui.
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3 commenti:
Il fatto è che moltissimi cattolici vogliono che il Risorgimento sia ricordato come evento anticattolico
Un articolo stupendo!
Rimane il rammarico per l'occasione persa: il Presidente della Repubblica non ha dedicato una parola ai gloriosi Stati preunitari che furono faro di civiltà per tutta l'Europa e il mondo.
Il buon Duca di Modena Francesco V andò in esilio con tutto il suo Esercito composto di ben tremila uomini:la Gloriosa Brigata Estense!Rimasta fedele fu costretta a scioglirsi dopo il 1866 dal governo austriaco,non dall' imperatore.
Anche questo episodio,se ricordato,avrebbe contribuito a sfatare il mito dei soldati italiani sleali e traditori.
Il buon Leopoldo II,Granduca di Toscana lasciò il suo Stato volontariamente,salutato al suo passaggio con rispetto dal popolo fedele.
Parlare di Francesco II e della buona regina Maria Sofia è superfluo...a tutti è nota la loro eroica resistenza a Gaeta.Anche loro abbandonarono il regno per impedire i bombardamenti, tipo Coventry, promessi dai Carignano (Savoia)!
Che dire del piccolo duca Roberto di Parma?Anche dopo la perdita del trono continuò ad abitare nella Villa delle Pianore presso Lucca.In famiglia si continuò a parlare italiano come ben ricordò la figlia la Serva di Dio l'imperatrice Zita d'Asburgo.
Questi principi,nati in Italia parlavano italiano,pensavano italiano,amavano l'Italia ma si preferì aprire le porte a degli avventizi francesi come i Carignano:stranieri per lingua e cultura!
Spero che il card. Bagnasco si ricordi qualche volta anche di questi principi leali, cattolici.
Mancò la Fortuna non Il Valore!
Bravo Antonio F.D. !!!
Angel
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