Il vescovo di Tunisi: «Date accoglienza, non c'è un pericolo terroristico»
Francesco Celi
Palermo
Se Gheddafi «non verrà ridotto all'impotenza in pochi giorni, in Libia e in tutti i Paesi arabi riemergeranno i fantasmi del colonialismo e contro le forze occidentali verrebbe scatenata una guerra santa».
L'arcivescovo di Tunisi Maroun Elias Lahham dopo Roma e Messina tocca Palermo. A Palazzo dei Normanni, in conferenza con il presidente dell'Ars on. Francesco Cascio, l'assessore al Lavoro Andrea Piraino, e il presidente dell'Intergruppo parlamentare "Amicizia Italia-Tunisia" on. Giovanni Ardizzone, auspica che il «virus della democrazia infetti l'intera Africa ed invita la Sicilia a non aver paura degli immigrati»; esorta l'Occidente a far sì che una guerra, quella avviata contro la Libia, «per i diritti civili», venga condotta in modo tale da non creare le condizioni perché si scateni una «nuova jihad».
E tuttavia teme: perché «in Libia s'è presa un'altra strada rispetto alle rivoluzioni pacifiche di Tunisia ed Egitto. Gheddafi ha impugnato le armi contro il suo popolo e l'Europa sta conducendo attacchi militari. Non so se sia questa la migliore soluzione».
L'arcivescovo di Tunisi – nel Paese si contano 30 mila cattolici su 10 milioni di abitanti – afferma che «questi sono momenti duri per la Tunisia» e chiede alla «Sicilia,l unica regione "quasi araba" che non ha mai mosso guerra a Israele, di avere spirito di accoglienza aspettando che la situazione si tranquillizzi e che i tunisini si sentano un po' più sicuri. Dopo la rivoluzione di gennaio», aggiunge, «in Tunisia l'economia è al punto zero. Solo il turismo dà lavoro a mezzo milione di persone, soprattutto ai giovani che quindi, in questo momento, vivono nella disperazione».
Ma le «rivoluzioni per la democrazia», puntualizza monsignor Lahham, «vanno sostenute. Non c'è nessun Paese arabo che abbia vissuto un regime democratico e per me è motivo d'orgoglio che la Tunisia sia in tal senso un laboratorio. Questo non deve lasciare nessuno indifferente, né l'Europa né l'America, né l'Africa».
L'arcivescovo di Tunisi poi si sofferma su ciò che ha scatenato la "rivoluzione dei gelsomini". «La famiglia di Ben Alì ha accumulato nel complesso il 40% delle ricchezze del Paese. Una situazione inaccettabile. Ogni impresa, e quelle italiane impegnate in Tunisia sono migliaia, è stata costretta a versare per decenni una "mancia" del 20% alla famiglia di Ben Ali sull'importo dei lavori. Nei primi giorni della rivolta, uomini e donne chiedevano pane e lavoro; dal terzo in poi le rivendicazioni sono state spostate sul piano dei dei diritti civili».
La Tunisia è «l'unico Paese arabo che riconosce libertà di culto e di coscienza. Una popolazione giovane, colta che evidentemente non poteva tollerare ancora l'oppressione di un regime nel quale influenza enorme aveva la moglie di Ben Ali, Leila Trabelsi». I due, dopo la perdita del potere, si sono separati: Ben Ali oggi vive in Arabia Saudita, la moglie a Dubai.
Il 25 luglio si vota per l'Assemblea costituente: i partiti ammessi al voto hanno dovuto sottoscrivere un documento in cui si riconoscono i valori della democrazia, la libertà di culto e i diritti delle donne. Alla fazione islamica si dà un consenso presunto compreso tra il 10 e il 12%: «Non c'è ragione per temere sbocchi terroristici in Europa», conclude l'arcivescovo di Tunisi.
© Copyright Gazzetta del sud, 25 marzo 2011
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1 commento:
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-sulla-libia-occorre-rileggere-il-papae-cercare-vere-alternative-alla-guerra-1388.htm
Alessia
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