"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI (SECONDO VOLUME): LO SPECIALE DEL BLOG
Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:
1. LA DATA DELL’ULTIMA CENA
Il problema della datazione dell’ultima cena di Gesù si fonda sul contrasto in questa materia tra i Vangeli sinottici, da una parte, e il Vangelo di Giovanni, dall’altra.
Marco, che Matteo e Luca essenzialmente seguono, offre al riguardo una datazione precisa.
«Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”…
Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici» (Mc 14,12.17).
La sera del primo giorno degli Azzimi, in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali, è la vigilia della Pasqua.
Secondo la cronologia dei sinottici si tratta di un giovedì.
Dopo il tramonto iniziava la Pasqua, e allora veniva consumata la cena pasquale – da Gesù con i suoi discepoli, come da tutti i pellegrini venuti a Gerusalemme.
Nella notte tra giovedì e venerdì – sempre secondo la cronologia sinottica – Gesù venne arrestato e portato davanti al tribunale, al mattino del venerdì da Pilato venne condannato a morte e successivamente «verso l’ora terza» (ca.le nove del mattino) crocifisso.
La morte di Gesù è datata all’ora nona (ca. le ore 15). «Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea … con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù » (Mc15,42s).
La sepoltura doveva avvenire ancora prima del tramonto, perché poi iniziava il sabato.
Il sabato è il giorno del riposo sepolcrale di Gesù.
La risurrezione ha luogo il mattino del «primo giorno della settimana», la domenica.
Questa cronologia è compromessa dal problema che il processo e la crocifissione di Gesù sarebbero avvenuti nella festa della Pasqua, che in quell’anno cadeva di venerdì.
È vero che molti studiosi hanno cercato di dimostrare che il processo e la crocifissione erano compatibili con le prescrizioni della Pasqua.
Nonostante tutta l’erudizione sembra però problematico che in quella festa molto importante per i Giudei, il processo davanti a Pilato e la crocifissione fossero ammissibili e possibili.
Del resto, a questa ipotesi è di ostacolo anche una notizia riportata da Marco.
Egli ci dice che due giorni prima della festa degli Azzimi, i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con inganno per ucciderlo, ma al riguardo dichiaravano: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo »(14,1s).
Secondo la cronologia sinottica, però, l’esecuzione capitale di Gesù, di fatto, avrebbe avuto luogo proprio nel giorno stesso della festa.
Rivolgiamoci ora alla cronologia giovannea.
Giovanni bada con premura a non presentare l’ultima cena come cena pasquale.
Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (18,28).
La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella « Parascève », non nella festa stessa.
La Pasqua in quell’anno si estende dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla sera del venerdì.
Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso.
Giovedì sera l’ultima cena di Gesù con i discepoli, che però non è una cena pasquale; venerdì – vigilia della festa e non la festa stessa –: il processo e l’esecuzione capitale; sabato: il riposo del sepolcro; domenica: la risurrezione.
Con questa cronologia, Gesù muore nel momento, in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali.
Egli muore come l’Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato.
Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica.
Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente.
Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica.
Poiché – come s’è detto – processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili.
D’altra parte, l’ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica.
Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra loro.
Il tentativo più importante – e in molti particolari affascinante – di giungere ad una compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni.
Non dobbiamo qui entrare nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all’essenziale.
La signora Jaubert si basa soprattutto su due testi antichi che sembrano guidare ad una soluzione del problema.
C’è innanzitutto l’indicazione di un antico calendario sacerdotale, tramandato nel Libro dei Giubilei, che è stato redatto in lingua ebraica nella seconda metà del II secolo avanti Cristo.
Questo calendario non prende in considerazione la rivoluzione della luna e prevede un anno di 364 giorni, diviso in quattro stagioni di tre mesi, dei quali due hanno 30 giorni e uno ne ha 31.
Con sempre 91 giorni, ogni trimestre comprende esattamente 13 settimane e ogni anno quindi esattamente 52 settimane.
Di conseguenza, le feste liturgiche di ogni anno cadono sempre nello stesso giorno della settimana.
Ciò significa, per quanto concerne la Pasqua, che il 15 di Nisan è sempre un mercoledì e che la cena pasquale viene consumata dopo il tramonto alla sera di martedì.
Jaubert sostiene che Gesù avrebbe celebrato la Pasqua secondo questo calendario, cioè martedì sera, e sarebbe stato arrestato nella notte di mercoledì.
Con ciò la studiosa vede risolti due problemi: da una parte, Gesù avrebbe celebrato una vera cena pasquale, come riferiscono i sinottici; dall’altra, Giovanni avrebbe ragione in quanto le autorità giudaiche, che si attenevano al loro calendario, avrebbero celebrato la Pasqua solo dopo il processo di Gesù e quindi Egli sarebbe stato giustiziato nella vigilia della vera Pasqua e non nella festa stessa.
In questo modo la tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari diversi.
Il secondo vantaggio sottolineato da Annie Jaubert mostra allo stesso tempo il punto debole di questo tentativo di trovare una soluzione.
La studiosa francese fa notare che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l’interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il sogno della moglie di Pilato, l’invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione.
Collocare tutto questo nell’ambito di poche ore sembra – secondo Jaubert – quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre uno spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì fino al mattino del venerdì.
In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni «Domenica delle palme», lunedì e martedì c’è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta direttamente alla cena pasquale.
Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto funzionare.
Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la crocifissione fino al venerdì.
Contro il cambio della data dell’ultima cena dal giovedì al martedì parla, però, l’antica tradizione del giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo.
Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell’inizio del III secolo, che fissa la data della cena di Gesù al martedì.
La studiosa cerca di dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri testi.
A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli per poter convincere.
L’altra difficoltà consiste nel fatto che l’uso da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile.
Per le grandi feste, Gesù si recava al tempio.
Anche se ne ha predetto la fine e l’ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni.
Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran ed agli Esseni.
Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù.
Così si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti venga rifiutata.
Io l’ho illustrata in modo così particolareggiato ,perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù – un mondo che noi, nonostante tutto l’ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire solo in modo insufficiente.
Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla.
Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù.
Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all’insieme delle fonti, che la decisione deveessere in favore di Giovanni.
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure.
Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali.
Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato – tutto ciò è poi solo normale.
Rimane la domanda: Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale?
Su che cosa si basa questa linea della tradizione?
Una risposta veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa tuttavia il tentativo – come molti altri esegeti – per mezzo della critica redazionale e letteraria.
Cerca di dimostrare che i brani di Mc 14,1a e 14,12-16 – gli unici passi in cui presso Marco si parla della Pasqua – sarebbero stati inseriti successivamente.
Nel racconto vero e proprio dell’ultima cena non si menzionerebbe la Pasqua.
Questa operazione – per quanto molti nomi importanti la sostengano – è artificiale.
Rimane però giusta l’indicazione di Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni.
Così, pur con qualche riserva, si potrà aderire all’affermazione: «L’intera tradizione giovannea … concorda pienamente con quella originaria dei sinottici per quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua» (A Mar-ginal Jew I, p. 398).
Ma allora, che cosa è stata veramente l’ultima cena di Gesù?
E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale?
La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente.
Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua.
In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo,in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua.
In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione.
In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regnodi Dio» (22,15s).
La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova.
Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto.
Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù.
E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto.
Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua.
In questo modo l’antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno.
La prima testimonianza di questa visione unificante del nuovo e dell’antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della sua morte e risurrezione, si trova in Paolo in 1 Corinzi 5,7: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi.
E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (cfr Meier, A Marginal Jew I, p.429s). Come in Marco 14,1 si susseguono qui il pri-mo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il sensorituale di allora è trasformato in un significato cri-stologico ed esistenziale. Gli «azzimi» devono oraessere costituiti dai cristiani stessi, liberati dal lie-vito del peccato. L’Agnello immolato, però, è Cristo.
In ciò Paolo concorda perfettamente con la de-scrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui,morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura.
In base a ciò si può capire come l’ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un’anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua – come la sua Pasqua. E lo era veramente.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
(Pag. 122-132)
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4 commenti:
Il Papa avevva già dato un'anticipazione del libro durante l'omelia di Pasqua del 2009.EccoloDOMENICA DI PASQUA NELLA RISURREZIONE DEL SIGNORE
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Sagrato della Basilica Vaticana
12 aprile 2009
Cari fratelli e sorelle,
“Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1 Cor 5,7). Risuona in questo giorno l’esclamazione di san Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura, tratta dalla prima Lettera ai Corinzi. È un testo che risale ad appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù, eppure – come è tipico di certe espressioni paoline – contiene già, in una sintesi impressionante, la piena consapevolezza della novità cristiana. Il simbolo centrale della storia della salvezza – l’agnello pasquale – viene qui identificato in Gesù, chiamato appunto “nostra Pasqua”. La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, prevedeva ogni anno il rito dell’immolazione dell’agnello, un agnello per famiglia, secondo la prescrizione mosaica. Nella sua passione e morte, Gesù si rivela come l’Agnello di Dio “immolato” sulla croce per togliere i peccati del mondo. È stato ucciso proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel Tempio di Gerusalemme. Il senso di questo suo sacrificio lo aveva anticipato Egli stesso durante l’Ultima Cena, sostituendosi – sotto i segni del pane e del vino – ai cibi rituali del pasto nella Pasqua ebraica. Così possiamo dire veramente che Gesù ha portato a compimento la tradizione dell’antica Pasqua e l’ha trasformata nella sua Pasqua.
A partire da questo nuovo significato della festa pasquale si capisce anche l’interpretazione degli “azzimi” data da san Paolo. L’Apostolo si riferisce a un’antica usanza ebraica: quella secondo la quale, in occasione della Pasqua, bisognava eliminare dalla casa ogni più piccolo avanzo di pane lievitato. Ciò costituiva, da una parte, un ricordo di quanto accaduto agli antenati al momento della fuga dall’Egitto: uscendo in fretta dal paese, avevano portato con sé soltanto focacce non lievitate. Al tempo stesso, però, “gli azzimi” erano simbolo di purificazione: eliminare ciò che è vecchio per fare spazio al nuovo. Ora, spiega san Paolo, anche questa antica tradizione acquista un senso nuovo, a partire dal nuovo “esodo” appunto, che è il passaggio di Gesù dalla morte alla vita eterna. E poiché Cristo, come vero Agnello, ha sacrificato se stesso per noi, anche noi, suoi discepoli – grazie a Lui e per mezzo di Lui – possiamo e dobbiamo essere “pasta nuova”, “azzimi”, liberati da ogni residuo del vecchio fermento del peccato: niente più malizia e perversità nel nostro cuore.
Se leggiamo le omelie del giovedì santo degli ultimi anni, possiamo vedere quanto le riflessioni di Benedetto XVI contenute nel nuovo libro siano già presenti in esse.
Vero :-)
Ritrovo anche il brano dedicato al tradimento di Giuda ed alla sua contrapposizione con Pietro che tradisce Cristo ma ha il coraggio di pentirsi.
R.
Brava Laura... ^__^ mi hai letto nel pensiero....sono anch'io giunta a quel ricordo di quella Omelia ^__^
molti passi del libro contengono già piccole perle di anticipazione in mlti interventi di Benedetto XVI ^__^
Comunque questo capitolo sarà un bel problema per il noto Cammino di Kiko.... il Papa giunge a delle conclusione completamente opposte all'insegnamento di Kiko sulla Pasqua ^__^
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