Non è il patrimonio artistico ma è il «corpo del Poverello»
Il tesoro di Assisi
Alcuni affreschi giotteschi della basilica superiore ispirati dalla narrazione di san Bonaventura
Timothy Verdon
Il ciclo di affreschi commissionato dall’ordine francescano ad Assisi nella chiesa che accoglie i resti mortali del suo fondatore illustra un testo, similmente commissionato dall’ordine: la narrazione di san Bonaventura della Vita Francisci, nota come la Legenda maior, «Leggenda maggiore».
Il testo di Bonaventura è composto di quindici capitoli biografici con altri dieci narranti i miracoli di Francesco, fu accettato ufficialmente al capitolo generale dell’ordine a Pisa nel 1263; gli affreschi verranno comandati per le pareti della basilica superiore nei primi anni 1290.
Sono vere e proprie illustrazioni, e sotto ventisette dei ventotto episodi sono ancora leggibili delle parafrasi dei relativi passi. Del testo bonaventuriano. Legenda maior va ricordato che nel latino medievale il termine legenda non aveva il senso che questo vocabolo ha assunto nelle lingue moderne ma conservava il significato letterale del verbo «leggere», implicando — nella forma gerundiale — una necessità, quasi un obbligo: «qualcosa che si deve assolutamente leggere».
Nello stesso modo anche il ciclo d’affreschi nella basilica superiore si presenta come «qualcosa che si deve assolutamente vedere» per conoscere san Francesco.
Qui ne vedremo alcuni.
Nella terza campata (per chi viene dall’ingresso della basilica, posto a est), il primo dei tre affreschi dipinti sulla parete sud raffigura la Morte di Francesco. È il ventesimo episodio del ciclo, e segue immediatamente a quello — nella campata più a est — della stigmatizzazione del santo. La didascalia rimanda al capitolo XIV, 6 della Legenda Maior: «Come nell’ora del transito del beato Francesco un frate vide l’anima di lui ascendere al cielo sotto forma di stella fulgidissima».
Dopo l’immagine del corpo che, animato d’amore, accoglieva le stimmate, l’autore del ciclo — il pittore Giotto, assistito da collaboratori sia romani che fiorentini — ora fa vedere la salma del santo deceduto alla Porziuncola la sera del 3 ottobre 1226. Questo è il primo di tre affreschi che, con più o meno la stessa formula, focalizzano l’attenzione sulla salma di Francesco, e va ricordato che il vero tesoro del santuario assisiate non consiste nell’arte di cui esso abbonda, bensì nel «corpo del Poverello» conservato — all’epoca di Giotto — sotto l’altare della basilica inferiore. La ripetizione visiva del corpo sdraiato nella morte ha cioè la funzione di preparare i pellegrini a scendere nella cripta per venerare i resti mortali del santo.
Altri temi reiterati qui e nelle scene seguenti sono: l’indiscutibile santità del Poverello, l’autenticità delle sue stimmate, e il ruolo dell’Ordine nella gestione del culto del fondatore.
In questo affresco, ad esempio, un frate inginocchiato in basso a sinistra, guardando su dal cadavere di Francesco, ne vede (al centro della parte alta dell’affresco) «l’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvoletta e penetrare diritta in cielo» (come recita il testo di Bonaventura). Al centro del primo piano in basso, poi, Giotto pone la mano piagata del santo, tenuta teneramente da un frate visto da tergo; un po’ più a sinistra si vede, attraverso uno strappo nel saio, la ferita nel costato, mentre, a destra, un primo frate contempla uno dei piedi di Francesco, un secondo ne bacia l’altro. Sopra questo «compianto» dei confratelli, Giotto fa vedere infine un gran numero di frati intorno al sacerdote che benedice la salma. Questa fitta calca serve a coinvolgere i pellegrini, che da sempre arrivano a Assisi in gruppi: l’artista rassicura la folla presente in basilica che la venerazione del corpo di Francesco è sempre stata un’esperienza condivisa con molti altri. L’affresco seguente, poi — il ventunesimo del ciclo, La visione di frate Agostino e del vescovo di Assisi, completa questo racconto, narrando di due visioni avute al momento stesso della morte del santo, che non viene raffigurato. È nella scena che segue, muovendosi verso l’altare a ovest, che si torna all’immagine del corpo di Francesco. Il tema è come, «Giacendo alla Porziuncola il beato Francesco morto, messer Girolamo, celebre dottore e letterato, muoveva i chiodi, e, con le proprie mani, frugava le mani e i piedi e il costato del Santo» (Legenda Maior XV, 4). Dice Bonaventura che dopo la morte di Francesco, il suo corpo «mediante un miracolo mai visto anticipava l’immagine della risurrezione». Il «miracolo» consisteva nel fatto che i segni nelle mani e nei piedi del santo apparivano come «chiodi connaturati con la carne stessa» e «da qualunque parte si premessero, subito si sollevavano, come dei nervi tutti uniti e durià [erano] neri, come di ferro, mentre la ferita del fianco era rossa e aveva l’aspetto di una rosa bellissima».
Diffusasi la notizia di questo fenomeno, «una marea di popolo accorse sul luogo: volevano vedere con i propri occhi il prodigio, per scacciare ogni dubbio della ragione e accrescere l’emozione con la gioia».
Nella folla c’era anche «un cavaliere dotto e prudente, di nome Girolamo, molto noto fra il popolo», il quale, «siccome aveva dubitato di questi sacri segni ed era incredulo come Tommaso, con maggior impegno e audacia muoveva i chiodi e le mani del santo, alla presenza dei frati e degli altri cittadini, tastava con le proprie mani i piedi e il fianco per recidere dal proprio cuore e dal cuore di tutti la piaga del dubbio». Ecco, questo affresco narrante la verifica, da parte di uno scettico, dell’autenticità delle stimmate serve a «recidere» dalla mente dei pellegrini «la piaga del dubbio».
Giotto inserisce la verifica compiuta dal cavaliere Girolamo (che vediamo in ginocchio accanto alla salma) nel contesto della solenne liturgia funebre del santo, facendo vedere anche il sacerdote in piviale nero che legge il rito affiancato da accoliti e circondato da ceri. L’evento è ambientato nella chiesa della Porziuncola, di cui si vede il catino absidale sullo sfondo; il catafalco di Francesco, ricoperto di un tessuto prezioso, è sistemato appena davanti alla trave divisorio tra la navata e il presbiterio, presumibilmente uguale a quella che all’epoca ancora divideva gli spazi della basilica superiore. Nell’affresco la trave fa anche da iconostasi, così che la salma di Francesco è vista sotto immagini della Madonna col Bambino, della Croce di Cristo e di san Michele Arcangelo, a cui il santo era specialmente devoto; queste icone sono inclinate in avanti, verso il popolo, con meccanismi di sostegno analoghi a quello visibile nel Presepe di Greccio. Davanti alle immagini pendono due vasi eucaristici coperti di veli e una armatura metallica a paniere con sette lampade.
Nella folla che Giotto rappresenta, oltre ai francescani vi sono anche molti laici. Bonaventura afferma infatti che «i cittadini assisiani, nel più gran numero possibile, furono ammessi a contemplare e a baciare quelle stimmate sacre». Giotto, le quattro scene rimanenti hanno in effetti il carattere di un’appendice: narrano alcuni miracoli del santo per dimostrare la legittimità — anzi, la «necessità» — della sua canonizzazione.
(©L'Osservatore Romano 28 ottobre 2011)
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