martedì 26 luglio 2011

L’influsso del Cardinal Ratzinger nella revisione del sistema penale canonico (Juan Ignacio Arrieta, Civiltà Cattolica)

LE DECISIONI E L'ESEMPIO DI PAPA BENEDETTO XVI NEL COMBATTERE LA PIAGA DELLA PEDOFILIA NELLA CHIESA. CRONOLOGIA

LA RISPOSTA DELLA SANTA SEDE ALLA PEDOFILIA NELLA CHIESA: CRONOLOGIA (1917-2005)

Vedi anche:

Il cardinale Ratzinger e la revisione del sistema penale canonico in tre lettere inedite del 1988: Un ruolo determinante (Juan Ignacio Arrieta)

L’influsso del Cardinal Ratzinger nella revisione del sistema penale canonico

S.E.R. Mons. Juan Ignacio Arrieta
Segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi

Nelle prossime settimane, il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi invierà ai propri Membri e Consultori una bozza contenente alcune proposte per la riforma del Libro VI del Codice di Diritto Canonico, che è la base del sistema penale della Chiesa. Una Commissione d’esperti penalisti ha lavorato per quasi due anni, sottoponendo a revisione il testo promulgato nel 1983, alla luce delle necessità affiorate negli anni successivi. L’intento è quello di mantenere l’impianto generale e la numerazione successiva dei canoni, ma anche, nel contempo, di modificare decisamente alcune scelte dell’epoca rivelatesi in seguito meno riuscite.

L’iniziativa - la cui definitiva messa in atto dovrà aspettare ancora il completamento delle dovute consultazioni prima di essere presentata all’eventuale approvazione del Supremo Legislatore - ha origine dal preciso mandato affidato al Presidente e al Segretario del Pontificio Consiglio da Sua Santità Benedetto XVI, nella prima Udienza concessa ai nuovi Superiori del Dicastero, il 28 settembre 2007, a Castel Gandolfo.

Dallo svolgimento di quell’incontro, e dai concreti problemi di ordine tecnico che in esso affiorarono in maniera spontanea, risultò evidente come l’indicazione rispondesse ad un convincimento profondo del Pontefice, maturato in anni di esperienza diretta, e ad una preoccupazione per l’integrità e la coerente applicazione della disciplina all’interno della Chiesa; convincimento e preoccupazione che – come si vedrà di seguito – hanno guidato i passi dell’attuale Pontefice sin dall’inizio del suo lavoro come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, malgrado le oggettive difficoltà provenienti, tra l’altro, dal particolare momento legislativo che allora viveva la Chiesa, all’indomani della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, nel 1983.

Per valutarlo meglio occorre ricordare alcune particolarità del quadro legislativo che a quell’epoca si era appena ridisegnato.

Il sistema penale del Codice del 1983

Il sistema penale del Codice del 1983 possiede un impianto sostanzialmente nuovo rispetto al precedente del Codex del 1917, e s’inquadra nel contesto ecclesiologico disegnato dal Concilio Vaticano II. Per quanto adesso ci riguarda, poi, la disciplina penale vuole ispirarsi anche ai criteri di sussidiarietà e di “decentramento” (5° Principio Direttivo per la Revisione del CIC approvato dal Sinodo dei Vescovi del 1967), concetto usato per indicare la particolare attenzione riservata al diritto particolare e, soprattutto, all’iniziativa dei singoli Vescovi nel governo pastorale, essendo essi, come insegna il Concilio (LG, n. 27), vicari di Cristo nelle loro rispettive diocesi. Nella maggioranza dei casi, infatti, il Codice affida alla valutazione degli Ordinari locali e dei Superiori religiosi il discernimento sull’opportunità o meno d’imporre sanzioni penali, e sul modo di farlo nei casi concreti.

Ma un altro fattore ha segnato, in maniera ancor più profonda, il nuovo Diritto Penale canonico: le formalità giuridiche e i modelli di garanzia stabiliti per applicare le pene canoniche (6° e 7° dei Principi Direttivi per la Revisione del CIC). Coerentemente con l’enunciato dei diritti fondamentali di tutti i battezzati, che per la prima volta appariva nel Codice, infatti, si adottarono allora sistemi di protezione e di tutela di questi diritti - in parte presi dalla tradizione canonica della Chiesa, e in parte desunti da altre esperienze giuridiche - talvolta in modo non totalmente rispondente a ciò che era la realtà della Chiesa in tutto il mondo. Le garanzie sono imprescindibili, particolarmente nel sistema penale; occorre, tuttavia, che esse siano bilanciate e consentano anche l’effettiva tutela dell’interesse collettivo. L’esperienza successiva ha dimostrato come alcune delle tecniche adoperate dal Codice a garanzia dei diritti non fossero imprescindibili per assicurare la loro tutela nel modo che la Giustizia esige, e che avrebbero potuto essere sostituite da altre garanzie più consone con la realtà ecclesiale; anzi, dette tecniche rappresentavano, in vari casi, un oggettivo ostacolo, talvolta insuperabile per la scarsità di mezzi, all’effettiva applicazione del sistema penale. Si potrebbe dire, per quanto questa costatazione possa risultare adesso paradossale, che il Libro VI sulle sanzioni penali sia, tra i Libri del Codice, quello che ha potuto “beneficiare” di meno da quelle continue altalene normative che caratterizzarono il periodo post-conciliare. Altri settori della disciplina canonica, infatti, ebbero in quel tempo l’opportunità di confrontarsi con la realtà concreta della Chiesa attraverso svariate norme ad experimentum, che consentirono poi di valutare l’esito dei risultati, positivi o negativi che fossero, al momento di redigere le norme codiciali definitive; il nuovo sistema penale, viceversa, pur essendo “del tutto nuovo”, o quasi, rispetto al precedente, si vide privato di questa “opportunità” di riscontro sperimentale, cosicché partì praticamente “da zero” nel 1983. Il numero dei delitti tipizzati era stato drasticamente ridotto ai soli comportamenti di speciale gravità, e l’imposizione delle sanzioni rimessa ai criteri di valutazione di ciascun Ordinario, inevitabilmente diversi.

C’è da aggiungere, inoltre, che su questo settore della disciplina canonica si sentiva particolarmente – e si sente tutt’oggi – l’influsso di un diffuso anti-giuridismo, che si traduceva, tra l’altro, nella “fittizia” difficoltà di riuscire a comporre le esigenze della Carità pastorale con quelle della Giustizia e del buon governo. 
Perfino la redazione di alcuni canoni dello stesso Codice, infatti, contiene alcuni richiami alla tolleranza che, talvolta, potrebbero essere indebitamente letti come volontà di dissuadere l’Ordinario dall’impiego delle sanzioni penali, laddove ciò fosse necessario per esigenze di giustizia.

Queste tracce, naturalmente bisognose di sfumature che in poche righe non è possibile rendere, presentano in termini generali alcune linee di forza del sistema penale contenuto nell’attuale Codice, il quale si inseriva, inoltre, nel generale contesto di altre importanti innovazioni disciplinari e di governo, promosse sì dal Concilio Vaticano II, ma “cristallizzate” soltanto con la promulgazione del corpo codiciale.

La richiesta della Dottrina della Fede (febbraio 1988)

In questo quadro legislativo, che ho cercato di raffigurare, rappresentò un evidente elemento di contrasto una lettera scritta il 19 febbraio 1988 dal Prefetto dell’allora Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Joseph Ratzinger, al Presidente dell’allora Pontificia Commissione per l’Interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico. Si tratta d’un documento importante e unico, ove si denunciano le negative conseguenze che stavano producendo nella Chiesa alcune opzioni del sistema penale stabilito appena cinque anni prima. Lo scritto è riemerso nel quadro dei lavori realizzati in questo periodo dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi per rivedere il Libro VI.

La motivazione della lettera è ben circoscritta. La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede era, a quell’epoca, competente per studiare le richieste di dispensa dagli oneri sacerdotali assunti con l’ordinazione.

La relativa dispensa veniva concessa come materno gesto di grazia da parte della Chiesa, dopo aver, da un lato, vagliato attentamente l’insieme di tutte le circostanze concorrenti nel singolo caso, e, dall’altro, soppesato l’oggettiva gravità degli impegni assunti davanti a Dio e alla Chiesa al momento dell’ordinazione sacerdotale. Le circostanze che motivavano alcune delle richieste di dispensa da questi impegni, tuttavia, erano tutt’altro che meritorie di atti di grazia. Il testo della lettera è sufficientemente eloquente della relativa problematica:

Eminenza, questo Dicastero, nell’esaminare le petizioni di dispensa dagli oneri sacerdotali, incontra casi di sacerdoti che, durante l'esercizio del loro ministero, si sono resi colpevoli di gravi e scandalosi comportamenti, per i quali il CJC, previa apposita procedura, prevede l’irrogazione di determinate pene, non esclusa la riduzione allo stato laicale.

Tali provvedimenti, a giudizio di questo Dicastero, dovrebbero, in taluni casi, per il bene dei fedeli, precedere l'eventuale concessione della dispensa sacerdotale, che, per natura sua, si configura come 'grazia' a favore dell'oratore. Ma attesa la complessità della procedura prevista a tal proposito dal Codice, è prevedibile che alcuni Ordinari incontrino non poche difficoltà nell’attuarla.

Sarei pertanto grato all'Eminenza Vostra Rev.ma se potesse far conoscere il Suo apprezzato parere circa l'eventuale possibilità di prevedere, in casi determinati, una procedura più rapida e semplificata
.

La lettera rispecchia, innanzitutto, la naturale ripugnanza del sistema di Giustizia a concedere come “atto di grazia” (dispensa dagli oneri sacerdotali) qualcosa che occorre, invece, imporre come castigo (dimissione ex poena dallo stato clericale).

Volendo evitare le “complicazioni tecniche” delle procedure stabilite dal Codice per punire condotte delittuose, infatti, talvolta si faceva ricorso alla “volontaria” richiesta del colpevole di abbandonare il sacerdozio. In questo modo si arrivava, per così dire, allo stesso risultato “pratico” di espellere il soggetto dal sacerdozio – se tale era la sanzione penale prevista –, aggirando al contempo “noiose” procedure giuridiche. Era un modo “pastorale” di procedere, si soleva dire in questi casi, al margine di quanto prevedesse il diritto.

Agendo così, però, si rinunciava anche alla Giustizia e – come motivava il Cardinal Ratzinger – si lasciava ingiustamente da parte “il bene dei fedeli”. 


Tale era il motivo centrale della richiesta, nonché la ragione per cui occorreva dare priorità, in questi casi, all’imposizione di giuste sanzioni penali per mezzo di procedure più rapide e semplificate di quelle indicate nel Codice di Diritto Canonico.

Bisogna tener conto che, sebbene il Codice riconoscesse l’esistenza d’una giurisdizione specifica della Congregazione della Dottrina della Fede in materia penale (CIC, can. 1362 § 1, 1°) anche al di fuori dei casi d’evidente carattere dottrinale, per esempio i delitti di eresia - nonché i delitti più gravi riguardanti il sacramento della Penitenza, quale il delitto della sollecitazione - non era affatto evidente, nel contesto normativo di allora, quali altri reati concreti potessero rientrare nella competenza penale di quel Dicastero. Il canone 6 del Codice aveva, peraltro, abrogato espressamente qualunque altra legge penale prima esistente: “entrando in vigore questo Codice, sono abrogati… qualsiasi legge penale, sia universale sia particolare emanata dalla Sede Apostolica, a meno che non sia ripresa in questo stesso Codice”; e, per di più, le norme della Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae, del 1967, che fissavano la competenza dei Dicasteri della Curia Romana, si limitavano ad affidare alla Congregazione il compito di “tutelare la dottrina riguardante la fede e i costumi in tutto il mondo cattolico” (art. 29).

La lettera del Prefetto della Congregazione presuppone, perciò, che la responsabilità giuridica in materia penale ricada sugli Ordinari o sui Superiori religiosi, come risulta dalla lettera del Codice.

La risposta della Pontificia Commissione per l’Interpretazione (marzo 1988)

Nel giro di tre settimane arrivò la risposta dell’allora Pontificia Commissione, con lettera del 10 marzo 1988. La tempestività e il contenuto del responso si capiscono se si tiene conto della particolarità del momento legislativo: essendo appena terminato lo sforzo codificatore che per decenni aveva occupato la Commissione, infatti, erano ancora in fase di completamento tutti gli adeguamenti alla nuova disciplina codiciale delle altre norme del diritto universale e particolare, nonché di quelle proprie delle altre istituzioni di governo della Chiesa. La risposta, certo, era di condivisione delle motivazioni addotte e della bontà del criterio d’anteporre le sanzioni penali alla concessione di grazie; inevitabilmente, però, era anche di conferma della necessità prioritaria di dare il dovuto seguito alle norme del Codice appena promulgato da parte di coloro che avevano l’autorità e il potere giuridico di farlo.

Il testo che l’allora Presidente della Pontificia Commissione inviò al Cardinale Prefetto della Dottrina della Fede testimoniava anche la situazione del momento:

Capisco bene la preoccupazione di Vostra Eminenza per il fatto che gli Ordinari interessati non abbiano esercitato prima la loro potestà giudiziaria per punire adeguatamente, anche a tutela del bene comune dei fedeli, tali delitti. Tuttavia il problema non sembra essere di procedura giuridica ma di responsabile esercizio della funzione di governo.

Nel vigente Codice sono stati chiaramente determinati i delitti che possono comportare la perdita dello stato clericale: essi sono configurati ai cann. 1364 § 1, 1367, 1370, 1387, 1394 e 1395. Allo stesso tempo è stata semplificata molto la procedura rispetto alle precedenti norme del CIC 1917, resa così più rapida e snella, anche allo scopo di stimolare gli Ordinari all'esercizio della loro autorità, attraverso il necessario giudizio dei colpevoli "ad normam iuris" e l'applicazione delle previste sanzioni.

Cercare di semplificare ulteriormente la procedura giudiziaria per infliggere o dichiarare sanzioni tanto gravi come la dimissione dallo stato clericale, oppure cambiare l'attuale norma del 1342 § 2 che proibisce di procedere in questi casi con decreto amministrativo extragiudiziale (cfr. can. 1720), non sembra affatto conveniente. Infatti da una parte si metterebbe in pericolo il diritto fondamentale di difesa - in cause poi che interessano lo stato della persona -, mentre dall'altra parte si favorirebbe la deprecabile tendenza - per mancanza forse della dovuta conoscenza o stima del diritto - ad un equivoco governo cosiddetto "pastorale", che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno del bene comune dei fedeli.

Anche in altri periodi difficili della vita della Chiesa, di confusione delle coscienze e di rilassamento della disciplina ecclesiastica, i sacri Pastori non hanno mancato di esercitare, per tutelare il bene supremo della "salus animarum", la loro potestà giudiziaria
.

La lettera fa, poi, un excursus sul dibattito che, nel corso dei lavori di revisione del Codice, s’era sviluppato prima di decidere di non inserirvi la cosiddetta dimissione “ex officio” dallo stato clericale. S’era ritenuto, in effetti, che le cause che avrebbero potuto giustificare tale procedura “ex officio” fossero state quasi tutte tipizzate nei delitti per i quali era prevista la dimissione dallo stato clericale (cfr. Communicationes 14 [1982] 85), sicché, proprio per questo, nemmeno le nuove Norme per la dispensa dal celibato sacerdotale, del 14 ottobre 1980 (AAS 72 [1980] 1136-1137), accennavano a tale procedura, ch’era ammessa, invece, dalle precedenti Norme del 1971 (AAS 63 [1971] 303 - 308).

Tutto ciò considerato – concludeva la risposta – questa Pontificia Commissione è dell'opinione che si debba insistere opportunamente presso i Vescovi (cfr. can. 1389), perché, ogni volta che ciò si renda necessario, non manchino di esercitare la loro potestà giudiziaria e coattiva, invece di inoltrare alla Santa Sede le petizioni di dispensa.

Pur condividendo l’esigenza di fondo di tutelare “il bene comune dei fedeli”, infatti, la Pontificia Commissione riteneva rischioso rinunciare ad alcune concrete garanzie anziché esortare chi ne aveva le responsabilità affinché attuasse le disposizioni del diritto.

Lo scambio di lettere tra i Dicasteri si concluse, all’epoca, con una cortese risposta, il 14 maggio successivo, del Prefetto della Congregazione al Presidente della Pontificia Commissione:

Mi pregio comunicarle che è pervenuto a questo Dicastero il Suo apprezzato voto circa la possibilità di prevedere una procedura più rapida e semplificata dell'attuale per l'irrogazione di eventuali sanzioni da parte dei competenti Ordinari, nei confronti di sacerdoti che si sono resi colpevoli di gravi e scandalosi comportamenti. Al riguardo, desidero assicurare l'Eminenza Vostra Rev.ma che quanto da lei esposto sarà tenuto in attenta considerazione da parte di questa Congregazione.

La Pastor Bonus estende le competenze della Congregazione (giugno 1988)

La vicenda appariva formalmente chiusa, ma il problema non si era risolto. Di fatto, il primo importante segno di cambiamento della situazione si ebbe, per una via differente, proprio un mese dopo, con la promulgazione della Costituzione apostolica Pastor Bonus che modificò l’assetto complessivo della Curia Romana, stabilito nel 1967 dalla Regimini Ecclesiae universae, riordinando le competenze dei singoli Dicasteri.

L’art. 52 di questa norma pontificia, a tutt’oggi in vigore, stabilisce in forma chiara la giurisdizione penale esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede, non solo rispetto ai delitti contro la fede o nella celebrazione dei Sacramenti, ma anche riguardo ai “delitti più gravi commessi contro la morale”. La Congregazione della Dottrina della fede “giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei Sacramenti, che vengono ad essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o ad infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio” (Pastor Bonus, art. 52).

Questo testo, evidentemente indicato dalla Congregazione presieduta dal Cardinal Ratzinger sulla base della propria esperienza, risulta in diretta relazione con quanto stiamo vedendo, ed è ancor più significativo se si tiene conto del fatto che la precedente “bozza” della legge – lo Schema Legis Peculiaris de Curia Romana, preparato tre anni prima –, si limitava quasi a riprodurre la formulazione delle competenze per quel Dicastero fatta nel 1967 dalla Regimini, dicendo semplicemente che la Congregazione “delicta contra fidem cognoscit, atque ubi opus fuerit ad canonicas sanctiones declarandas aut irrogandas, ad normam iuris procedit” (Schema Legis Peculiaris de Curia Romana, art. 36, Typis Polyglottis Vaticanis 1985, p. 35).

Rispetto alla situazione precedente, quindi, il cambiamento della Costituzione apostolica Pastor Bonus è di evidente rilievo, tanto più che questa volta veniva fatto nell’orizzonte normativo del Codice del 1983, e con riferimento ai delitti in esso definiti, oltre che al “diritto proprio” della Congregazione stessa. In un quadro normativo presieduto dai ricordati criteri di “sussidiarietà” e di “decentramento”, dunque, la Costituzione apostolica Pastor Bonus realizzava adesso un atto giuridico di “riserva” alla Santa Sede (cfr. CIC, can. 381 § 1) di un’intera categoria di delitti, che il Sommo Pontefice affidava alla giurisdizione esclusiva della Congregazione della Dottrina della Fede.

E’ assai dubbio che una scelta del genere, la quale determinava meglio le competenze della Congregazione e modificava il criterio del Codice su chi dovesse applicare queste pene canoniche, sarebbe stata realizzata se il sistema avesse complessivamente funzionato.

La suddetta norma, però, risultava ancora insufficiente sul piano operativo.

Elementari esigenze di sicurezza giuridica, infatti, imponevano la necessità d’identificare prima quali fossero in concreto quei “delitti più gravi” sia quelli contro la morale che quelli commessi nella celebrazione dei sacramenti che la Pastor Bonus affidava adesso alla Congregazione sottraendoli alla giurisdizione degli Ordinari.

Due rilevanti interventi successivi

Gli episodi sinora illustrati riguardano, come s’è visto, un breve lasso di tempo: alcuni mesi della prima metà del 1988. Negli anni successivi – detto in termini generali – si cercò ancora di far fronte alle emergenze apparse nell’ambito penale nella Chiesa seguendo i criteri generali del Codice del 1983, sostanzialmente riassunti nella lettera della Pontificia Commissione per l’Interpretazione del Codice di Diritto Canonico.

Si ebbe cura, infatti, d’incoraggiare l’intervento degli Ordinari locali, volendo talvolta agevolare le procedure, oppure attraverso un diritto speciale, in dialogo principalmente con le Conferenze Episcopali interessate. Lungo gli anni Novanta, poi, le riunioni e i progetti di questo genere sono stati molteplici, interessando diversi Dicasteri della Curia Romana, come si può facilmente documentare.

L’esperienza che continuava ad emergere, tuttavia, confermava l’insufficienza di queste soluzioni, e la necessità di prenderne altre, di maggiore respiro e su un livello differente.

Due di esse, in modo particolare, hanno significativamente modificato il quadro del Diritto penale canonico sul quale ha dovuto lavorare in questi ultimi mesi il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ed entrambe hanno l’attuale Pontefice come attore, in perfetta continuità con le preoccupazioni espresse nella lettera del 1988 che abbiamo considerato.

La prima iniziativa, ormai abbastanza nota, riguarda la preparazione, nell’ultimo periodo degli anni Novanta, delle Norme sui cosiddetti delicta graviora, che hanno dato effettività all’art. 52 della Costituzione apostolica Pastor Bonus, indicando concretamente quali delitti contro la morale e quali delitti commessi nella celebrazione dei sacramenti fossero da ritenere “particolarmente gravi” e, quindi, d’esclusiva giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Queste Norme, infine, promulgate nel 2001, appaiono necessariamente in “controtendenza” rispetto ai criteri previsti dal Codice per l’applicazione delle sanzioni penali, cosicché in tanti ambienti vennero subito bollate come Norme “accentratrici”, mentre, in realtà, rispondevano ad un preciso dovere di “supplenza”, teso, in primis, a risolvere un serio problema ecclesiale d’operatività del sistema penale e, in secundis, ad assicurare un trattamento uniforme di questo genere di cause in tutta la Chiesa.

A tale scopo, la Congregazione dovette preparare prima le corrispondenti norme interne di procedura, e parimenti riorganizzare il Dicastero per consentire quest’attività giudicante d’accordo con le regole processuali del Codice.

Negli anni seguenti al 2001, inoltre, e sulla base dell’esperienza giuridica che affiorava, l’allora Prefetto della Congregazione ottenne dal Santo Padre nuove facoltà e dispense per gestire le varie situazioni, giungendo addirittura alla definizione di nuove fattispecie penali.

Si addivenne intanto alla convinzione che la “grazia” della dispensa dagli obblighi sacerdotali e la conseguente riduzione alla stato laicale di chierici reo confessi di delitti molto gravi fosse anche un grazia concessa pro bono Ecclesiae. Per lo stesso motivo, in alcuni casi particolarmente gravi, la Congregazione non esitò di chiedere dal Sommo Pontefice il decreto di dimissione ex officio dallo stato clericale nei confronti di chierici che si erano macchiati di crimini abominevoli. Questi adeguamenti successivi sono raccolti adesso nelle Norme sui delicta graviora pubblicate dalla Congregazione nello scorso mese di luglio.

V’è anche, però, una seconda iniziativa dell’attuale Pontefice molto meno nota, alla quale vorrei pure accennare brevemente, poiché ha certo contribuito a modificare il panorama dell’applicazione del Diritto penale nella Chiesa.

Si tratta del suo intervento, come Membro della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, nella preparazione delle facoltà speciali concesse a tale Congregazione per far fronte, in via anche di doverosa “supplenza”, ad altro genere di problemi disciplinari nei luoghi di missione.

Non è difficile capire, infatti, come, a causa della scarsità di mezzi d’ogni tipo, gli ostacoli per attuare il sistema penale del Codice si facessero sentire in maniera particolare nelle circoscrizioni di missione, dipendenti dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, che, grosso modo, rappresentano quasi la metà dell’Orbe cattolico.

Perciò, nell’Adunanza Plenaria del febbraio 1997, questa Congregazione decise di sollecitare dal Santo Padre “facoltà speciali” che le permettessero di poter intervenire per via amministrativa, in determinate situazioni penali, al margine delle disposizioni generali del Codice; di quella Plenaria era Relatore l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Come si sa, queste “facoltà” sono state aggiornate e ampliate nel 2008, e altre di natura analoga, e con analoghe modalità, sono state in seguito concesse alla Congregazione per il Clero.

Non pare necessario aggiungere altro. In appropriate sedi sono stati già pubblicati studi che illustrano sufficientemente le variazioni prodottesi nel diritto penale della Chiesa con tutte queste iniziative. L’esperienza dirà in quale misura le modifiche che s’intende adesso apportare al Libro VI, valorizzando anche tali nuove facoltà, riusciranno a riequilibrare la situazione. Ora, però, mi premeva soprattutto evidenziare il ruolo determinante giocato, in questo processo più che ventennale di rinnovamento della disciplina penale, dalla decisa azione dell’attuale Pontefice, fino a rappresentare invero – assieme a tante altre iniziative concrete – una delle “costanti” che ha caratterizzato l’azione di Joseph Ratzinger.

© Copyright La Civiltà Cattolica, 4 dicembre 2010

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