La ricca collezione scientifica di monsignor Giulio Cicioni il naturalista di Papa Pecci
Orsi e gazzelle nello zoo di Leone XIII
Isabella Farinelli
«Solo non si vedono i due liocorni»; forse si aspettavano di veder comparire anche quelli — come nell’arca di Noè musicata da Roberto Grotti — le scolaresche che fino a pochi anni fa visitavano, al primo piano della residenza vescovile perugina, il Museo di Storia naturale di monsignor Giulio Cicioni, insegnante nel locale seminario dalla seconda metà dell’Ottocento, quando Papa Leone XIII era ancora il vescovo Gioacchino Pecci. L’originale artefice e primo curatore della raccolta, nato a Cerqueto — tra Marsciano e Perugia — nel 1844, si dilettò sin da ragazzo, anche prima di entrare in seminario, a raccogliere e conservare in modo sistematico fiori, piante e piccole collezioni di animali, specialmente insetti. Non sappiamo quanto, all’inizio, don Giulio fosse consapevole di condividere un entusiasmo naturalistico diffuso in tutta Europa, con risvolti letterari e artistici, filosofici e scientifici, non necessariamente in contrasto o in alternativa; basti pensare al suo quasi contemporaneo, l’agostiniano Gregor Johann Mendel — morto a Brünn in Moravia nel 1884 — infaticabile ricercatore in parte incompreso dai contemporanei, al quale la regista Liana Marabini ha recentemente dedicato un pensoso e delicato film (The Gardener of God), sinora non apparso nelle sale italiane.
Se nel film Pio IX rassicura Mendel (Christopher Lambert) sull’armonia tra fede e scienza, senz’altro non sfuggì la peculiare vocazione di Giulio Cicioni al futuro Leone XIII, che persino nella poesia, come nella pastorale, manifestò costante interesse per l’evoluzione del pensiero scientifico e della tecnologia, specie nel campo della comunicazione — dall’ars photographica al fonografo — tanto da imprimere una svolta sin da vescovo alla formazione dei futuri preti. Ordinato nel 1867 da Pecci, del quale diverrà segretario prima di essere inviato in una parrocchia di campagna, don Cicioni inizia quasi in contemporanea, partendo dalla «scuola di aritmetica», l’insegnamento delle materie scientifiche in seminario, dove trasporterà la sua nutrita collezione di esemplari per servirsene a scopo didattico. Nel 1886 si poteva già parlare di un erbario, nel quale — secondo «Il Paese», il giornale voluto dieci anni prima da Pecci — erano rappresentate quasi tutte le famiglie della flora italiana. Né si arrestò qui la passione dell’enfant terrible. «A furia di perseguitare — parola del suo allievo Pietro Pizzoni — suore e missionari dell’America, dell’Asia e dell’Africa, a furia di cambi coi principali botanici, si procurò esemplari di vegetali da tutto il mondo; ed accanto al magnifico erbario locale ne formò un altro mondiale».
Nel frattempo si formano raccolte di fossili, minerali e reperti faunistici, questi ultimi con un insperato arricchimento nel 1888, dopo il solenne Giubileo sacerdotale di Leone XIII. In quella occasione, il mondo intero aveva fatto convergere intorno al Papa una collezione di doni, reperti e manufatti altamente rappresentativi che era andata a costituire una vera Esposizione universale, ospitata in Vaticano non senza qualche difficoltà di spazio. Particolarmente cara al Santo Padre la galleria, organizzata dal meteorologo e astronomo barnabita Francesco Denza — poi chiamato a dirigere la Specola Vaticana — degli strumenti scientifici progettati da membri del clero italiano, tra cui i sismografi di Filippo Cecchi e di Ignazio Galli, il tromometro di Timoteo Bertelli (cui aveva collaborato il geofisico Michele Stefano de Rossi) e l’anemoietografo dello stesso Denza.
A parte i non pochi esemplari viventi, portati subito nei Giardini Vaticani — come la gazzella proveniente da un’oasi sahariana al cui collo era stata posta una placca d’argento con un distico del cardinale Charles Martial Allemand Lavigerie, arcivescovo di Algeri e di Cartagine, Qui saevos fugio mea per deserta leones / Hic me pacifero fidentem trado Leoni — alla conclusione dell’evento corse voce che il Papa intendesse cedere il copioso materiale d’interesse scientifico e naturalistico a istituti romani. Cicioni accorse e implorò il Papa di provvedere anche a quello che stava diventando un museo perugino di storia naturale. Il Pontefice acconsentì volentieri e don Giulio, si narra, preparò con le proprie mani le casse e ne curò la spedizione a Perugia. Da qui, nel settembre 1888, si recò a Firenze, invitato come relatore, al primo convegno della Società botanica italiana, che proprio in quell’anno si stava riorganizzando, e di cui Cicioni fu poi sempre membro attivissimo e ascoltato, a giudicare dai «Bollettini». Nell’agosto 1893, il suo «gabinetto scientifico del Seminario» fu decisivo a far eleggere Perugia come sede del Congresso botanico di quell’anno, seguito a quello internazionale tenutosi a Genova l’anno precedente. La competenza acquisita gli valse, nel 1896, il diploma di socio effettivo dell’Accademia dei Lincei.
Dal materiale raccolto tra i monti umbri «armato della sua vanghetta e della sua marra» a quello scambiato con la comunità scientifica — da Théodore Caruel a Giovanni Arcangeli, da Pietro Romualdo Pirotta a Emilio Chiovenda — sino ai reperti inviati da Papa Leone anche dopo l’Esposizione Vaticana (tuttora siglati E.V.), quale valore vi annettesse don Giulio fu chiaro quando, ottantenne, ne offrì simbolicamente alcuni esemplari, al posto degli abituali versi d’occasione, all’ingresso in Perugia del figlio spirituale di san Pio X, il vescovo Giovanni Battista Rosa: il quale tuttavia vi colse «la poesia più bella e più fresca». La simbiosi tra conoscenza e amore — evocata anche da Giovanni Paolo II nel primo centenario della morte di Mendel — non sarebbe sfuggita, decenni dopo, agli occhi dei visitatori d’ogni età, sia quando sfilavano dalla labradorite alla lazurite con oro, sia quando si arrestavano davanti all’imponente ursus maritimus donato a Leone XIII da Oscar ii, il re di Svezia e di Norvegia appassionato a sua volta di scienze e arti. «Il Paese» segnala il sostegno del sovrano alle missioni di esplorazione artica e narra la sua visita al Santo Padre, nell’aprile 1888, preceduta da una lunga sosta tra le gallerie dell’Esposizione. Ma don Cicioni, che per tutta la vita preferì raccogliere esemplari per sottoporli all’autorità degli accademici prima che alla propria, gradiva ogni contributo: anche da un qualsiasi «don Leone» e da altri parroci di campagna, che molto incrementarono il salone ornitologico.
Colto da malore mentre faceva lezione di mineralogia, don Giulio morì nel 1923, lasciando alla diocesi e al seminario il museo nel quale dichiarava di aver racchiuso «tutto il suo cuore» — insieme a una raccolta di circa 15.000 esemplari rappresentativi di oltre 7.000 specie botaniche e a migliaia di campioni tra minerali, rocce, fossili, animali e materiali etnografici provenienti dall’intero pianeta. Una prima classificazione toccò al suo successore in seminario, don Aurelio Bonaca, all’apertura ufficiale al pubblico nel 1926, avvenuta con l’intervento delle civiche istituzioni e per volere del vescovo Giovanni Battista Rosa e del vicario generale Beniamino Ubaldi (poi vescovo di Gubbio). Nel 1992 il materiale fu riclassificato secondo criteri correnti e valutato come un campionario di biodiversità tra i maggiori in Italia. Oggi l’intero patrimonio naturalistico, di proprietà del Seminario perugino, è affidato al Centro di Ateneo per i Musei Scientifici (Cams) e in parte riallestito nella Galleria di storia naturale di Casalina; qui la vasta e articolata collezione di Giulio Cicioni è stata abbinata a quella di Orazio Antinori, naturalista e appassionato viaggiatore (1811-1882).
(©L'Osservatore Romano 31 agosto 2011)
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