Laurea honoris causa al presidente del Pontificio Consiglio della Cultura dall'università di Bucarest
Cioran e Ionesco nel Cortile dei Gentili
Pubblichiamo il testo della lectio magistralis che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ha tenuto l'11 ottobre in occasione del conferimento di una laurea honoris causa da parte dell'università di Bucarest.
di GIANFRANCO RAVASI
Era denominato Cortile dei Gentili. Si trattava di uno spazio simbolico del Tempio di Gerusalemme, destinato ad ospitare i pagani, le gentes, i popoli esterni a Israele. Sulla scia di un'indicazione di Benedetto XVI, il Pontificio Consiglio della Cultura ha voluto - sotto questo stesso titolo - ricreare un ambito di dialogo serio e approfondito tra credenti e atei, desiderosi di confrontarsi tra loro sui grandi temi dell'essere e dell'esistere e sul mistero stesso di Dio.
Al suo interno vogliamo idealmente collocare due figure emblematiche originarie della Romania, scelte sul versante della non credenza aperta e sensibile alle domande spirituali. Il primo personaggio è lo scrittore Emil Cioran (1911-1995). "Io sono uno straniero per la polizia, per Dio, per me stesso": forse è questa la più lapidaria e folgorante carta d'identità di Emil Cioran, nato l'8 aprile 1911 a Rasinari, nella Transilvania rumena. Come è noto, questo inclassificabile scrittore-pensatore nel 1937, a 26 anni, migrò a Parigi, ove condusse il resto della sua vita fino alla morte avvenuta nel 1995. Straniero, quindi, per la sua patria d'origine, che aveva cancellato dalla sua anagrafe personale, abbandonandone anche la lingua. Straniero per la nazione che l'aveva ospitato, a causa del suo costante isolazionismo: "Sopprimevo dal mio vocabolario una parola dopo l'altra. Finito il massacro, una sola rimase come superstite: Solitudine. Mi risvegliai appagato". Straniero, infine, per Dio, lui che era figlio di un prete ortodosso. Talmente straniero da iscriversi alla "razza degli atei", eppure con un'insonne ansia di inseguimento nei confronti del mistero divino: "Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore: incapace di invocarlo, l'ho spiato". È per questa ragione che di lui vorrei brevemente parlare, senza pretese di travalicare il mio perimetro di teologo sconfinando nell'analisi di critica letteraria che altri faranno in questo centenario. Cioran, infatti, si è appostato a più riprese per tendere agguati a Dio costringendolo a reagire e quindi a svelarsi.
Emblematico è il dialogo che a distanza intavolò col teologo Petre Tutea. Costui non aveva abbandonato la sua terra, nonostante tredici anni trascorsi nelle prigioni di Ceausescu, né tanto meno la sua fede, a tal punto da replicare a Cioran così: "Senza Dio l'uomo rimane un povero animale, razionale e parlante, che non viene da nessuna parte, e va non si sa dove". In realtà, il suo interlocutore non era strettamente ateo né agnostico, tant'è vero che era giunto al punto di suggerire ai teologi una sua particolare via "estetica" per dimostrare l'esistenza di Dio. Scriveva, infatti, in Lacrime e santi: "Quando voi ascoltate Bach vedete nascere Dio (...) Dopo un oratorio, una cantata o una "Passione", Dio "deve" esistere (...) Pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell'esistenza di Dio, dimenticando la sola!".
Cioran accusa l'Occidente di un delitto estremo, quello dell'aver estenuata e disseccata la potenza generatrice del Vangelo: "Consumato fino all'osso, il cristianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare intelligenze e amori". Questo Qohelet-Ecclesiaste moderno si trasforma, allora, in una sorta di "mistico del Nulla", lasciando intravedere il brivido delle "notti dell'anima" di certi grandi mistici come Giovanni della Croce o Angelo Silesio, risalendo fino allo sconcertante cantore del nesso Dio-Nulla, il celebre Meister Eckhart medievale. "Ero ancora un bambino, quando conobbi per la prima volta il sentimento del nulla, in seguito a un'illuminazione che non riuscirei a definire". Un'epifania di luce oscura, potremmo dire con un ossimoro usato dal Giobbe biblico.
"Si ha sempre qualcuno sopra di sé - continuava - al di là di Dio stesso si eleva il Nulla". Ma ecco il paradosso: "Il campo visivo del cuore è: il mondo, più Dio, più il Nulla. Cioè tutto". E allora questa è la sua conclusione: "E se l'esistenza fosse per noi un esilio e il Nulla una patria?". Il Nulla - sempre per ossimoro - diventa il nome di un Dio, certamente ben diverso dal Dio cristiano, eppure come lui pronto a raccogliere il male di vivere dell'umanità. Scriveva Cioran, evocando la "psicostasia" dell'antico Egitto, ossia la pesatura delle anime dei defunti per la verifica della gravità delle loro colpe: "Nel giorno del giudizio verranno pesate solo le lacrime". Nel tempo della disperazione, infatti, certe bestemmie - dichiarava Cioran, sulla scia di Giobbe - sono "preghiere negative", la cui virulenza è accolta da Dio più della compassata lode teologica (l'idea era già stata formulata da Lutero).
Cioran è, quindi, un ateo-credente sui generis. Il suo pessimismo, anzi, il suo negazionismo riguarda piuttosto l'umanità: "Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c'è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare a picco!". E qui il Nulla diventa il mero nulla, un vuoto annientamento: adorare la terra e dirsi che proprio essa è il termine e la speranza dei nostri affanni, e che sarebbe vano cercare qualcosa di meglio per riposarsi e dissolversi". L'uomo ti fa perdere ogni fede, è una sorta di dimostrazione della non esistenza di Dio ed è in questa luce che si spiega il pessimismo radicale di Cioran che brilla già nei titoli delle sue opere: L'inconveniente di essere nati, La tentazione di esistere, Sulle cime della disperazione, Squartamento, Sillogismi dell'amarezza e così via. E qualche volta è difficile dargli torto, guardando non solo la storia dell'umanità, ma anche il vuoto di tanti individui che non ha niente del tragico Nulla trascendente: "Di molte persone si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice". Ma per fortuna - ed è questa la grande contraddizione - esiste, come si diceva, anche Bach.
L'altra figura originaria della Romania che conduciamo idealmente all'interno del Cortile dei Gentili è il grande drammaturgo Eugène Ionesco, amico di Cioran, nato da padre rumeno e madre francese a Slatina (centocinquanta chilometri da Bucarest) nel 1909 e anch'egli migrato a Parigi ove visse fino alla morte avvenuta il 28 marzo 1994, con le esequie celebrate secondo il rito ortodosso nel quale era stato battezzato. Un giorno, scherzando ma non troppo, durante un'intervista egli aveva dichiarato: "Mi precipito al telefono ogni volta che suona, nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona. O almeno uno dei suoi angeli di segreteria". Ma in quella stessa intervista aveva confessato: "Quello che mi annoia più della vecchiaia e della sofferenza è la noia stessa". Il suo agnosticismo era severo, eppure era incrinato dall'amore per i mistici spagnoli, fiamminghi e tedeschi. Ancora Besançon ricordava che la sua biblioteca assomigliava più a quella di un filosofo o un teologo che non di un letterato.
Nel suo diario non si vergognava di annotare queste righe: "Dico a me stesso: Non temere, povero piccino (...) Leggi il Libro, leggi il Libro, istruisciti sino all'ultimo respiro. Sei ignorante". E il Libro per eccellenza - per lui che era stato seminarista a Bucarest, che aveva avuto tra gli amici più intimi il grande storico delle religioni e suo connazionale esule anch'egli a Parigi, Mircea Eliade, per lui che aveva legami stretti col domenicano padre Ambroise-Marie Carré, suo collega nell'Académie de France - era la Bibbia. Certo, lo sguardo che egli aveva gettato sulla realtà era sconfortante, tant'è vero che era stato etichettato come esponente del teatro dell'assurdo, nella linea di Samuel Beckett, altro celebre drammaturgo a lui contemporaneo.
In realtà egli voleva bollare senza pietà e con ironia ("dove non c'è umorismo - scriveva nel 1962 in Note e contronote - non c'è umanità, c'è il campo di concentramento") la società borghese moderna, senza ideali, alimentata a forza di luoghi comuni, stancamente ripetitiva e alla fine vacua e fatua. Emblematico è il suo capolavoro, l'anticommedia in undici scene, del 1950 intitolata in modo stralunato Cantatrice calva. Proviamo a riassumerla, a partire dal suo interno piccolo-borghese inglese. I coniugi Smith conversano con frasi analoghe alle banalità che si leggono nei manuali per imparare una lingua straniera. Giungono in visita i coniugi Martin che si siedono frontalmente agli Smith come estranei, pronti però a riconoscersi attraverso le varie battute che si scambiano, del tipo: "Prendete un circolo, accarezzatelo, diventerà vizioso".
All'improvviso entra un pompiere che è alla ricerca di un incendio da domare, che non riesce però a trovare... Prosegue la conversazione delle due coppie in un crescendo di stereotipi ma anche di aggressività sino a giungere all'emissione di frasi insensate, di suoni strozzati che contengono solo consonanti e vocali frammentarie. Improvvisamente si spengono le luci che, poco dopo, si riaccendono. Ed ecco di nuovo le due coppie in posizioni invertite che riprendono il loro dialogo fatto di frasi demenziali. Cala il sipario. È facile intuire più che l'assurdo, il non senso che regge i colloqui di tanta gente: basta solo raccogliere gli echi dei discorsi al cellulare in treno o della strascicata conversazione (si fa per dire) di certi branchi di giovani. Si può capire come Ionesco, sotto il velo della comicità e del sarcasmo, provi una profonda amarezza: "Il comico - scriveva ancora in Note e contronote - essendo l'intuizione dell'assurdo, mi sembra più disperante del tragico".
Ed è per questo che per reazione egli alzava lo sguardo verso le vette della mistica o del trascendente. Egli non cercava solo di combattere o di demolire la stupidità, come affermava in un'altra sua opera nota, La lezione (1951): "Non basta integrare. Bisogna disintegrare. Questo è la vita, la filosofia, la scienza". Ionesco ha voluto anche implicitamente tentare a suo modo una via di salvezza per quel "piccolo borghese che ha dimenticato l'archetipo per perdersi nello stereotipo", per usare un'altra sua affermazione. Egli ritorna alla parola, consapevole della sua potenza: "O parole, quanti delitti si commettono in vostro nome!", fa dire a un personaggio di Giacomo o della sottomissione (1955). Ma rimane sempre deluso degli esiti persino della ragione idolatrata, come scriverà nel suo Diario in briciole (1967): "La Ragione è la follia del più forte, ma anche la ragione del meno forte è follia".
Alla base di questo pessimismo c'è lo stupore di una persona ferita dall'imperio della stupidità, del male, della cattiveria, dell'umiliazione dei piccoli e degli innocenti, della menzogna comunista dominante nel suo paese. Ed è proprio da questa temperie morale che fiorisce il suo anelito verso il mistero, la sua inquietudine spirituale, la sua ricerca del Dio nascosto che non telefona mai alla sua creatura che pure è in angosciosa attesa di un suo squillo. L'ultima riga del suo diario è, però, folgorante: "Pregare Non So Chi. Spero: Gesù Cristo". Proprio per questo è importante anche per noi credenti seguire i percorsi di simili ricerche condotti da persone non credenti ma col viso rivolto verso l'infinito e l'eterno.
Il loro impegno è sincero e, a differenza di certi atei devoti, non ha connotazioni di altro genere, insalivate con altri sapori di tono politico o sociale. Come riconosceva uno scrittore cattolico francese, Pierre Reverdy, "ci sono atei di un'asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto di più di certi credenti frivoli e leggeri". Proprio per questo ritengo che il Cortile dei Gentili, voluto da Benedetto XVI, sia un'esperienza culturale e pastorale significativa. Anche quell'immagine del "cortile", a prima vista un po' imbarazzante, mi sembra suggestiva. Non si entra negli spazi custoditi del Palazzo, ove ha sede il potere laico e si svolge la vita sociale e politica; non si penetra neppure nel Tempio coi suoi riti, il suo linguaggio, la sua atmosfera ieratica. Ci si ritrova, invece, insieme nello spazio libero della piazza ove corrono i venti dello Spirito ma anche quelli delle parole umane, delle proteste, persino delle bestemmie. Là si sono incrociate in passato le spade dei duelli non sempre metaforici tra fede e ateismo; ora s'incontrano pensieri e voci che cercano con cuore libero di rendere ragione dei propri dubbi, delle proprie speranze e - perché no? - delle proprie certezze.
(©L'Osservatore Romano 12 ottobre 2011)
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3 commenti:
Probabilmente questo post rivelerà la scarsa simpatia che nutro per il card. Ravasi. Ma tant'è.
Ionesco (e mi sarebbe piaciuto che Ravasi lo ricordasse) partecipò per due volte, da vivo, a quel Cortile dei Gentili ante litteram che è il Meeting di Rimini, al quale anche Benedetto XVI ha partecipato per due volte, da cardinale.
Ionesco intervenne nel 1987 e nel 1988 (la seconda volta in occasione dell'uscita della sua pièce su Massimiliano Kolbe che, al Meeting venne anche rappresentata come, qualche anno dopo, il suo "il Re muore"). Nel 1994, l'anno della morte, il Meeting gli dedicò un incontro per ricordarlo.
Non si tratta di vantare primogeniture ma sarebbe bello che i nostri pastori avessero uno sguardo più ampio su tutta la realtà della Chiesa e, nel caso, sapessero valorizzarla.
Post Scriptum
Sorvolo, per misericordia, sulla frecciata a "certi atei devoti" (del tutto inopportuna nel tono dell'articolo). Voglio sperare che non volesse alludere a Marcello Pera e a Giuliano Ferrara, due limpidi e franchi estimatori di Benedetto XVI.
Mah!
Jacu
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