lunedì 3 ottobre 2011

Il potere dei segni. Un’antologia di omelie di Joseph Ratzinger e di Benedetto XVI (Ravasi)

Un’antologia di omelie di Joseph Ratzinger e di Benedetto XVI

Il potere dei segni

Gianfranco Ravasi

Del libro, a cura di padre Leonardo Sapienza, Il potere dei segni (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pagine 299, euro 12) che — nella ricorrenza del sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Santo Padre — raccoglie omelie pronunciate fra il 1978 e il 2011 da Joseph Ratzinger e da Benedetto XVI, pubblichiamo stralci della prefazione, scritta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

Nell’ambito liturgico i segni acquistano una loro specifica potenza di significato. È, perciò, felice il titolo che è stato imposto a questa raccolta, Il potere dei segni. È ben nota la locuzione «i segni del potere»: ebbene — come affermava una figura di intensa spiritualità, monsignor Tonino Bello (1935-1993) che fu vescovo di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi dal 1982 fino alla morte — «dai segni del potere noi dobbiamo passare al potere dei segni», perché «non abbiamo più i segni del potere ma c’è rimasto il potere dei segni». Un po’ come diceva san Pietro allo storpio della Porta Bella del tempio di Gerusalemme: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!» (Atti, 3, 6).
Quello del sacerdote, ricorda Papa Benedetto XVI, è «il potere del perdono» che vince il potere del male. Suggestivo è l’episodio bellico da lui narrato, della richiesta di confessione di un religioso non cattolico rivolta a un sacerdote: «Non voglio essere confortato, bensì assolto». Certo, anche il presbitero sente il fascino dei segni del potere e il Pontefice evoca la sottile tentazione di «chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo, restando sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire ciò che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni». Non è questa la vera «potestas sacra che il sacramento dell’Ordine conferisce ai presbiteri». Non è con l’argento e l’oro o il successo sociale che si compie la missione di salvezza.
Ecco, allora, nelle parole del Papa una lunga lettura interpretativa dei vari segni che reggono la liturgia irradiandola di intelligibilità e sostanziandola con la loro efficacia. Da questa vera e propria grammatica dei segni sacramentali che si intesse nelle pagine che seguiranno, noi vorremmo ora estrarre una sequenza essenziale. Essa si compone di un ideale pentagramma simbolico che verrà poi presentato dalle varie omelie in tutte le sue iridescenze tematiche. Iniziamo col «gesto antichissimo dell’imposizione delle mani». Questa parte fondamentale dell’organismo umano è segno della nostra capacità di agire, di donare, di comunicare. Anche il canone eucaristico evoca le «mani sante e venerabili» di Cristo. Ebbene — afferma Benedetto XVI — con l’imposizione delle mani sul sacerdote «Dio prende possesso di me dicendomi: Tu m’appartieni. Tu stai sotto la protezione delle mie mani... Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue».
E continua: «L’imposizione delle mani esprime plasticamente la modalità dell’incontro tra la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo: la Chiesa, impersonata dal vescovo in piedi con le mani protese, prega lo Spirito Santo di consacrare il candidato; costui, in ginocchio, riceve l’imposizione delle mani e si affida a tale mediazione».
Giungiamo, così, quasi per contrasto, al secondo simbolo, quello dei piedi che è legato a un atto di grande intensità comunicativa, la lavanda che Cristo compie l’ultima sera della sua vita terrena nei confronti dei suoi discepoli. Illuminante è il commento del Santo Padre: «Gesù depone le vesti della sua gloria divina e indossa le vesti dello schiavo... Si inginocchia davanti a noi e ci rende il servizio dello schiavo; lava i nostri piedi sporchi, affinché noi diventiamo ammissibili alla mensa di Dio, affinché diventiamo degni di prendere posto alla sua tavola». L’applicazione s’allarga anche alla dimensione morale: «Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta e alterata. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene».
Le vesti sacerdotali sono il terzo segno, per altro ampiamente evocato dalla tradizione biblica. Cristo si spogliò del privilegio della sua condizione divina per assumere lo statuto di servo (cfr. Filippesi, 2, 6-7), così che «quanti sono battezzati in Cristo siano rivestiti di Cristo» (Galati, 3, 27). Benedetto XVI nel simbolo della veste intravede l’intera parabola dell’incarnazione e della redenzione: «Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi vestiti».
Il quarto segno è l’olio, nella triplice tipologia liturgica di olio dei catecumeni, di crisma e di olio dell’unzione degli infermi. Ben quattro sacramenti s’affidano a quel segno: il battesimo, la cresima, l’unzione dei malati, l’ordine. Triplice è pure la gamma dei valori simbolici: la pace (l’ulivo), la fortezza (gli atleti), la gioia (Salmo, 45, 8). L’olio è, però, soprattutto emblema di consacrazione, cioè di destinazione radicale della creatura a Dio, tant’è vero che l’ebraico «Messia» e il greco «Cristo» significano appunto «Consacrato». È per questo che «essere consacrati» è sinonimo di «essere sacrificati», cioè di essere fatti sacri attraverso una donazione totale come quella di Gesù che nella celebre «preghiera sacerdotale» afferma: «Per loro io consacro me stesso, perché anch’essi siano consacrati nella verità» (Giovanni, 17, 19). E la «verità», nel linguaggio giovanneo, è la Parola di Cristo nella quale il discepolo si immerge «consacrandosi» in pienezza.
È così che entra in scena il quinto e ultimo segno, capitale nella liturgia e nella vita cristiana e sacerdotale, il pane e il vino dell’Eucaristia. Non per nulla una delle ideali colonne portanti della Chiesa-madre di Gerusalemme secondo Luca è proprio l’essere «perseveranti nello spezzare il pane» (Atti, 2, 42), perché «la Chiesa vive dell’Eucaristia».
Nel largo spazio riservato da Benedetto XVI all’Eucaristia vorremmo far emergere anche una fine applicazione esistenziale e spirituale, legata al segno del vino: «Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici».

(©L'Osservatore Romano 3-4 ottobre 2011)

1 commento:

sonny ha detto...

Vado maldestramente O.T, ma ti volevo segnalare l'ennesima puntata della fiction " I corvi e le rane dalla bocca larga":

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=7448