L’ultima sinfonia di Anton Bruckner offerta dalla Bayerische Staatsoper a Benedetto XVI
Lampi metafisici di un’incompiuta d’autore
Sabato 22 ottobre presso l’Aula Paolo VI la Bayerische Staatsoper offre a Benedetto XVI un concerto diretto da Kent Nagano con in programma la Nona sinfonia e il Te Deum di Anton Bruckner. I solisti saranno Eri Nakamura, soprano, Okka von der Damerau, contralto, Kevin Conners, tenore, e Steven Humes, basso. Oltre alla Bayerisches Staatsorchester sarà presente la Audi Jugendchorakademie, diretta da Martin Steidler. Pubblichiamo un estratto dal programma di sala.
di Sergio Sablich
La Nona è l’ultima Sinfonia composta da Anton Bruckner: neppure a lui, che per tutta la vita scrisse quasi soltanto Sinfonie, fu consentito di oltrepassare la soglia fatale del numero nove, colonna d’Ercole fissata dal titano Beethoven. Essa rimase per di più incompiuta, mancante cioè del quarto movimento, sicché di un vero e proprio torso si tratta: un torso non meno che sublimemente monumentale, ma privo appunto di una conclusione che ne certifichi la compiutezza. La questione è stata ampiamente dibattuta, e lo è tuttora.
L’opera non venne portata a termine per una circostanza accidentale, ossia la sopravvenuta morte dell’autore, o rimase incompiuta perché dopo il terzo tempo, sorta di struggente congedo dal mondo, questa sinfonia non poteva essere compiuta o era addirittura, similmente a un’altra celebre Incompiuta (la sinfonia in si minore di Franz Schubert), già segretamente compiuta in questa forma?
Neppure la cronologia ci aiuta a districare il mistero. Bruckner compose i primi tre tempi della Nona tra il 1891 e il 1894, su abbozzi risalenti al 1887. Abbozzi per il finale, la cui consistenza è largamente lacunosa se non approssimativa, sono databili dal 1894 al 1896, anno della morte. Teoricamente, anche considerando la lentezza con cui Bruckner componeva, non sarebbe mancato il tempo per dare una conclusione alla sinfonia, ed è certo che l’autore vi pensasse. Di fatto, non lo fece, o non visse abbastanza a lungo per farlo.
Non è l’unico mistero che aleggia su questa partitura di uno spirito tanto apparentemente limpido quanto non avaro di enigmi. Per esempio la dedica, insieme candida e fervida, che l’accompagna, Dem lieben Gott («Al buon Dio»), che segue dappresso quella dell’Ottava Sinfonia all’imperatore Francesco Giuseppe, suo ottimo protettore in vita. Forse che Bruckner pensava di consegnare questo frutto maturo della sua arte, soprattutto se sentito come estremo, al protettore celeste, da lui credente venerato, nel segno di una trascendenza ultraterrena? È la tesi sostenuta dal nostro maggiore studioso bruckneriano Sergio Martinotti, il quale, rilevando nell’opera lo statuto di grandezza — un’altezza di pensiero non meno che di tono — afferma che Bruckner «avvertì che la Nona Sinfonia sarebbe stata la sua ultima: perciò, nel segno dei modelli di Beethoven e di Schubert, la volle grande, a coronamento di tutta la sua carriera musicale, ove la lentezza compositiva, accentuata dal declino fisico, e la dedizione esclusiva a questo lavoro, riflettono chiaramente quella volontà determinata»: come se il «buon Dio» fosse diventato ora l’unico, vero interlocutore a cui rivolgersi. Nell’altezza di pensiero si riconosce l’orgoglio di un musicista passato attraverso le vicende della vita con innocente ottimismo, quasi indifferente alla storia e al tempo, e con una forte componente di libertà.
Su questa scia, ma da una prospettiva più laica, un altro studioso, Quirino Principe, rileva nell’atemporalità che si manifesta sempre più nella musica bruckneriana il tratto principale e luminoso della Nona Sinfonia: ma forse, aggiunge, «il senso di attesa, assolutamente ininterrotto dalla prima all’ultima nota di questo monumento sinfonico, non è soltanto il mondano elemento di una sorta di romanzo o di poema in musica, con i suoi profumi notturni; è anche l’attesa dell’altrove e quindi (per Bruckner non c’era dubbio) dell’aldilà, sicché l’ascesa della Nona, nei suoi colori e nelle sue linee verticali, verso l’azzurro cupo di un cielo notturno, è un’ascesa inumidita di rugiada mistico-romantica. Al di sopra di tutto, un senso di calmo e vellutato ordine, di liscia tranquillità che fluisce in grandi superfici cerulee». Anche questa ipotesi, assai affascinante, anela a una certezza, ma non la possiede.
Certo è invece che l’arco sotteso alla sinfonia è anche concettualmente di massime proporzioni e ambizioni, nonché basato su un materiale tematico omogeneo. Partendo da questo tutto viene dilatato fino all’estenuazione, in una dimensione quasi illimitata, sì da creare un flusso ininterrotto, incalzante e travolgente, attraversato da lampi metafisici nei passaggi di raccordo tra tema e tema.
Alcuni stilemi tipici del sinfonismo bruckneriano, nell’armonia, nei rapporti intervallari, nelle figurazioni ritmiche, sono immessi in un contesto come poche altre volte arioso e aerato. La Nona non si sottrasse al destino di altre sinfonie di Bruckner. Scomparso l’autore, l’amico Ferdinand Löwe rimaneggiò profondamente e molto arbitrariamente la partitura dei tre tempi e presentò la sinfonia nella propria versione a Vienna l’11 febbraio 1903. Dovevano passare quasi trent’anni prima che la versione originale della Nona fosse conosciuta al pubblico.
Il 2 aprile 1932 Siegmund von Hausegger eseguì a Monaco contemporaneamente le due versioni, quella discutibilissima di Löwe e quella originale di Bruckner, affinché il pubblico ne rilevasse le differenze e giudicasse. Da quando l’attività della Internationale Bruckner-Gesellschaft costituitasi a Vienna ha fornito la nuova edizione critica dell’opera omnia di Bruckner, nessun ostacolo si frappone più alla restituzione, ormai ovviamente consolidata nelle esecuzioni, della lezione originale approntata per la Nona da Leopold Nowak nel 1951. Resta aperto il problema del finale, per il quale la tradizione vuole che Anton Bruckner prima di morire raccomandasse che dovesse essere rimpiazzato dall’esecuzione del suo Te Deum in calce ai tre movimenti compiuti. In tempi più recenti musicologi e studiosi hanno provato a venire a capo di questo problema cercando di ricostruire integralmente il finale sulla base degli schizzi rimasti.
Il più accreditato di questi tentativi si deve a due italiani, Nicola Samale e Giuseppe Mazzuca, che nel 1986 presentarono in prima mondiale il loro lavoro, incontrando un certo favore, ma non tale da farlo entrare stabilmente nel repertorio. Si tratta, come si è detto, di una questione irrisolvibile. Ha dunque ragione Nikolaus Harnoncourt quando afferma che ciò che possiamo al massimo ottenere è di far conoscere al pubblico il Finale nella sua reale lacunosità di documento, com’egli stesso ha fatto dirigendo i Wiener Philharmoniker prima in una lezione-concerto a Salisburgo nel 2002 e poi in una pregevolissima incisione discografica, senza pretendere di completarlo: ciò che manca semplicemente non va eseguito. È forse questo il destino ultimo di una Sinfonia che reca in sé enigmaticamente il carattere di un sublime torso e di un’opera in sé compiuta: la sua indecifrabilità è segno augusto, eterno della sua forza.
(©L'Osservatore Romano 22 ottobre 2011)
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