sabato 23 luglio 2011

Lucio Brunelli, vaticanista del Tg2, racconta come è cambiato il giornalismo cattolico e il modo di diffondere il messaggio evangelico (Angela Altomare)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo questa bella intervista:

Il vaticanista del Tg2 racconta come è cambiato il giornalismo cattolico e il modo di diffondere il messaggio evangelico.

Angela Altomare

Si occupa da molti anni dei principali fatti e avvenimenti internazionali che vedono protagonista la Chiesa, il Papa e la Santa Sede. Lucio Brunelli, vaticanista del Tg2, ha seguito e raccontato attraverso le immagini e le parole i numerosi viaggi apostolici in Italia e all’estero di Benedetto XVI e del suo predecessore Giovanni Paolo II. Ha firmato numerosi documentari e reportage per la rubrica Tg2dossier tra i quali La fabbrica dei santi, I segreti di Padre Pio, Paradossi siriani, Un sogno chiamato Yemen. Inizia la sua esperienza come giornalista professionista con il mensile internazionale 30Giorni. Successivamente ha scritto e collaborato con diversi settimanali, fra cui Il Sabato, L’Europeo, Il Mondo ed Epoca. Prima di esser assunto al Tg2 ha curato un programma su Radio Rai dal titolo “Momenti di Pace “ nel quale commentava in diretta l’Angelus del Papa.

Com'è nata la sua passione per il giornalismo?

Da ragazzo, era il 1968, sognavo di fare il sindacalista o il giornalista. Mestieri 'impegnati', come si diceva allora.. C'era molta ideologia e molto utopismo ma anche un briciolo sincero di passione per la verità. Scoprii presto che i comizi non erano per me, troppo timido, non avevo l'oratoria giusta. Restava il giornalismo. A differenza di tanti altri giovani magari potenzialmente più bravi di me, ebbi la fortuna di poter intraprendere questo mestiere che mi fa arrabbiare tutti i giorni (perché il degrado dell'informazione è sotto gli occhi di tutti), ma che non cambierei con nessun altro al mondo.

Un aneddoto curioso degli inizi della sua carriera.

Ho iniziato a fare il giornalista nel mensile 30Giorni. Volevamo fare gli scoop. Nel 1984 pubblicammo un documento top secret del cardinale Ratzinger sulla teologia della liberazione. Effettivamente fu uno scoop planetario. Ma il cardinale, che pure apprezzava la rivista, giustamente si irritò. L'intera curia romana insorse contro di noi e rischiammo la chiusura. Ricordo i nostri volti birichini e un po' incoscienti. Oggi ci sorrido, ma l'avevamo combinata grossa. Fu una lezione istruttiva: mi insegnò il senso di responsabilità.

Bravi giornalisti si nasce o si diventa?

Si diventa, perché i margini di miglioramento sono notevoli. Si può imparare a scrivere meglio, a verificare meglio le fonti, a montare meglio un pezzo per la tv. Però un certo istinto ci vuole, un certo gusto per la notizia non lo insegna alcuna scuola di giornalismo.

Come è cambiato il giornalismo dedicato al mondo cattolico rispetto ai suoi esordi?

I grandi vaticanisti di quegli anni erano forse meno 'devoti', pochi quelli di formazione autenticamente cattolica. Però - penso ad esempio a Benny Lai - avevano una grande serietà, una grande cultura, e anche un sincero rispetto per l'istituzione-Chiesa. Il giornalismo cattolico ufficiale era molto paludato, lo stile di scrittura arcaico, talvolta reticente. Negli ultimi trent'anni ha compiuto molti passi in avanti.

Nella cultura mass mediale dell'era digitale il rapporto tra web e religione diventa sempre più saldo. Secondo lei quanto è importante usare la rete per diffondere ai fedeli il messaggio evangelico e di fede della Parola di Dio?

Credo che il web sia importante. Se uno ha davvero qualcosa da comunicare, di vero, di significativo per tutti, riesce a esprimerlo con qualunque mezzo di comunicazione. La rete offre opportunità immense. I giornali on line, facebook, sono strumenti utilissimi, anche per una 'testimonianza'. Non bisogna essere chiusi, ma nemmeno credere che il mezzo sia tutto. I primi cristiani convertirono il mondo intero senza disporre di giornali e tv. Semplicemente, con la testimonianza della loro vita.

Com’ è cambiato il modo di comunicare della Chiesa dal Pontificato di Giovanni Paolo II a quello di Benedetto XVI?

Wojtyla comunicava con i gesti e con le immagini. La forza di Ratzinger è più nei contenuti. Due modi diversi che riflettono le due diverse personalità. Benedetto XVI è una persona libera. Non si cura troppo dell'immagine ma non ha alcun timore di affrontare i media. Il suo libro intervista – Luce del mondo – è il frutto di un colloquio vero con un giornalista: domande e risposte non preconfezionate.

Il ricordo più bello e commovente che conserva di Papa Wojtyla.

Paradossalmente del papa mediatico, del papa delle masse, il ricordo più commovente che ho è di quando lo vidi pregare in perfetta solitudine nel giardino degli Ulivi, a Gerusalemme, nel Duemila. Già malandato, in ginocchio, davanti alla pietra dove Gesù sudò sangue prima di essere tradito. Solo con Dio, immedesimato totalmente nella sofferenza di Cristo. Solo nella preghiera Wojtyla ritrovava pienamente se stesso.

Da profondo conoscitore dei media e del mondo ecclesiale come immagina possa evolvere la presenza della Chiesa sui nuovi mezzi di comunicazione?

Certamente la Chiesa ne farà un uso sempre più largo e sempre più avveduto. Lo stesso Benedetto XVI ha pronunciato parole inedite e positive sui social network. L'importante, lo ripeto, è avere davvero qualcosa da comunicare. Le tecniche e le tecnologie arrivano fino a un certo punto. Madre Teresa rispondeva a monosillabi ai giornalisti, la sua oratoria era elementare, ignorava facebook, eppure il suo volto luminoso, quelle sante rughe, comunicavano una pace, un mistero, una grazia che non richiedevano alcuna mediazione per essere percepite da tutti, anche dai non cattolici.

C’è un servizio, un personaggio o un’intervista che nel corso della sua lunga carriera giornalistica ricorda in modo particolare?

Certamente ricordo le tante interviste e anche le tante brevi dichiarazioni raccolte dal cardinale Ratzinger prima che diventasse papa. Perché, nonostante le birichinate degli inizi (e non solo degli inizi) ci aveva perdonato. E anche questo è un segno della grandezza della Chiesa.

Quale consiglio si sente di dare ai tanti giovani che si avvicinano al mondo dell'informazione?

Dico spesso che il primo segno dell'intelligenza è l'umiltà. Chi è intelligente è umile, perché è cosciente dei suoi limiti e di quanto debba e possa ancora imparare. E poi ci vuole una grande passione per l'umanità che ci circonda. Sentii una volta don Giussani dire che il cristianesimo si presentò nel mondo non innanzitutto come una nuova religione ma come una passione nuova, uno struggimento infinito per l'uomo. Non l'ho mai dimenticato.

© Copyright Parola di vita – 7 luglio 2011

1 commento:

laura ha detto...

Direi che Brunelli ha proprio ragione a proporre l'umiltà come prima virtù di un giornalista. Grazie per la segnalazione