Omar Galliani e l’omaggio a Benedetto XVI
Raffaello è più «inquieto» di Bosch
Silvia Guidi
Alla mostra allestita per festeggiare con le opere di sessanta artisti i sessanta anni di sacerdozio del Papa, inaugurata lunedì scorso nella Sala Nervi, Omar Galliani ha portato l’immenso occhio di un angelo; «presentando la mia opera — ha spiegato a “L’Osservatore Romano” — ho detto a Benedetto XVI che ne esporrò altri nove ad aprile a Roma, al Museo Bilotti. Il Papa mi ha detto che vuole vedere gli altri». Nelle opere più recenti di Galliani, microcosmo e macrocosmo sfumano l’uno nell’altro, l’infinito e il dettaglio dialogano e si illuminano a vicenda: volti assorti e dolcissimi di donna vengono graffiati dalla pioggia o attraversati da sagome di radici, foglie, grafemi e dettagli anatomici volutamente fuori contesto, contrappunti cromatici che innervano di drammaticità e spessore la bellezza apollinea del disegno come «brividi di inquietudine».
«Penso spesso — continua Galliani — a un grande roseto fatto interamente a matita su tavola, visto dall’alto, così che le rose da lontano sembrino costellazioni». Una sensibilità totalmente contemporanea ma capace di dialogare con il passato; nel 2005, all’Archivio di Stato di Torino un suo disegno (5 metri per 6,3) grafite su pioppo, è stato messo a confronto con il volto dell’angelo di Leonardo, preparatorio della Vergine delle rocce, esposto alla Biblioteca Reale.
Nel ciclo di opere dedicato a sant’Apollonia, il bianco dei denti è della stessa natura della luce delle stelle.
Hanno la stessa natura delle stelle e come le stelle pulsano tra luce e ombra. La lente con cui guardo fa sì che un dettaglio abbia la stessa valenza del tutto; disegno un’infinità di segni sovrapposti che come le onde sonore o luminose definiscono gli oggetti o i suoni e contemporaneamente si dissolvono, intraprendendo un nuovo viaggio nello spazio a noi sconosciuto.
Come ha scoperto la passione per la pittura, e per il disegno in particolare? Penso alla sua opera, ma anche al master che ha ideato con l’Accademia di Belle arti di Carrara.
Sono nato tra Parma e Reggio Emilia dove da bambino mi portavano a vedere il Correggio e il Parmigianino. Alle medie disegnavo animali dal vero e in campagna salivo sugli alberi a cercare i nidi dei cardellini per poi disegnarli a matita. Mia madre ne conserva ancora qualcuno. Qualche anno dopo all’istituto d’Arte presi 9 in disegno dal vero. A Parma nell’Istituto Paolo Toschi era un voto molto raro e dato da Federico Belicchi lo era ancor di più. Il master sul disegno è un progetto che nasce dal desiderio di riaffermare oggi tra pixel e forex l’unicità di un mezzo che ha in Italia dal Rinascimento in poi un primato di cui non dovremmo dimenticarci.
A quale opera è più legato? Quali sono i maestri che hanno segnato di più il suo percorso?
Alcuni giorni fa a Roma alla Camera dei Deputati ho rivisto Disegno, una mia matita su tavola di 3 metri per 3 acquisita nel 1996 alla Quadriennale di Roma di quell’anno. Credo sia ancora oggi la congiunzione del mio lavoro di ieri e di oggi. Se penso all’opera di un artista contemporaneo, affiora subito il nome di Gino de Dominicis.
«In certi casi il risultato e il rischio è di creare una vecchia barzelletta, anziché una nuova opera»; non è tenero nel descrivere lo stallo di tanta arte contemporanea.
Conoscere l’opera di Duchamp è importante per costruire un percorso storico-verticale del contemporaneo, ma dopo Duchamp credo sia inutile sforzarsi nell’emulare un concetto di provocazione che aveva un senso in quel tempo; oggi alla luce del Web e di tutto quello che in tempo reale riusciamo a leggere tra notizie vere e false, tra giochi virtuali e provocazioni reali credo sia in ritardo l’opera di molti artisti. Il pubblico è oggi distante dall’arte contemporanea perché ha smarrito i codici di confronto e dialogo trincerandosi sempre di più in un ghetto dorato per pochi adepti. L’arte non parla più al pubblico pretendendo soltanto di essere soltanto ascoltato o guardato. È una forma di compiacimento narcisistico che non porta da nessuna parte.
Un’altra frase che usa spesso: «La condizione della bellezza quasi sempre abita le stanze dell’inquietudine o della ferita»; cosa significa per lei abitare l’inquietudine?
Il termine Bellezza sembra ormai bandito dal lessico artistico attuale sostituito dal termine opposto «brutto-sgradevole» che oggi riveste un ruolo di primaria importanza per i fautori della contemporaneità assoluta instaurando in realtà un nuovo codice di Bellezza altrettanto estetica e decadente. In un’opera di Raffaello, detentore di un equilibrio apparentemente inscalfibile, esistono molte più inquietudini per me che in un’opera di Bosch. La bellezza spesso cela il suo contrario. Quando la bellezza è eccessiva aumenta la consapevolezza della ferita. Il sacrificio del mio tempo per l’opera afferma questa consapevolezza.
Sessanta artisti hanno reso omaggio ai sessant’anni di sacerdozio del Papa; cosa è significato per lei partecipare a quest’iniziativa?
Quando da ragazzo guardavo a testa in su la cupola dell’Assunta del Correggio vedevo il disegno e la pittura congiungersi al «testo» e pensavo che quell’atto coraggioso e assoluto del pittore potesse restituire all’uomo credente o non credente la vera «fede» nella bellezza, nell’armonia, nell’assoluto. È con lo stesso entusiasmo di allora che mi sono ritrovato in Vaticano a rivivere quell’esperienza con tanti altri artisti che avranno visto con occhi e latitudini diverse la loro Assunta.
(©L'Osservatore Romano 7 luglio 2011)
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