Su segnalazione di Laura leggiamo:
L'anniversario della morte di Paolo VI
Giovanni Battista Montini, Montserrat e la spiritualità benedettina
Nel mistero della Trasfigurazione il segno e il suggello di un’intera vicenda umana e spirituale
Eliana Versace
«Le notizie di Montserrat mi incantano e mi edificano: in omnem terram exivit sonus eorum! Ecco la funzione di simili centri di altissima spiritualità! e come bene la compie cotesto monastero!». Così scriveva, il 30 luglio 1958, monsignor Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, a padre Gabriel Brasò, priore del monastero benedettino catalano. Pur essendo stato più volte invitato dalla comunità monastica, Montini non si recò mai a Montserrat, probabilmente anche a causa della situazione politica spagnola. Mantenne tuttavia frequenti contatti epistolari con il priore Brasò e con l’abate Aureli Escarrè che, nel 1946, era succeduto ad Antoni Marcet, tra i principali promotori, nella prima metà del Novecento, della rinascita culturale di Montserrat. Lo attesta una corrispondenza tuttora inedita, conservata nel fondo Montini dell’archivio diocesano milanese, oltre i diversi incontri tra l’arcivescovo con Escarrè e Brasò.
A unire Milano e Montserrat persisteva, per Montini, uno speciale «vincolo spirituale» che, intensificato negli anni del lungo episcopato ambrosiano del benedettino cardinale Ildefonso Schuster, trovava però una sua più remota origine «nella nobile figura di Pio XI». E proprio per rendere omaggio al Pontefice l’abate Escarrè scrisse a Montini in occasione del centesimo anniversario della nascita di Ratti, nel 1957, per ricordarne la premurosa attenzione verso l’abbazia catalana. Rivolto al successore di Ratti nella sede arcivescovile di Milano, Escarrè sottolineava che «Montserrat venera Pio XI come uno dei suoi grandi benefattori. Il nostro monastero e il mio predecessore ricevettero da lui insigni testimonianze di benevolo, paterno affetto. In occasione della guerra di Spagna, Egli accolse con premurose manifestazioni di carità i nostri monaci esuli e li sollevò spiritualmente e materialmente».
Infatti, dal monastero benedettino — che nel luglio 1936, con lo scoppio della rivoluzione rossa a Barcellona, dovette affrontare saccheggi e razzie, subendo infine il martirio e l’esilio di tanti suoi monaci — Pio XI chiamò a Roma, al diretto servizio della Santa Sede, i padri Anselm Albareda e Gregori Sunyol, incaricandoli di presiedere rispettivamente la Biblioteca Apostolica Vaticana e il Pontificio Istituto di Musica Sacra. «Personalmente — continuava nella sua lettera a Montini l’abate Escarrè, anch’egli allora rifugiatosi a Roma, presso il collegio Sant’Anselmo — mi è rimasta una profonda impressione dell’ultima udienza accordata da Pio XI al Padre Abate Marcet, mio predecessore. Accompagnavo in quella occasione il mio Abate, e il Santo Padre ci affermò: «Tra gli amici ce n’è uno solo che non ci mancherà mai: Gesù Cristo». Queste parole mi fecero percepire profondamente il senso del soprannaturale. E fu pure questa la prima volta che un Papa mi abbracciò».
Il legame del monastero con la diocesi ambrosiana continuò con Schuster, privilegiato dalla strettissima collaborazione che l’antico abate di San Paolo fuori le Mura richiese al padre Sunyol, il quale, dal 1931, si era trasferito a Milano, dedicandosi per incarico del cardinale al ripristino dell’antico canto sacro ambrosiano. A cementare il rapporto dei monaci di Montserrat con l’arcivescovo Montini contribuì invece la presenza di una comunità monastica benedettina femminile insediatasi nello storico monastero di Viboldone, alle porte di Milano. Montini protesse questa nuova realtà ecclesiale, incoraggiandola, tutelandone lo sviluppo e favorendo concretamente l’edificazione dell’attuale, più ampio, convento delle monache.
Sin dalla fondazione, la comunità benedettina di Viboldone aveva goduto della vicinanza spirituale dell’abate Escarrè che successivamente, nel marzo 1965, a seguito di insormontabili difficoltà col regime franchista, si recò a trascorrere gli ultimi tre anni della sua vita proprio a Viboldone. Ma, negli anni Cinquanta, fu padre Brasò, dal 1949 priore di Montserrat, a sostenere spiritualmente le monache di Viboldone, visitando quindi con frequenza Milano, con la «benigna condiscendenza» dell’arcivescovo Montini: in lui — scriveva l’abate — sembrava riverberarsi «quella soave carità che si irradiava dall’anima santa di Sua Eminenza il cardinale Schuster». Il priore, apprezzato dall’arcivescovo di Milano pure in qualità di studioso di spiritualità liturgica e monastica, diventerà così il principale tramite di comunicazione e scambio con la comunità benedettina spagnola. «Ho avuto coscienza – scrisse nel marzo 1959 Brasò a Montini, informandolo sull’attività del monastero catalano – di essere Gabriele annunciatore e trasmissore di grazia. E adesso ritorno presso la Vostra Eminenza con le felicitazioni ed i voti della nostra comunità».
Ed era stato sempre Brasò a recare con sé a Montserrat la lettera pastorale Su l’educazione liturgica, pubblicata a Milano dall’arcivescovo per la quaresima del 1958, a presentarla ai monaci e a promuoverne la diffusione in Spagna «onorato di tradurla e divulgarla nelle nostre due lingue se vostra Eccellenza lo gradirà. Pure così potrei essere suo ambasciatore». L’arcivescovo accolse a sua volta con favore la traduzione in italiano del volume di padre Brasò Liturgia e spiritualità, libro ispirato anche dalle «illuminate dottrine che V. E. espresse su questi argomenti dalla Segreteria di Stato» confidava Brasò a Montini.
In quegli anni quindi non venne mai meno quella che Montini definì con gratitudine «la partecipazione spirituale di Montserrat alla vita religiosa di Milano»: così l’intera comunità monastica, «dove ci interessiamo con ammirazione e affetto al lavoro pastorale di Vostra Eccellenza», assicurò a Montini, sin dal momento dell’annuncio della Missione cittadina, svoltasi a Milano nel novembre 1957, la vicinanza nella preghiera affinché quell’evento potesse rendersi fecondo «in frutti di grazia e verità cristiana».
Montini a sua volta, incoraggiò l’opera spirituale e culturale promossa a Montserrat: «Sono lieto — scriveva il 2 aprile 1959 all’abate Escarrè — che da un focolare di vita spirituale si irradi nel mondo spagnolo ed estero una corrente di pensiero cristiano che può dare molti frutti per il giovamento spirituale nella Chiesa e nel mondo. Mi compiaccio di così provvida attività ed esprimo voti perché possa sempre meglio affermarsi e diffondersi». Ma già nel 1955, pochi mesi dopo il suo ingresso a Milano come nuovo arcivescovo, Montini aveva benedetto una statua in argento dorato, piccola copia della Madonnina del Duomo di Milano, facendone dono a Montserrat tramite un gruppo di pellegrini milanesi. Gli apprezzamenti di Montini verso «la funzione spirituale di Montserrat — rispondeva padre Brasò — ci sono di grande conforto e rinvigoriscono il nostro senso di responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi alla Chiesa. Avremo qualche volta l’onore e la grazia di ospitare nel nostro monastero, la Vostra Eccellenza? Lo desideriamo e lo speriamo. Sono tanti i pellegrini milanesi che vengono a Montserrat», concludeva il priore, rinnovando il ripetuto invito a soggiornare presso il monastero catalano. Ma Montini non visitò mai la Spagna franchista.
Molto più tardi, sarebbe stato il suo successore sulla cattedra ambrosiana, il cardinale Giovanni Colombo — che mantenne il rapporto epistolare con Escarrè, incontrandolo alcune volte a Milano e Viboldone — a visitare Montserrat nel settembre 1984, ospite dell’abate Cassià Maria Just, polifonista e gregorianista, succeduto ad Escarrè nel 1966, e che resse la comunità benedettina di Montserrat fino al 1989, guidandola con intraprendenza nel periodo post-conciliare, coinciso in Spagna con la lenta transizione dal franchismo alla democrazia. Nel 1969 fu invece Montini, divenuto Paolo VI, a ospitare in Vaticano il padre Gabriel Brasò, eletto abate presidente della congregazione benedettina sublacense e invitato a predicare gli esercizi quaresimali alla Curia romana, pubblicati l’anno successivo nel volume Il sacerdozio cristiano.
Il legame instaurato con Montserrat è emblematico della costante e nota attenzione che Montini riservò, sin dalla fanciullezza, al monachesimo benedettino. Il giovane Giovanni Battista infatti, nei periodi in cui fu ospite del vicario episcopale bresciano monsignor Domenico Agostino Menna a Chiari, frequentò assiduamente la comunità dei monaci benedettini di Sainte-Madeleine di Marsiglia, esule dal 1910 a causa della legislazione francese e ospitata da Menna nel convento francescano del luogo, di proprietà della sua famiglia, fino al 1922, quando i monaci tornarono in Francia, stabilendosi ad Hautecombe, in Alta Savoia.
Montini, ancora ragazzo, spesso unico fedele, partecipava alle cerimonie liturgiche della comunità benedettina, gustando intimamente quelle «armonie che — ricorderà molti decenni dopo Paolo VI — sembravano essere colloquio tra cielo e terra. E questa impressione, che la preghiera fatta direi per se stessa e da nessuno ascoltata e condivisa, se non da quelli stessi che la proferivano e dal cielo cui era rivolta, fu scolpita nella mia anima, ancora molto giovanile, e rimase uno degli argomenti, uno dei motivi, per cui mi fu caro dare la mia vita al servizio del Signore». In quel contesto, mentre maturava la sua vocazione sacerdotale, il giovane Battista pensò anche di abbracciare il monachesimo benedettino. Comunicò questo desiderio all’abate della comunità, Cristophe Gauthey che, scorgendo in lui un «temperamento attivo» e inadatto alla vita claustrale, lo dissuase da quell’intenzione. Ma la spiritualità benedettina esercitò sempre una suggestiva influenza nell’animo di Montini.
Nel 1919, un anno prima di essere ordinato sacerdote, Battista, recatosi a un convegno presso l’abbazia di Montecassino, giungerà a ritenere che «dopo Roma, per noi credo non ci sia santuario ove più il sentimento della tradizione cristiana c’investa più fortemente e ci renda naturale la smania di non esserne indegni, ma d’esserne umili, oscuri anche, e dispersi ma vigili e convinti continuatori». E lo «spirito benedettino», nel quale egli pienamente si riconosceva, «domina direi quasi aristocratico — scriveva da Montecassino nello stesso periodo — nella liturgia perfetta nell’esclusione di tutto quello che noi aggiungiamo al culto di iperbolico e di artificiale, perché tutto è squisito, preciso, perfetto».
Sin da giovane sacerdote, Montini cercò di trascorrere parte delle sue vacanze estive presso i monasteri benedettini: fu ospitato nel 1924 dai «suoi» antichi monaci di Chiari a Hautecombe e, tra l’estate del 1928 e quella del 1929, visitò il Belgio e la Germania, facendo tappa presso alcune comunità benedettine. Ma fu durante il periodo del suo episcopato milanese che le mete prescelte da Montini per il riposo estivo tracciarono quasi le tappe di una particolare e intima «geografia spirituale», espressamente ispirata al carisma di san Benedetto. Montini visitò i monasteri benedettini svizzeri di Einsiedeln, Engelberg, San Gallo, Saint-Maurice, Sarnen e quelli tedeschi di Maria Laach e Beuron.
Molti anni dopo, in visita a una parrocchia della diocesi milanese, l’arcivescovo Montini si disse sicuro che, «se un giorno l’Europa sarà unita, il Santo di Norcia sarà proclamato patrono dell’Europa, perché tutta l’Europa ha attinto dagli insegnamenti di questo gigante del cristianesimo». Com’è noto, il 24 ottobre 1964, sarebbe stato proprio Paolo VI, riconsacrando l’abbazia di Montecassino — ricostruita dopo il devastante bombardamento di venti anni prima — a proclamare, alla presenza dei padri conciliari, san Benedetto «patrono principale dell’intera Europa», con l’auspicio che la società europea delle nazioni potesse attingere «linfa nuova alle radici, donde trasse il suo vigore ed il suo splendore, le radici cristiane, che San Benedetto per tanta parte le diede e del suo spirito alimentò».
Un’ultima considerazione nasce da un episodio, quasi sconosciuto, ma impressionante e suggestivo: san Benedetto e la spiritualità contemplativa probabilmente ispirarono Montini nella scelta del suo motto episcopale. Il nuovo arcivescovo di Milano, subito dopo la nomina, fece infatti sapere nel novembre 1954 che per il suo stemma, ove era raffigurato anche un monte a sei cime, desiderava il motto Cum ipso in monte, ma monsignor Antonio Travia, suo stretto collaboratore in Segreteria di Stato, lo sconsigliò — come scrisse poco dopo nella rivista diocesana milanese — perché il riferimento sembrava più consono a un proposito di vita contemplativa e monastica, che non al programma pastorale dell’arcivescovo della grande metropoli, inducendo così Montini a scegliere In nomine domini.
Ma le parole cum ipso in monte, tratte dalla seconda lettera di san Pietro (1, 18) nella liturgia della Trasfigurazione del Signore, ascoltate da Paolo VI per l’ultima volta il 6 agosto 1978, avrebbero rappresentato l’estremo suggello alla sua intera vicenda umana e spirituale.
(©L'Osservatore Romano 6 agosto 2011)
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1 commento:
Ricordiamo con gratitudine Papa Paolo VI per un fatto non secondario: fu lui a nominare cardinale Joseph Ratzinger!
Papa Benedetto XVI è l'unico cardinale di Paolo VI ancora vivente...se fossimo ai tempi di Avignone direi che è l'unico cardinale... legittimo!Scherzo!
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