Nato tra i banchi del liceo romano Visconti il cordiale e solido rapporto tra Guido Mendes e il futuro Pontefice si rafforzò durante gli anni bui della persecuzione
Eugenio Pacelli e l’amico ebreo
E dall’Archivio Segreto Vaticano emerge una lettera del 21 gennaio 1939 in cui il cardinale segretario di Stato chiede aiuto per il medico colpito dalle leggi razziali
Sergio Pagano,
Vescovo prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano
Quando al diciassettenne Eugenio Pacelli, alunno del liceo romano «Ennio Quirino Visconti», fu assegnato il tema «I miei amici», con la penna scrisse giudizi molto decisi e virili sul sentimento dell’amicizia, e con il pensiero credo sia andato ai volti dei suoi compagni di scuola, di studi, di incontri giovanili, fra i quali vi dev’essere stato quello di Guido Aronne Mendes, di religione ebraica, la cui famiglia — composta da studiosi di medicina, con una origine portoghese che si vuole risalga fino al medico di corte di Carlo ii d’Inghilterra — risiedeva da tempo a Roma, in via Antonio Cerasi 22, a Monteverde.
L’amicizia fra il giovane Pacelli e il coetaneo studente ebreo — entrambi nati nel 1876 — si sarebbe poi mantenuta per tutta la vita, che per Eugenio Pacelli, divenuto Papa con il nome di Pio XII, si chiudeva il 9 ottobre 1958, mentre per il dottor Mendes il 19 luglio 1965.
Di questo legame ci ha informato per primo il diretto interessato, Guido Mendes, dalle pagine del «Jerusalem Post» del 10 ottobre 1958, all’indomani della morte di Pio XII (Mark Segal, Ramat Gan Physician recalls schooldays with Pius XII); quindi suo figlio, Meir Mendes, professore di scienze politiche alle università di Tel-Aviv e di Ramat Gan (Bar Ilan), quando pubblicò il suo saggio in ebraico Vatican veisrael (tradotto in francese da Georges Kempf nel 1990, Le Vatican et Israël). A queste informazioni hanno attinto di recente il rabbino David Gil Dalin, The myth of Hitler’s Pope: how Pope Pius XII rescued Jews from the Nazis (Washington 2005, pp. 54-55) e Andrea Tornielli, Pio XII, Eugenio Pacelli. Un uomo sul trono di Pietro (Milano 2007, pp. 23-24). A completare il quadro di questa amicizia, almeno per la personalità del dottor Guido Mendes (essendo ben nota quella di Pacelli) contribuisce ora l’ottima voce curata da Stefano Arieti per il «Dizionario biografico degli italiani» (73, Roma 2009, pp. 444-446), dalla quale riprendiamo i dati salienti.
Guido Mendes, nato a Firenze, figlio di rabbino, viaggiò con i genitori in diverse città italiane, e giunta la famiglia a Roma, frequentò il liceo romano «Visconti» e fu nella stessa classe di Eugenio Pacelli, come dicevamo; conseguita la maturità classica, si laureò in medicina e chirurgia all’università La Sapienza di Roma nel 1900. Fu poi assistente nella clinica psichiatrica universitaria dal 1901 al 1902, quindi medico del corpo sanitario dell’esercito italiano (lavorò all’ospedale del Celio) e aiuto medico negli ospedali di Roma. Deciso a seguire la carriera militare, nel 1910 era promosso capitano medico e dal 1915 cominciò a interessarsi del grave problema della tubercolosi e dettò efficaci linee guida per la profilassi di tale malattia nell’esercito; con l’aiuto della Croce Rossa istituì speciali reparti militari per gli accertamenti diagnostici. Dal 1917 era chiamato a dirigere i servizi medici alla direzione generale della Sanità militare e si trovò così a collaborare con ospedali o centri di smistamento di prigionieri tubercolotici (di Genova, Roma, Bologna); nel 1919 diveniva direttore del Centro Antitubercolare di Roma e conseguiva la libera docenza in patologia speciale medica; nel 1920 diveniva direttore dell’importante ospedale sanatorio «Cesare Battisti» della Croce Rossa in Roma. Avendo aderito con convinzione al fascismo, fu dal governo inquadrato nei ruoli sanitari della milizia volontaria e come premio del suo impegno ebbe, nel 1932, la commenda della Corona d’Italia. Nel 1927 era stato segretario generale della Federazione nazionale fascista per la lotta contro la tubercolosi. Come ebreo, anche Mendes fu colpito dalle leggi razziali del 1938 e grazie agli aiuti prestati dal cardinale Pacelli, dal padre Vincenzo Ceresi e dall’allora monsignor Giovanni Battista Montini a lui e alla sua famiglia, riuscì ad espatriare in Svizzera, e da qui in Palestina, dove con la moglie Giulia Fischel realizzò una impresa sanitaria. Alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, lasciò la sua struttura ed aprì un ambulatorio a Tel Aviv. Morì a Ramat Gan (Israele) il 19 luglio 1965.
Secondo quanto raccontò al «Jerusalem Post» lo stesso Mendes, alla morte di Pio XII, la loro amicizia, nata sui banchi del liceo, si mantenne cordiale e solida per tutta la vita; disse che Pacelli assistette, negli anni della sua giovinezza, a una cena dello Shabbat in una casa ebraica, e che amava discutere di teologia ebraica; ricorda che l’amico Pacelli, anche quando era già sacerdote (1899), continuava a frequentare la sua casa, almeno fin tanto che i suoi molti impegni alla Segreteria di Stato lo permisero; dice ancora dell’interesse che don Eugenio aveva per la tradizione religiosa ebraica, tanto da chiedere in prestito all’amico alcuni libri scritti da ebrei, come quelli del rabbino livornese Elia Benamozegh.
Di tale amicizia, che conoscevamo dalle parole di Guido Mendes e di suo figlio Meir, viene ora alla luce una significativa testimonianza che documenta l’aiuto materiale prestato dall’allora cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli al dottor Mendes nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali. L’episodio è noto a Meir Mendes che ne trattò brevemente nel suo saggio (Le Vatican et Israël, pp. 24-27).
Il 23 dicembre 1938 il dottor Mendes si rivolse direttamente al suo amico Eugenio Pacelli perché gli ottenesse, quando fosse stato possibile, il visto turistico dalle autorità inglesi per poter recarsi con la sua famiglia in Palestina — allora sotto il mandato britannico — dove possedeva beni immobili (aveva quattro appezzamenti di terreno nella località di Tulkarm, villaggio di Even Yehuda). Subito Pacelli fece scrivere alla Legazione d’Inghilterra presso la Santa Sede in tal senso (24 dicembre 1938). Il 30 dicembre veniva risposto però che il consolato britannico non aveva più visti turistici a disposizione (oltre il numero massimo prestabilito) e quindi la domanda di Mendes non poteva essere accolta. Pacelli non si perse d’animo e suggerì all’amico di inoltrare un pro-memoria, precisando meglio la sua richiesta e limitandola a sé e a suo figlio, non all’intera famiglia; il pro-memoria fu rimesso il 10 gennaio 1939 e da questo apprendiamo che Mendes, perso l’incarico di direttore del «Cesare Battisti», già aveva lasciato la sua casa e si era sistemato presso il colonnello Cassinis in via Dandolo. Qui ebbe una bella lettera di ringraziamento del cardinale Eugène Tisserant, prefetto dell’Orientale per la sua opera di medico in favore degli alunni del Collegio Etiopico degenti al suo sanatorio.
Mendes inviò anche, il medesimo 10 gennaio, un biglietto autografo al «carissimo Padre Ceresi», ovvero Vincenzo Ceresi, dei Missionari del Sacro Cuore (1869-1958), con cui aveva pure amicizia, chiedendo che «coll’indulgenza di S. E. mons. Montini» e sua — il Ceresi era, com’è noto, in stretto contatto con Montini — intervenissero presso il Consolato inglese dove aveva deciso di recarsi per ricevere un certificato di «capitalista», che gli spettava in virtù dei terreni che possedeva in Palestina; avrebbe così aggirata la troppo lunga attesa di un visto turistico, «ma bisogna far presto perché i certificati sono pochi e i richiedenti molti» (Archivio Segreto Vaticano, Segr. Stato, 1939, rubr. 55, fasc. unico, f. 6). Per diretto ordine del cardinale Pacelli la Segreteria di Stato tentò anche questa seconda strada, quella di far avere un certificato di possidente a Mendes e ne scrisse alla Legazione inglese presso la Santa Sede il giorno dopo, 16 gennaio, con una sollecitudine che bene mostra la stima di Pacelli per il suo amico e la sua volontà di favorirlo. Non solo, ma questa volta si toccava, in chiusura della lettera, il tasto dei meriti umanitari: «e vivamente confida lo scrivente che le molte benemerenze acquistate dal Mendes nella sua opera umanitaria esercitata per molti anni nel Sanatorio “Cesare Battisti” di cui fu direttore, lo renderanno anche presso le Autorità britanniche degno di riguardo» (ivi, f. 9). Ma anche questa richiesta fu rigettata dal consolato inglese con la motivazione dell’esaurimento dei certificati per i «capitalisti».
Fu allora che il cardinale Pacelli scrisse la lettera — pubblicata in questa pagina — al delegato apostolico di Gerusalemme e Palestina, monsignor Gustavo Testa (residente al Cairo), perché assumesse di persona la pratica (minuta ivi, f. 11; originale Archivio Segreto Vaticano, Arch. Deleg. Gerusalemme e Palestina, b. 1, fasc. 7, f. 319).
Monsignor Testa fece subito i passi necessari presso Atalla Mantoura, del commissariato del distretto di Jaffa Road a Gerusalemme, ma il 24 febbraio 1939 era costretto a comunicare all’ex cardinale Segretario di Stato — essendo già sede vacante per la morte di Pio XI — che la domanda di Mendes era stata respinta «essendo già esaurita la quota dei turisti ebrei consentita dalla legge»; il dottor Mendes avrebbe però potuto ottenere il visto per l’aprile dell’anno successivo, a patto che sia Guido Mendes sia suo figlio Meir fossero in grado di dimostrare «di possedere ciascuno un capitale mobile o immobile che supera le lire italiane mille». Aggiungeva infine il delegato apostolico: «È pur vero che questo limite di fortuna non si applica che agli ebrei che vogliono immigrare in Palestina, ma l’ufficio della Immigrazione, in considerazione della attuale politica, pensa che un turista ebreo possa eventualmente trovarsi obbligato a restare nel paese: ecco perché esso si trova nella necessità di adottare questo principio, data anche la tensione che esiste attualmente nella Terra Santa» (ivi, f. 326).
Ancorché negativo, questo passo del cardinale Pacelli servirà a fare avere uno dei primi visti del 1940 all’amico Guido Mendes. Questi poi, recatosi in Palestina con la famiglia in detto anno, nel 1948 passava nei territori del nascente Stato di Israele, serbando nel suo cuore non solo il ricordo dell’amico Eugenio Pacelli, ma la riconoscenza della prova concreta di vicinanza che questi gli aveva dato per poter raggiungere quel suo ambito traguardo — e l’intervista rilasciata nel 1958 ne fu una prova, come lo sono ora i nostri documenti.
(©L'Osservatore Romano 9 ottobre 2011)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
Non ho mai dubitato dell'amore di Eugenio Pacelli per i fratelli ebrei .
L'unico scandalo e l'unica vergogna è che il nazista e razzista l'hitleriano Hochhut sia stato preso sul serio...e che molti cattolici pavidi, preti e vescovi compresi,non abbiano fatto nulla per difendere la memoria di un papa grandissimo e santo!
La Verità è stata svelata dal Tempo...già, come la statua del Bernini.
La storia è sempre la stessa: per lavare le loro coscienze dai crimini orrendi di cui si erano resi responsabili,complici e carnefici, ex nazisti e comunisti accusarono l'unico innocente!
Memori dell'insegnamento di Voltaire...calunniate,calunniate qualcosa resterà!
Posta un commento