EDITORIALE
Il bunker e le finestre
Difficile usare un’immagine più concreta. «Un edificio di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli». Un bunker. Nessuna apertura. Nessuno spiraglio sull’esterno. Roba da soffocare solo a pensarci.
Eppure è così che trattiamo noi stessi. Basta osservarci per vedere quanto siamo intrisi di quella «ragione positivista» limitata, ridotta, soffocante, che Benedetto XVI ha ritratto con quell’immagine nello storico discorso al Bundestag di Berlino.
Basta essere leali con noi stessi e guardare come stiamo di fronte alla realtà: il lavoro, la famiglia, lo studio... Quante volte sentiamo lo spazio angusto e l’aria chiusa. Spesso, il buio. Perché la luce e l’aria che ci diamo da soli, che pensiamo di poterci dare da soli, semplicemente non bastano. Così come non basta illudersi che se cambiassero le circostanze, se non fossimo lì dove siamo, ma altrove, allora... Tutte storie, e lo vediamo. Non basta passare da una stanza all’altra del bunker per respirare. Se la realtà è quella e null’altro, nuda e cruda, se il suo spessore si limita a quello che misuriamo - se siamo, come siamo, positivisti -, ci manca l’aria. E l’immagine usata dal Papa è potente proprio per quello. Non è che non possiamo più discettare di filosofia, parlare di fede, discutere tra credenti e non credenti. Non possiamo vivere. E a noi urge vivere.
Così, se siamo leali con questa urgenza l’invocazione risuonata poche parole dopo in quello stesso discorso diventa il nostro grido: «Bisogna tornare a spalancare le finestre». Dare aria. «Vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto». E arrivare al fondo di questa vastità del reale. Perché la vastità non è solo una questione di ampiezza di orizzonte, ma di profondità. Di spessore.
«Tutto ciò che c’è grida la sua dipendenza da un Altro», ricordava pochi giorni fa don Julián Carrón nella Giornata d’inizio anno di Cl.
«La natura dell’uomo è quella di essere creato, e la sua ragione si compie nel riconoscere quella implicazione ultima che è dentro l’essere delle cose. Se uno nega il rimando, se nega l’oltre, nega la cosa, l’esperienza della cosa, la distrugge. Di fronte all’abissale gratuità del reale vi è come una strana paralisi della ragione, che si blocca. Ma se uno nega questo, nega la cosa».
Se uno sta davanti al problema di lavoro, alla crisi, al figlio sottraendosi allo stupore per il fatto stesso che ci sono e sono dati, negando questa implicazione, sfuggendo a quella «implicazione ultima», semplicemente finisce con il negarli. Li annichilisce. Blocca la ragione, escludi il Mistero, e neghi la realtà. È come chiuderla in una stanza buia e soffocante, appunto. Salvo sorprenderci, poi, che da lì non venga fuori il respiro che attendiamo.
È per questo che l’itinerario che trovate nei testi del Papa e nella Pagina Uno di questo numero è decisivo. È indispensabile per vivere. Ancora di più adesso, che l’aria si fa cupa e la parola «crisi» la viviamo sulla pelle, oltre che sentirla (provate a leggere le storie del “Primo piano”). Possiamo incagliarci nelle circostanze, belle o brutte che siano, e restare bloccati lì, senza respiro. Oppure possiamo usare la ragione per quello che è, accettare la sfida di quella implicazione ultima, non da aggiungere ma da scoprire dentro la realtà. «È come se dentro le cose ci fosse un invito», dice un altro passaggio di quella Giornata d’inizio. Sta a noi raccoglierlo. E spalancare le finestre.
http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=314&id_n=24494
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento