giovedì 4 agosto 2011

Disumano restare indifferenti L'arcivescovo Antonio Maria Vegliò sulla drammatica situazione nei Paesi del Corno d'Africa (Ponzi)

L'arcivescovo Antonio Maria Vegliò sulla drammatica situazione nei Paesi del Corno d'Africa

Disumano restare indifferenti

La responsabilità di tutti per trovare una soluzione efficace e rapida alla crisi

di Mario Ponzi

«Non c'è peggior sordo di chi non voglia ascoltare e non c'è peggior cieco di chi non voglia vedere». Tornano d'attualità le parole di questi antichi proverbi della saggezza popolare, dinnanzi alle troppe esitazioni della comunità internazionale nell'intervenire efficacemente per risolvere la drammatica situazione nei Paesi del Corno d'Africa, denunciata dall'arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in questa intervista al nostro giornale. Si sta agendo troppo tardi, dice, e non c'è nessuno che dia l'impressione di «voler veramente entrare nella situazione» per cercare una soluzione. «Anche gli aiuti umanitari finiscono troppo spesso nella rete della lotta intestina che insanguina il Paese e non giungono alla popolazione bisognosa». Più che mai urgente appare una responsabile «mediazione internazionale».

Una mediazione che il Papa ha invocato domenica scorsa all'Angelus, ricordando che il Vangelo vieta l'indifferenza davanti a chi ha fame e sete. Può inquadrare queste parole nella realtà della situazione in quei Paesi?

Il Vangelo con i suoi insegnamenti è sempre connesso con gli eventi della società. L'indifferenza è assolutamente contraria ai principi del Vangelo, che ci chiede di seguire l'esempio e gli insegnamenti di Gesù Cristo, che invita a praticare la giustizia e amare la pietà. Il dramma della Somalia è davanti agli occhi di tutti. Per mesi la comunità internazionale -- e di fatto chiunque seguisse la situazione -- sapeva ciò che sarebbe poi accaduto, cioè che l'avvento di una diffusa carestia avrebbe causato gravi danni alle famiglie, il venti per cento delle quali oggi si trova a dover affrontare un'estrema riduzione dei beni alimentari, con livelli di acuta malnutrizione superiori al trenta per cento. Un dramma in cui l'indice di mortalità è di oltre due persone al giorno ogni diecimila. E la maggior parte sono bambini. Anche prima della carestia, la situazione era drammatica per quelli sotto i cinque anni nei campi di rifugiati, per via del nutrimento insufficiente, al di sopra del livello di emergenza.

Sta dicendo che tutto era prevedibile, dunque evitabile o almento contenibile nei suoi effetti?

Per rispondere a questa domanda cito quanto ebbe a dire la responsabile della Fao per le operazioni di emergenza in Africa, la signora Amaral, informata della crisi causata dalla siccità in quella regione fin dal mese di novembre 2010, dopo la mancata stagione delle piogge. Nel momento in cui le Nazioni Unite dichiararono ufficialmente lo stato di carestia per il Corno d'Africa disse: «Quando al giorno d'oggi, nel ventunesimo secolo, viene dichiarata una situazione di carestia, dovremmo considerarlo immorale». Non basta che i Paesi donatori diano soldi per un aiuto immediato quando il dramma è ormai esploso. C'è bisogno di un investimento a lungo termine per aiutare gli agricoltori a resistere alla siccità. Esiste l'obbligo morale di assistere coloro che non possono più prendersi cura di sé, siano essi a Roma, dove incontriamo i senzatetto, o più lontano in Somalia, in Etiopia o in Kenya.

Cosa può fare la comunità internazionale, secondo lei?

Intanto impegnarsi per fare tornare la pace in Somalia. È una questione imprescindibile, anche per far sì che gli aiuti umanitari servano realmente al sostegno della popolazione. E poi impegnarsi in un'opera di maggiore solidarietà. I rifugiati residenti da tempo nei campi di Dadaab, in Kenya, per esempio, aiutano con il poco che hanno, incoraggiati a condividere: «Se hai due magliette danne una. Se hai due paia di scarpe danne uno». Tale esempio e il passaparola hanno ispirato la diaspora somala che ha spinto i commercianti emigrati a Nairobi e la comunità dei rifugiati negli Stati Uniti ad aprire una raccolta di fondi. Inoltre, le comunità dei rifugiati della Somalia nel mondo intero si stanno attivando per far giungere altri aiuti.

Ritiene sufficiente l'impegno messo in campo dalla comunità internazionale, considerando, soprattutto per la situazione in Somalia, che esiste quella sorta di economia parallela che si sviluppa proprio intorno agli aiuti umanitari in un Paese dominato dai clan?

Certamente si sta agendo tardi, forse troppo tardi. Purtroppo questo è legato alla storia complicata della Somalia. Per tanti anni questo Paese è rimasto senza Governo. Molti tentativi sono stati fatti per portare la pace, almeno tredici anche molto seri. Il Governo ad interim pare non funzioni e diversi gruppi islamici continuano a combattere con ulteriori violenze e spargimento di sangue. Ricordiamo che nel 1991 molti aiuti alimentari furono saccheggiati da diverse fazioni militari. Non possiamo neanche dimenticare gli eventi traumatici del 1993, quando i corpi dei soldati furono trascinati per le vie di Mogadiscio. Questi fatti sono sufficienti per capire il motivo per cui nessuno voglia veramente entrare nella situazione.

Anche nella pastorale i problemi non mancano. Soprattutto i giovani preoccupano. Del resto, proprio in Somalia, la nuova generazione è maturata in un costante situazione di guerra civile. Cosa si può fare per aiutarli a capire che per realizzarsi non serve imbracciare un mitra?

Questa è una domanda alla quale dare una risposta è molto difficile. So che in diverse diocesi (come per esempio nella Repubblica Democratica del Congo, in Sierra Leone e Liberia) sono stati organizzati corsi di integrazione per i giovani ex combattenti prima di reinserirli nella società e nella propria famiglia. Una delle fasi principali di questo cammino è la riconciliazione. Questo facilita l'integrazione. Inoltre, viene offerta loro la possibilità di andare a scuola o di ricevere una formazione professionale. Purtroppo -- ribadisco -- tutto ciò si è realizzato solo dopo i conflitti. A volte sono i più giovani a decidere di scappare verso altre realtà o a lasciare il proprio Paese richiedendo asilo. Per evitare che siano reclutati con la forza, si potrebbe cominciare a fare in modo che quelle persone che cercano di arruolarli siano fermate e perseguite penalmente. Lo consente il Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti del fanciullo, sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati. Esso vieta la partecipazione diretta di bambini e adolescenti sotto i diciotto anni nelle guerre. C'è poi da considerare il fatto che i giovani si uniscono ai gruppi armati per sopravvivere dal momento che la famiglia e le strutture sociali ed economiche sono crollate.

Come aiutarli?

L'unica possibilità è quella di dar loro una speranza. E poi favorire lo sviluppo. Lo sviluppo è un'altra parola per la pace. C'è piuttosto da chiedersi fino a che punto la comunità internazionale sia veramente pronta a intervenire in situazioni complicate come in Somalia.

La situazione porta naturalmente molti a scegliere la fuga. E così inizia il confronto con un altro dramma. Come giudica la discriminazione che tante volte si manifesta in Europa nell'accoglienza di profughi dell'Africa subsahariana piuttosto che nei confronti di quelli dell'Africa del Nord?

Effettivamente non si può negare che un atteggiamento di maggior chiusura si è creato nei confronti dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti. Questo contraddice l'atteggiamento che l'Europa aveva mostrato per decenni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di profughi furono ammessi e integrati nella società. Durante quel tempo, soluzioni innovative erano state sviluppate e messe in atto. L'idea era di dare una speranza e un futuro ai rifugiati, facendoli uscire dai campi profughi. Possiamo anche ricordare che in un altro periodo della storia europea, negli anni Trenta, i profughi tedeschi non vennero accolti. Infatti, come in una partita di ping pong, nessun Paese era disposto a ospitarli. Poiché non si fornì alcuna soluzione, essi dovettero sopravvivere facendo ogni tipo di lavoro, senza avere i documenti necessari. Ciò portò, nel 1935, alle dimissioni di MacDonald, alto commissario per i rifugiati provenienti dalla Germania. L'Europa dovrebbe prendere atto che la propria società sta invecchiando e riconoscere di conseguenza che c'è bisogno di manodopera. L'insediamento dei rifugiati potrebbe essere una delle possibilità per dare nuovi stimoli ed energia alla collettività. L'Unione europea dovrebbe sviluppare opportunità per i rifugiati che sono un bene per i diversi Paesi. Al tempo stesso, fornirebbe risposte concrete ai bisogni di tanti che nei campi profughi rimangono anche dai cinque ai venti anni. Lì il tempo sembra essersi fermato, in spazi molto ridotti e senza potersi valere di alcun diritto, come quello al lavoro. Le iniziative dell'Unione europea darebbero loro speranze e opportunità, una sorta di salva-vita per il futuro dell'individuo e delle famiglie. La loro situazione e il loro arrivo nei Paesi di destinazione sono più volte strumentalizzati da diversi gruppi, anche politici, nella società. Il razzismo e la discriminazione sono sempre un ostacolo alle buone relazioni tra le persone e le nazioni, e molte volte generano conflitti interni e internazionali.

Per concludere, quali iniziative intende prendere il suo dicastero per aiutare le popolazioni del Corno d'Africa?

Il nostro Pontificio Consiglio segue con attenzione l'impegno delle Chiese locali nell'adempimento del compito pastorale. Altri dicasteri si occupano delle emergenze. Il Pontificio Consiglio Cor Unum si è fatto latore del sostegno del Papa. La Chiesa locale e diverse organizzazioni cattoliche sono attive per aiutare quanti hanno urgente bisogno di assistenza nel tempo breve, con una prospettiva a lungo termine. La fase di emergenza dovrà continuare per un certo tempo, dato che nei prossimi mesi si prevede un ulteriore deterioramento della situazione in Somalia, Kenya ed Etiopia. Bisogna prendere atto che in tutto il mondo vi sono situazioni di necessità, di fronte alle quali ci si sente impotenti per il fatto di non essere in grado di intervenire adeguatamente. Data la drammaticità della situazione occorrerebbe non meno di un miliardo di dollari solo per l'emergenza. Questo ci fa sentire non all'altezza. Bisogna comunque offrire solidarietà per non far morire di fame interi popoli. Non si può quindi rimanere indifferenti di fronte a questi eventi scioccanti. Si può salvare la vita di un bambino con un dollaro al giorno. Dovremmo attivarci e dare solidarietà. Ognuno nel suo piccolo potrebbe contribuire con una donazione. Se in questo periodo di vacanze usciamo per andare a bere o a mangiare un boccone, cerchiamo di dare anche qualcosa, offriamo «un turno» di lavoro per la Somalia. E poi c'è bisogno urgente dell'intervento reale e concreto della comunità internazionale che punti a uno sviluppo sostenibile e che ponga un freno all'aumento generalizzato dei prezzi dei generi alimentari. Un discorso a parte meriterebbe la stabilità della Somalia. E tornano alla mente le parole del Papa: «È vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e assetati!».
Questo ispira oggi l'azione del nostro Pontificio Consiglio che intende dare eco a queste parole di solidarietà verso i popoli che stanno vivendo un'immane tragedia. In un prossimo futuro il dicastero invierà un suo rappresentante per visitare quelle popolazioni martoriate e portare direttamente il conforto della Chiesa e del Papa.

(©L'Osservatore Romano 5 agosto 2011)

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