giovedì 4 agosto 2011

Jules Lebreton, teologo credente. Il profilo del gesuita francese nella riflessione di Lorenzo Cappelletti (30Giorni)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo con il permesso della Redazione di 30Giorni la seguente riflessione:

Lebreton teologo credente

Francese, gesuita, pubblicò scritti fondamentali sui primi secoli della Chiesa.
Tanti grandi nomi gli sono debitori.
Eppure nei più recenti dizionari teologici non c’è traccia di lui. Perché amava la fede della tradizione prima e più dei dibattiti dei dotti.
Un suo profilo


di Lorenzo Cappelletti

Il recentissimo Dizionario dei teologi non lo nomina. Un suo profilo non si trova neppure fra i centodieci ritratti proposti nel Lessico dei teologi del secolo XX, ultimo volume della famosissima opera dogmatica (vanta von Balthasar e Rahner fra gli eminenti collaboratori) Mysterium salutis. Eppure debitori del padre Jules Lebreton si sono riconosciuti un po’ tutti i cosiddetti grandi, da Chenu a Danielou, da Leclercq a Lyonnet, da Bouyer a Marrou, tanto che Emile Blanchet, rettore dell’Institut catholique de Paris, dando notizia della sua morte, avvenuta nel luglio 1956, scriveva che in realtà «non si saprà mai quale sia stata la profondità e l’estensione dell’influsso del padre Lebreton».
Nato a Tours nel 1873, Jules Lebreton era entrato diciassettenne nella Compagnia di Gesù e dopo aver brillantemente conseguito i gradi accademici non si era potuto sottrarre agli incarichi di docenza. Nel 1907, in piena crisi modernista, proprio a lui veniva affidata la responsabilità della cattedra di Storia delle origini cristiane, creata ex novo presso l’Institut catholique de Paris per curare il delicatissimo settore storico teologico degli studi sulla Chiesa primitiva. Padre de la Potterie ricorda di averlo incontrato a Parigi molti anni dopo e Lebreton gli confidò che quando c’era arrivato lui, nei primi anni del Novecento, «un vent glacé soufflait sur Paris».
Sarebbe stato in grado quel giovane professore di reggere al vento gelido del modernismo? Colleghi non sempre ben intenzionati si sdegnavano: «Bisogna che i vostri superiori siano pazzi per consentirvi di accettare un posto del genere». «Non ho brigato per ottenere questo posto», rispondeva Lebreton. «Mi ci chiamano. Ci vengo».

In umiltà

Questo atteggiamento di sovrana e umile indifferenza lo accompagnerà sempre. «La sua spiritualità austera era del tutto in contrasto con ogni ricerca di avventura e di evasione. Il padre non esprimeva desideri», scrive René d’Ouince nel ricordo che gli dedicò su Études del 1956. In effetti, anche dal punto di vista scientifico, il padre Lebreton spese la maggior parte della sua vita in opere che costano fatica e non portano gloria, almeno quella che si guadagna fra gli uomini marcando la propria pretesa originalità. Dio sa che cosa costa essere professore sempre disponibile per quasi un quarantennio, sintetizzare correttamente in due volumi la storia della Chiesa fino a Costantino per la grande opera diretta da Fliche e Martin, nonché essere sempre all’opera come scrittore per riviste come Études e Recherches de science religieuse (che aveva fondato nel 1910 col padre De Grandmaison e di cui dopo la morte di costui assunse anche la direzione); ma soprattutto recensire, per il Bulletin d’histoire di quest’ultima rivista, fino alla fine degli anni Quaranta, innumerevoli lavori altrui. Per mezzo secolo, le opere di una certa importanza di tutti gli esegeti neotestamentari, dei patrologi e degli storici del dogma sono passate al vaglio attento delle sue analisi critiche. Così misurate che per rintracciare un suo rilievo lo si deve leggere fra le righe. Annata trentaquattresima di Recherches de science religieuse, presentazione di Surnaturel del padre De Lubac: «Ogni cristiano sa che Dio propone come fine ultimo per la sua vita la visione beatifica, per la quale eternamente egli si unirà al suo Creatore e Salvatore; egli sa che questa visione gli è promessa e gli sarà accordata per una pura grazia di Dio; ma può domandarsi se questo fine sia stato proposto all’umanità dal momento della creazione del primo uomo o soltanto dopo la caduta, in previsione dei meriti del Redentore; in questa seconda ipotesi ci si deve rappresentare Adamo, prima del suo peccato, come orientato da Dio a una beatitudine naturale, meritata per una vita pia e giusta, quale le forze della natura potevano assicurare? Se questa ipotesi di una natura pura orientata verso un fine naturale deve essere scartata...». Come dire: quello che i cristiani devono credere lo sanno, le ipotesi sono ipotesi e non è detto che quella di natura pura vada scartata...
Il padre Lebreton lasciò incompiuta l’unica opera che gli avrebbe potuto dare gloria. L’histoire du dogme de la Trinité des origines au Concile de Nicée non arrivò a Nicea, si fermò a sant’Ireneo. Ma forse non fu un caso. La fede di Lebreton era un po’ quella di Ireneo. Come Ireneo, il padre Lebreton ­– scrive ancora René d’Ouince – «si contentava di regola di esporre con fermezza la dottrina tradizionale della Chiesa». Secondo quella medesima regula fidei che era stata di Ireneo e che fa sua nella prefazione all’Histoire du dogme: «La catena viva della nostra tradizione ci unisce ancor più strettamente e più sicuramente al passato che non i commentari degli esegeti e le dissertazioni degli storici».

Il vecchio servitore

La diffidenza verso le speculazioni della gnosi cristiana di Clemente d’Alessandria e di Origene ritorna in alcuni suoi articoli degli anni Venti (che tradotti in italiano sono diventati un libretto edito nel ’72 da Jaca Book col titolo Il disaccordo tra fede popolare e teologia dotta nella Chiesa del terzo secolo, di cui riportiamo ampi brani nelle pagine seguenti). Secondo Origene i semplici credenti sono come dei lattanti, legati a conoscenze elementari: «Non conoscono che Gesù Cristo e Gesù Cristo crocefisso, pensando che il Logos fatto carne è tutto il Logos; essi conoscono solo Cristo secondo la carne: ed è la folla di quelli che sono detti credenti».
Ebbene padre Lebreton è voluto vivere e morire come loro. Reso di nuovo come un bambino negli ultimi anni della sua vita da una grave malattia, aveva confidato a una suora anziana e malata come lui: «Lo comprendete come me, madre mia. Quel che il Signore vuole trovare nei suoi vecchi servitori è la confidenza in Lui. Un bambino non ha paura di rientrare nella casa paterna. Di mese in mese le forze diminuiscono. Questo pomeriggio andrò dal medico per delle punture mensili che m’aiutano a vivere, a pensare, a ricordarmi le cose. Quando non mi faranno più effetto lascerò perdere tutto questo e vivrò nella casa paterna come un bambino docile e fiducioso, ripetendo la parola: “Scio cui credidi. So in chi ho riposto la mia fiducia”. Non si tirerà indietro».

Un idealismo imprudente

Jules Lebreton scrisse negli anni Venti due articoli su Origene.
La teologia del maestro di Alessandria è «un idealismo che crede di avvicinarsi a Dio
perdendo di vista l’umanità di Cristo»


di Lorenzo Cappelletti

Sul numero 12 del 1922 di Recherches de science religieuse (rivista che aveva fondato nel 1910 insieme a padre De Grandmaison), il padre Jules Lebreton pubblicava un articolo dal titolo Les degrés de la connaissance religieuse d’après Origène. Sul medesimo tema, negli anni 1923 e 1924, la Revue d’histoire ecclésiastique ospitava un lungo articolo (diviso in due parti), sempre del padre Lebreton, dal titolo Le désaccord de la foi populaire e de la théologie savante dans l’Eglise chrétienne du III siècle. Con questo titolo, Il disaccordo tra fede popolare e teologia dotta nella Chiesa del terzo secolo, nel 1972, la Jaca Book pubblicava in traduzione italiana entrambi gli articoli di Lebreton, facendone un agile libretto che usciva nella collana Strumenti per un lavoro teologico (riportando – sia detto solo in vista di un’eventuale ristampa – in modo sbagliato le date del secondo articolo). Nonostante siano passati più di vent’anni, dunque, da questa edizione e più di settant’anni dalla pubblicazione degli originali, la lucidità con cui Lebreton legge l’origenismo, mettendone in rilievo la distanza dal depositum fidei, risulta insuperabile; lezione attualissima, inoltre, perché l’origenismo nel frattempo non è certo svanito.
Ci discostiamo talvolta dalla traduzione (peraltro fedele) che la Jaca Book aveva affidato a Riccardo Mazzarol. I numeri delle pagine che indichiamo fra parentesi si riferiscono al testo italiano edito da Jaca Book.

1. Dalla filosofia all’eresia

«Per i semplici fedeli, come una volta per san Clemente di Roma, il mistero della Trinità, Padre Figlio e Spirito Santo, è la fede e la speranza degli eletti; essi vedono tutto nella prospettiva della salvezza e, al centro, la croce di Cristo, la sua morte redentrice, la sua risurrezione, pegno della loro. Essi possono dire, come rimprovera loro Origene, che non conoscono che Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso. I dotti vedono nello stesso mistero la soluzione di tutti gli enigmi del mondo: come un Dio infinitamente perfetto ha potuto creare? È con il suo Verbo. Come questo Dio invisibile si è fatto conoscere? Ancora una volta con il suo Verbo. Creazione con il Verbo, rivelazione con il Verbo: sono senza dubbio delle dottrine autenticamente cristiane; ma negli scrittori anteriori esse sono considerate soprattutto nelle loro relazioni con il dogma della salvezza: se Dio ha creato il mondo è per la sua Chiesa, è per i suoi santi; queste considerazioni sono qui [presso gli alessandrini] meno evidenti, ciò che è in primo piano è il problema filosofico che preoccupava tutti i pensatori. [...] Attirati sul terreno dei filosofi, i teologi cristiani subiscono la loro influenza: la generazione del Verbo di Dio è descritta da loro in funzione del problema cosmologico: per creare il mondo, Dio, che dall’eternità ha in sé il suo Verbo, lo proferisce all’esterno» (pp. 42 43).

2. L’umanità di Gesù Cristo

Dunque quella carne che il Figlio ha preso da Maria e che è stata da lei partorita non è messa in rilievo come il luogo della salvezza, ma è funzionale alla risoluzione di un problema filosofico. «“Poiché siamo spinti”, dice Origene, “da una virtù celeste e più che celeste ad adorare unicamente il nostro Creatore, trascuriamo l’insegnamento degli inizi di Cristo, cioè l’insegnamento elementare, ed eleviamoci alla perfezione, perché la sapienza che è manifestata ai perfetti sia manifestata anche a noi” (cfr. Periarchon 4,1,7). Questa virtù “celeste” è quella che ci permette di oltrepassare l’insegnamento elementare, per raggiungere le realtà intellegibili, il mondo “celeste”» (pp. 97 98). Lebreton si affretta a notare: «Senza dubbio si tratta d’una concezione assai falsa e pericolosa dell’incarnazione del Figlio di Dio e del suo abbassamento; ma questo errore è intrinseco all’origenismo, un idealismo imprudente che crede d’avvicinarsi a Dio perdendo di vista l’umanità di Cristo» (89). Attenzione! In Origene il cristianesimo spirituale non esclude quello corporale, il cristianesimo segreto non esclude quello manifesto, il Vangelo eterno non esclude il Vangelo così come è inteso dai semplici cristiani. Addirittura scrive Lebreton che per Origene «la fede semplice, che ha per oggetto centrale Gesù Cristo crocifisso, è senza dubbio una conoscenza salutare, ma è una conoscenza elementare, come il latte dei bambini; la misericordia di Dio la propone, in mancanza di meglio, a coloro che sono troppo deboli per potersi elevare più in alto a “conoscere Dio nella sapienza di Dio”. Così non ci sorprenda di vedere Origene (cfr. Contra Celsum 3, 79) difendere questa fede dei semplici sostenendo che essa non è la migliore in assoluto, ma la migliore possibile vista l’infermità di coloro ai quali essa deve essere proposta» (p. 73). Ma proprio questa motivazione, portata a difesa della fede dei semplici, la vanifica. Lebreton riporta quel che scrive Origene nel Commento a Giovanni: «Scrive Origene: “Il vangelo che i semplici credono di capire contiene l’ombra dei misteri del Cristo. Ma il vangelo eterno, di cui parla Giovanni, e che chiameremo propriamente vangelo spirituale, presenta chiaramente, a coloro che capiscono tutto ciò che riguarda il Figlio di Dio, sia i misteri che i suoi discorsi fanno intravvedere, sia le realtà di cui le sue azioni erano i simboli. [...] Pietro e Paolo, che dapprima erano manifestamente ebrei e circoncisi, hanno ricevuto poi da Gesù la grazia di esserlo in segreto. Erano visibilmente ebrei per la salvezza della massa; non solo lo confessavano con le loro parole ma lo manifestavano con gli atti. Lo stesso si deve dire del loro cristianesimo. E, come Paolo non può soccorrere gli Ebrei secondo la carne, se, quando la ragione lo richiede, non circoncide Timoteo, e se, quando è il momento, non si taglia i capelli e non fa l’offerta, in una parola se non si fa ebreo con gli Ebrei per guadagnare gli Ebrei, così colui che si dedica alla salvezza di molti [Origene parla di sé medesimo] non può soccorrere efficacemente con il cristianesimo segreto coloro che sono ancora legati agli elementi del cristianesimo manifesto, renderli migliori e farli pervenire a ciò che è più perfetto e più elevato. Perciò bisogna che il cristianesimo sia spirituale e corporale; e quando bisogna annunciare il Vangelo corporale, e dire in mezzo a quelli che sono carnali che non si conosce altro che Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso, lo si deve fare.
Ma quando li si trova perfezionati dallo Spirito, portanti frutto in Lui e innamorati della sapienza celeste, bisogna comunicare loro il discorso che si eleva dall’incarnazione fino a ciò che era presso Dio”» (pp. 77 78).

3. La tradizione segreta

La tradizione unica della Chiesa, di cui parla Ireneo e che è affidata innanzitutto alla custodia del vescovo di Roma, si scinde inevitabilmente, a seguire Origene, in una duplice tradizione. «Da un lato la Chiesa visibile, che mostra, come in Ireneo o Tertulliano, la successione episcopale che la lega attraverso gli apostoli a Cristo; dall’altro un’élite, conosciuta solo da Dio, nascosta agli occhi degli uomini, che si richiama anch’essa a una tradizione apostolica, confidenziale però, segreta e trasmessa clandestinamente» (p. 94). Se si va a fondo non solo si scopre che le tradizioni diventano due, una exoterica (pubblica, cioè cattolica), l’altra, quella che conta, esoterica (segreta, cioè gnostica), ma anche che non trasmettono lo stesso depositum.
Né quanto all’oggetto: «L’insegnamento riservato ai semplici è quello morale; la rivelazione dei misteri, particolarmente della Trinità, è il segreto dei perfetti. [...] I due insegnamenti, l’uno proposto alla massa l’altro riservato ai perfetti, si distinguono per il loro oggetto: per gli uni l’ingiunzione dei precetti morali, per gli altri la rivelazione dei segreti divini. [...] Origene spesso oppone la conoscenza dell’umanità di Cristo a quella della sua divinità: ai carnali non si può predicare che Gesù Cristo crocifisso, ma a coloro che sono innamorati della sapienza celeste sarà rivelato il Verbo che è presso Dio. [...] In primo piano mette coloro “che partecipano al Logos che era in principio, che era presso Dio, il Logos Dio”; poi coloro “che conoscono solo Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso, pensando che il Logos fatto carne è tutto il Logos; essi conoscono solo il Cristo secondo la carne: ed è la massa di quelli che sono detti credenti”» (pp. 79-80).
Né quanto al metodo. Le verità, diverse quanto all’oggetto, lo sono anche riguardo al metodo di conoscenza: «Gli uni credono, gli altri conoscono; i primi si rifanno a un’autorità superiore garantita dai miracoli e la loro fede è fragile; i secondi contemplano le verità religiose alle quali aderiscono e la loro adesione è stabile» (p. 81).
Anzi, si può persino giungere a dire che nella tradizione pubblica non viene trasmessa nessuna verità, ma solo pie menzogne: «Ma le verità elementari che s’insegnano al popolo dei semplici sono almeno sempre delle verità in senso stretto? Origene assai spesso lo afferma e per questo verso si oppone agli gnostici, ma troviamo anche qualche pagina inquietante in cui l’insegnamento elementare appare come una menzogna salutare: Dio inganna l’anima per formarla» (p. 95).
Insomma, nel rapporto subordinato di verità elementari a verità più alte, le prime finiscono per risultare delle fole. Nelle omelie sul profeta Geremia, Origene paragona l’agire di Dio all’educazione che i grandi danno ai bambini. Secondo Origene: «Li inganniamo con degli spauracchi che dapprima sono necessari, ma di cui in seguito essi riconoscono la vanità» (p. 99).

4. Roma custode della fede

Lebreton mette bene in luce come Roma abbia fin dall’inizio resistito a questo inquinamento della fede. Delinea la contrapposizione di Ippolito a Zefirino e poi a Callisto (dalla quale sorse all’inizio del terzo secolo il primo scisma nella Sede romana) come contrapposizione di una fede dotta a una fede semplice. Lebreton ricorda come nei Philosophoumena Ippolito metta in bocca ai suoi nemici espressioni che nelle sue intenzioni dovrebbero risultare squalificanti: «Zefirino ripete: “Io non conosco che un Dio Gesù Cristo, e, al di fuori di lui, nessun Dio generato che ha sofferto”; e altre volte: «Non è il Padre che è morto, ma il Figlio”. Questi passi sono confermati dall’insieme del trattato: Ippolito è un teologo, fiero della sua scienza, grande lettore di filosofi greci, che denuncia come padri di tutte le eresie [anche questa inflessibile condanna dell’eresia a partire non dalla semplicità della tradizione ecclesiale, ma dalla cultura – ci sia permesso notarlo – è assai istruttiva: sarà la medesima in Origene e in tanti altri che devieranno dalla fede]. Ci presenta i suoi avversari: Zefirino, uno spirito limitato, Callisto, un intrigante, i loro seguaci, delle intelligenze volgari e degli animi sordidi» (p. 9).
Ora, a questa contrapposizione scismatica contro i legittimi vescovi di Roma non fu estraneo Origene. Origene arrivò a Roma, infatti, proprio all’epoca in cui era vescovo Zefirino (199 217) e aderì, sembra, allo scisma di Ippolito. Fu probabilmente per questo che qualche anno dopo, nel 230, quando Origene sarà deposto dal suo vescovo di Alessandria d’Egitto, a Roma papa Ponziano riunirà prontamente un sinodo per approvare quella decisione, condannando anch’egli Origene. Cosa che non fecero tanti altri vescovi di Arabia, Palestina, Cappadocia.
Passa qualche anno e nei confronti di un discepolo di Origene, Dionigi, divenuto vescovo nel 247 sulla sede alessandrina, l’allora vescovo di Roma (anch’egli di nome Dionigi) interviene denunciandone le tesi pericolose. Scrive Lebreton: «Di fronte a queste tesi la posizione presa da Dionigi di Roma e il suo concilio è la posizione tradizionale della Chiesa di Roma. [...] Qui, come negli altri documenti romani, quel che si trova è l’espressione autentica della fede: nessuna speculazione teologica, nessuna sottigliezza dialettica, poca erudizione scritturistica, ma la dichiarazione categorica della fede professata dalla Chiesa. Dionigi di Roma anche personalmente era uomo di grande valore: Dionigi d’Alessandria ne rende testimonianza e anche san Basilio ne fa un grande elogio, ma qui non è né l’erudito né il teologo che parla, è il Papa.
Egli non si compiace della sua parte nelle speculazioni teologiche e si preoccupa poco di quelle degli altri. Si è notato che la sua argomentazione non tien conto delle sottili distinzioni alessandrine sulle tre persone o sul doppio stato del Logos. Egli non si preoccupa che delle conclusioni più evidenti, sia che siano state formulate dagli stessi autori di queste dottrine, sia che gli sembrino nascere spontaneamente; e poiché queste conclusioni sono un pericolo per la fede le respinge, e respinge anche la teologia che le ha portate.
La lettera di Dionigi d’Alessandria, malgrado le sue imprudenze e la sua goffaggine, era sicuramente ben lontana dall’insegnamento di Ario; ma la lettera di Dionigi di Roma ha già l’accento di Nicea: stessa preoccupazione dell’unità divina, stessa fermezza sovrana e categorica nella definizione della fede. Questa barriera insuperabile, contro la quale si frantumerà sessant’anni più tardi l’eresia, è quella che ferma da allora una teologia avventurosa. I frammenti di Dionigi d’Alessandria, l’abbiamo già notato, hanno un carattere ben differente dalla lettera di Dionigi di Roma: non si trova in lui un giudice della fede, ma un esegeta, e soprattutto un metafisico innamorato delle sue belle speculazioni. Egli se ne compiace ancora in questa Apologia destinata interamente a mettere in luce la sua ortodossia, e di cui conosciamo la maggior parte dei frammenti per la scelta rispettosa e accurata fatta da sant’Atanasio. Se, malgrado la sollecitudine dello stesso scrittore e del suo difensore, il suo pensiero ci appare molto meno fermo ed esatto di quello del vescovo di Roma, concluderemo che la sua speculazione era per lui una guida meno sicura di quello che era la fede comune per Dionigi di Roma» (pp. 35 36).

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1 commento:

Anonimo ha detto...

Tra il II-III sec. Ippolito è stato il più grande ornamento della Chiesa di Roma ...riguardo a Zefino e a Callisto fece delle affermazioni che possono non piacere ma corrispondevano alla verità....i libri nell'antichità erano sempre destinatoi ai lettori che capivano...