Il ritorno dei Papa boys gli invisibili si fanno sentire
di Luca Doninelli
C’è chi infrange le vetrine a sassate per rubare iPad e iPhone, c'è chi si intrufola nelle manifestazioni sindacali per seminare violenza, c'è chi taglieggia i compagni di scuola (bullismo), chi in branco con altri violenta le coetanee, chi si ubriaca e guida contromano finché la sua bravata non produrrà qualche cadavere, chi imbratta pezzi di città dopo una nottata in giro per locali. E poi c'è l'intricato mondo di Facebook.
Per chi ha in mano le chiavi dell'informazione i «giovani» sono qualcosa del genere. Questa è l’immagine pubblica.
Il fatto è che non sappiamo parlare dei giovani.
Marcel Proust diceva che della vecchiaia abbiamo (noi che vecchi non siamo) un concetto astratto. Possiamo tranquillamente aggiornare la sua sentenza precisando che anche della gioventù abbiamo ormai una nozione astratta. Ma questo caso è molto più grave dell'altro. Ogni anno, quando si celebra la Giornata Mondiale della Gioventù, e centinaia di migliaia di giovani si danno appuntamento in una città (quest'anno a Madrid), d'un tratto il mondo dell'informazione scopre che i giovani non sono solo quelli che incendiano i motorini. Sorge un po' d’imbarazzo, ci si domanda chi sono, anche se in realtà lo sappiamo benissimo. Il fatto è che bisogna caratterizzarli, dire chi sono e cosa fanno, come quelle poche centinaia di indignados madrileni che contestano il Papa. Quelli sono pochi, magari anche cattivelli, ma almeno sono usciti allo scoperto, si sono presentati davanti al mondo. Dal punto di vista dell'informazione, loro sono qualcosa.
Ma questi altri, così più numerosi, e pacifici, capaci di farsi una settimana di preghiera e di esercizi spirituali prima dell'incontro col Pontefice? Chi sono?
Per molti sono tutti «Papa boys», anche se si tratta di una generalizzazione molto rozza. I «Papa boys» veri e propri sono un movimento dai contorni molto sfumati, e costituiscono in ogni caso solo una delle molte componenti di questo popolo multicolore. C'è chi proviene dalle parrocchie, chi dall'Opus Dei, chi dall'Azione Cattolica, chi da Cl, chi dai Neocatecumenali, chi da qualcuno dei tanti movimenti cristiani in Africa, in Sudamerica, in Asia. Questi qui non incendiano motorini, non fanno i bulli, non imbrattano i muri. È possibile che tra loro ci sia qualcuno che ha fatto anche queste cose, ma adesso non lo fanno. E allora cosa fanno? Perché non si parla mai di loro per il resto dell’anno?
La ragione, che tutti sappiamo, è molto semplice: perché hanno altro da fare che far parlare di sé. L'esposizione mediatica non aiuta molto a diventare uomini, ed è proprio questo ciò che essi fanno, e che non interessa a noi giornalisti impegnati a inseguire chi spacca le vetrine.
Ma noi, che a diversi livelli siamo operatori dell’informazione, dobbiamo sempre ricordare che esistono persone che hanno bisogno dell'informazione e altre no. I primi devono finire sui giornali o, meglio ancora, in tv, perché per loro l'esistenza è questa cosa: apparire, mettersi in mostra. E noi possiamo a nostra volta cedere alla tentazione di pensare che esista solo chi finisce nelle cronache, e così poi partiamo dalle cronache per dedurre com’è fatto il mondo. Questo sarebbe vero se tutti cercassero solo di entrare nella giostra dell'informazione. Viceversa, questi giovani c’informano che c’è tanta gente poco interessata a questo genere di cose e molto più interessata a dare un senso alla propria vita. Un importante storico francese ha dimostrato anni fa, in un bellissimo libro, che a fare la cosiddetta «modernità» sono stati proprio coloro che vi si sono opposti, i cosiddetti anti-moderni. Allo stesso modo, è probabile che a fare la storia di questi anni, a dare al mondo la possibilità di tirare avanti, a costruire il mondo di cui parleranno i giornalisti di domani siano proprio questi oscuri personaggi, la cui splendida esistenza ci si rivela una volta all’anno. Gente fuori dal circo delle opinioni che «contano», gente che preferisce non indignarsi per le solite cose di sempre, gente a cui non importa di essere coccolata dai media perché ha di meglio da fare. Il fatto che cerchiamo di etichettarli dipende forse dal fatto che abbiamo dimenticato le domande, semplici e radicali, che li muovono. Non sono domande giovanili, sono domande di tutti. Ma noi, sempre a caccia di modelli e di tendenze, tendiamo a metterle da parte, senza renderci conto che così facendo mettiamo da parte noi stessi.
© Copyright Il Giornale, 19 agosto 2011 consultabile online anche qui.
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