L'urgenza di una nuova sintesi di pensiero
Quando la teologia lancia la sua sfida
di Enrico dal Covolo
Di solito, con gli studenti mi limito a evocare l'immagine del treppiede. La sacra doctrina è come un tavolino che per stare in piedi ha bisogno almeno di tre gambe (che possono diventare quattro, a seconda di come si vedono le cose): la prima è la rivelazione biblica, la seconda la tradizione, la terza il magistero della Chiesa, alla quale rimane intimamente connessa l'eventuale quarta gamba, cioè le sollecitazioni culturali, filosofiche e morali che vengono dal presente.
Gli studi degli ultimi quarant'anni che si occupano dello statuto della teologia, fanno riferimento più o meno esplicito al numero 16 del decreto Optatam totius del Vaticano II, là dove i Padri conciliari auspicavano che le discipline teologiche fossero «rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza». Da qui ho ricavato l'immagine del treppiede: in questo denso paragrafo è delineato un approccio scientifico al dato di fede articolato in tre momenti distinti, ma ermeneuticamente complementari. Possiamo riepilogarli così: c'è anzitutto il momento fondante della Scrittura, universae theologiae veluti anima. C'è poi quello normante della tradizione ecclesiale, che comprende sia il contributo privilegiato della patristica orientale e occidentale, sia i pronunciamenti conciliari e magisteriali, nonché le elaborazioni teologiche particolarmente esemplari. C'è, infine, il momento sistematico dell'organizzazione e della sistemazione del dato di fede, da comunicare in modo sempre più appropriato nel momento presente. I primi due momenti rappresentano l'auditus fidei, che include il vaglio del dato biblico e quello della tradizione ecclesiale. Il terzo rappresenta invece l'intellectus fidei, cioè la riflessione sapienziale e l'organizzazione sistematica degli elementi essenziali del dato rivelato, come riannuncio sempre attualizzato della fede.
Ho letto la nuova edizione delle Memorie e digressioni di Giacomo Biffi. L'ormai più che ottuagenario cardinale teologo si chiede cosa sia la teologia e subito risponde: «È, come dice il nome, scientia Dei, nel senso che il suo oggetto proprio è Dio in quanto si è rivelato ed è principio e fine della comunicazione della sua vita; e nel senso che essa è una certa partecipazione al conoscere divino: quaedam impressio divinae scientiae (Summa Theologiae, i, q.1, a.3, ad 2um). Poi è scientia Christi, dal momento che ogni effusione ad extra della vita trinitaria e ogni rivelazione avviene per mezzo di Cristo, e dal momento che “piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza” (Colossesi, 1, 19). Anzi, la comprensione che Gesù ha del disegno salvifico e della realtà intera (da noi partecipata nell'atto di fede) è il principio soggettivo del teologare: egli è il primo, il massimo e l'unico vero ed esauriente teologo, al quale il cultore della sacra doctrina cerca di assimilarsi (per quel che gli riesce). Infine è scientia Ecclesiae». In definitiva, «la teologia è autocoscienza del Christus totus, che va crescendo sotto l'influsso dello Spirito Santo e mediante il lavoro di indagine, di penetrazione, di contemplazione ammirata da parte dei credenti che pensano».
Di recente, durante la consegna dei riconoscimenti ai vincitori della prima edizione del Premio Ratzinger, Benedetto XVI ha ripreso i termini della questione. Il Papa si chiedeva che cosa fosse veramente la teologia, poiché, «se è scienza della fede (...), sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza, quando è ordinata o subordinata alla fede?». La domanda sulla teologia come scienza rimane dunque attuale: «Tali questioni -- riconosce il Papa -- che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione».
Al di là delle argomentazioni successive che il Papa sviluppa, a noi interessa soprattutto la conclusione del discorso: «Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l'uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio».
In effetti, dalle sue peculiari (e per certi aspetti paradossali) caratteristiche epistemologiche la teologia ricava la propria forza di provocazione e di sfida nei confronti delle altre scienze, che appaiono oggi sempre più specializzate per metodo e contenuti, quanto più frammentate nell'universo del sapere. Il fatto che la teologia non proceda iuxta principia propria, ma dalla Parola rivelata, la spinge (con motivazioni e risorse che non appartengono alle «scienze altre») verso quella mèta ultima e complessiva di verità, a cui anela.
Certo, a questa stessa mèta concorrono in vario modo tutte le scienze, nella misura in cui esse sono (come dovrebbero essere) ministrae veritatis. Ma la teologia -- se è vera teologia, cioè fedele alla sua epistemologia autentica -- possiede un'istanza veritativa ulteriore, trasversale alle altre scienze, e ultimativa nel suo traguardo proprio.
Questo appare evidente, quando si considera che l'oggetto onnicomprensivo della teologia non è una serie di enunciati o di «noumeni» astratti, bensì la Res. La teologia, infatti, è ben consapevole che la Cosa a cui puntare è la partecipazione di grazia alla conoscenza che il Figlio incarnato, crocifisso e risorto, ha del Padre, nella comunione dello Spirito Santo. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra -- prorompe Gesù nel suo Magnificat -- perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Matteo, 11, 25-27).
Nella tradizione della Chiesa, la teologia, quale fides quaerens intellectum, pur nella pluralità delle sue espressioni storiche, si configura come quell'esercizio dell'intelligenza che nasce dall'esperienza della fede, di essa si nutre e all'accrescimento di essa è destinato. «Ho desiderato di vedere con l'intelligenza ciò che ho creduto per fede», afferma Agostino a proposito del mistero centrale della Rivelazione, la Santissima Trinità (La Trinità, 15, 28, 51).
La visione, a cui anela il desiderio che mette in moto l'intelligenza del mistero rivelato, è una penetrazione sempre più piena e una partecipazione sempre più viva a quella Verità, che è Cristo stesso (cfr. Giovanni, 14, 6). La fede vi aderisce intimamente, nella certa speranza del suo compimento inesauribile nel Regno dei cieli. Da questa intima natura della teologia deriva la forma peculiare della sua scientificità. La teologia, infatti, è scientia nel senso che è misurata rigorosamente, nella sua intenzionalità e nel suo esercizio, dall'Oggetto che le è offerto dalla Rivelazione: Dio in Cristo.
In Piccola guida per i cristiani, von Balthasar scriveva: «Non c'è scienza che possa dirsi libera nei confronti del proprio oggetto; solo grazie all'oggetto essa è una disciplina ben determinata, che si affianca a pieno diritto alle altre. Una disciplina è anzi scientifica solo se il suo metodo d'indagine corrisponde alla particolare natura dell'oggetto. Oggetto della teologia in quanto scienza è la fede cristiana, con tutte le particolarità che ineriscono alla sua natura».
Conviene riprendere a questo punto la celebre massima di san Tommaso: la teologia è scientia «in quanto procede da principi noti con il lume di una scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati» (i, q.1, a.2). In tal modo, egli collega organicamente il procedimento argomentativo della teologia scolastica, in quanto scientia, con la prospettiva neotestamentaria e patristica che vede nella fede e nella conoscenza (che da essa procede), la partecipazione di grazia alla conoscenza del Padre: ne gode anzitutto, per natura, il Verbo incarnato, ed essa si compie per gli uomini nella visio beatifica dei santi. In definitiva, la teologia è scientia solo in quanto sviluppo della scientia Dei, cioè della conoscenza (non si dimentichi il senso biblico e in definitiva mistico del verbo conoscere) che Dio ha di sé, e che ha ritenuto partecipare a noi.
Scriveva nel 1988 il cardinale Ratzinger: «La teologia non vede né prova la sua ragione ultima. È come sospesa alla “scienza dei santi”, alla loro visione, che è il punto di riferimento del pensiero teologico e ne garantisce la legittimità (...) Senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà in questione, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto e perde pure il suo carattere scientifico». Dentro a queste prospettive epistemologiche (e solo quando esse sono realmente salvate) la teologia conserva il suo valore di sfida di fronte alle «scienze altre», per il credente e per il non credente.
È illuminante, a questo riguardo, un'altra riflessione di Joseph Ratzinger, all'epoca docente di Teologia dogmatica nell'università di Tubinga, quando -- all'indomani del Vaticano II -- l'Europa era percorsa dai venti scomposti della contestazione, che sembravano scuotere le fondamenta stesse della verità.
«La forma in cui l'uomo è tenuto ad affrontare la verità dell'essere» scriveva nel 1968 in Introduzione al cristianesimo, un libro oggi più che mai attuale; la forma, dunque, «non è la scienza, bensì la comprensione, il comprendere il senso della realtà (...) Penso sia precisamente questo l'esatto significato dell'idea che ci facciamo del comprendere: che noi impariamo ad afferrare il terreno su cui ci siamo posti, intendendolo come senso della realtà e della verità».
Ebbene, «la scienza che si propone di rendere funzionale il mondo -- concludeva Ratzinger -- come ci viene oggi pomposamente comunicata dal pensiero tecnico-scientifico, non accorda ancora alcuna vera comprensione del mondo e dell'essere. La teologia, pertanto, intesa come discorso comprensivo, logico (= rationale, intellettivo-razionale) vertente su Dio, sarà sempre un compito originario e precipuo della fede cristiana. Sì, perché il comprendere scaturisce solo dalla fede». In maniera coerente, la teologia - precisamente in quanto fides quaerens intellectum -- si propone come «il luogo» della sintesi veritativa tra le scienze umane e la «scienza di Dio», a fronte della frammentarietà dei saperi.
Ecco, in ultima analisi, la grande sfida della teologia dinanzi alle «scienze altre»: coordinare, in maniera plausibile, ragione e fede.
Da parte sua, Benedetto XVI non cessa di introdurre nella riflessione ecclesiale e nel dibattito scientifico stimoli efficaci per rinnovare in questa stessa direzione la teologia e il suo insegnamento, e in definitiva per favorire quella sintesi, di cui stiamo parlando. In particolare, dovremmo rileggere alcuni suoi interventi che orientano il dialogo fra teologia e cultura contemporanea, come per esempio la celebre lezione di Ratisbona del 2006; il discorso al Collège des Bernardins del 2008; il discorso non pronunciato per l'università della Sapienza; la commemorazione, indirizzata alla Pontificia Università Lateranense, nel decimo anniversario di Fides et ratio; fino alla serie importante di discorsi pronunciati in occasione della beatificazione del cardinale Newman.
Ma non possiamo certo dimenticare le tre encicliche del Pontificato; il disegno sistematico e unitario delle catechesi del mercoledì; o opere fondamentali come il primo e il secondo volume del Gesù di Nazaret. È una messe abbondante, di cui la teologia deve far tesoro, se vuol essere «teologia autentica nell'oggi della Chiesa»: cioè capace di confrontarsi con le sfide del momento presente, a partire dalla Bibbia, dalla tradizione e dal magistero della Chiesa.
In varie occasioni ho illustrato alcuni capitoli fondamentali di questo urgente «rinnovamento teologico» proposto dal Papa: l'allargamento della ragione alle dimensioni della fede e dell'amore; il realismo della fede; l'urgenza di una nuova sintesi di pensiero, di fronte alle devastanti divaricazioni tra religione e ragione; tra teologia, filosofia e altri saperi; tra teologia razionale e dimensione contemplativa; tra esegesi cosiddetta accademica e lectio divina. Un simile rinnovamento, ne sono certo, renderà sempre più propositiva e feconda la sfida della teologia nei confronti delle altre scienze.
(©L'Osservatore Romano 7 agosto 2011)
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