mercoledì 12 ottobre 2011

«Il cimitero di Praga» di Umberto Eco e i critici tedeschi. Un fallimento di lusso (O.R.)

«Il cimitero di Praga» e i critici tedeschi

Un fallimento di lusso

Silvia Guidi

Troppo difficile e raffinato, inaccessibile alla massa, a quel volgo profano che, da Orazio in poi, ogni intellettuale d’élite che si rispetti si vanta di odiare e tenere accuratamente a distanza? No, solo troppo noioso. Irrimediabilmente noioso. Talmente noioso da risultare illeggibile, Il cimitero di Praga.
Raramente, però, compaiono sulla stampa italiana aggettivi così semplici e diretti come «noioso» e «illeggibile» quando un romanzo porta la firma di Umberto Eco; per trovarli bisogna sfogliare le rassegne stampa internazionali.
Nel lontano 1995, per citare un esempio che risale a 16 anni fa, in pochi hanno avuto il coraggio di tradurre boring con il suo sinonimo italiano, paralizzati da una sorta di timore reverenziale: nelle recensioni italiane a L’isola del giorno prima vennero sistematicamente ignorati i commenti poco entusiasti della stampa inglese, e taciute del tutto le spietate e circostanziate diagnosi di «Sunday Telegraph» e «Independent».
In tanti articoli — tra le poche eccezioni, il commento di Riccardo Orizio uscito sul «Corriere della Sera» il 2 ottobre 1995 — veniva censurato perfino l’elegante l’epiteto «L’Armani dell’Accademia» coniato da Noel Malcolm, che contemperava stima e critica, arguzia e perfidia, in difficile equilibrio tra il complimento e la stroncatura, una definizione «sbianchettata» forse per non rischiare di offendere in un colpo solo due figure simbolo del Made in Italy, il guru della moda e l’intellettuale italiano non necessariamente più apocalittico ma certamente più integrato nel mercato globale. Tanta acqua e altrettanti fiumi di inchiostro sono passati sotto i ponti, molte cose sono cambiate dagli anni Novanta a oggi ma non l’eccesso di prudenza — per usare un eufemismo — dei letterati italiani, la cronica difficoltà a chiamare le cose con il loro nome che rende provinciale e prevedibile gran parte della critica militante (non solo italiana).
Nel dilagare del conformismo automatico di giornalisti e recensori, spesso generato più dalla pigrizia che da un opportunismo consapevole, spiccano mosche bianche che confermano la regola con la loro eccezione, come la spericolata sincerità di Alfonso Berardinelli — «Se fosse per le mie opinioni critiche, i romanzi di Umberto Eco e il libro di filosofia di Severino potrebbero sprofondare nella pattumiera» — o la sfrontatezza ironica di Ken Follett («Preferirei non essere così noioso», è la battuta ad effetto che riserva a chi crede di lusingarlo paragonando i suoi romanzi a quelli del semiologo italiano).
Last but not least, l’articolo uscito il 9 ottobre scorso su «la Repubblica» alla vigilia della fiera del libro di Francoforte, in cui Andrea Tarquini osa citare una doppia critica all’ultimo libro appena uscito in Germania, una stroncatura bipartisan si direbbe in politichese, perché firmata dai critici letterari della liberalprogressista «Süddeutsche Zeitung» e della liberalconservatrice «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Secondo la prima, Il cimitero di Praga «è, nel migliore dei casi, un fallimento di alto livello, un noioso ammasso di inverosimiglianze grottesche».
Non appena ci si addentra nella storia reale, continua il quotidiano di Monaco, il romanzo smette di interessare; come testo letterario non è né particolarmente avvincente né divertente e come opera storica risente di un errore strutturale. Non meno duro è il giudizio della «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: dopo le prime trecento pagine «non si tratta più di un romanzo ma di uno schedario di persone, mappe stradali e bibliografia», mentre «si leggono di continuo note a pié di pagina senza notare altra cosa se non che il libro prima o poi dà sui nervi, poiché hai capito da tempo ciò che voleva dirti».
Umberto Eco, chiosa Gustav Seibt sul quotidiano di Monaco, questa volta se l’è presa comoda: «Il cimitero di Praga non centra quello che è proprio il punto più importante del materiale: la storia collettiva della nascita e l’effetto collettivo dei Protocolli dei Savi di Sion. Alla scrittura di questo testo tremendo hanno collaborato tre generazioni, e i suoi effetti perdurano da oltre un secolo. Dinanzi alla bassezza dello scritto, questo è molto più misterioso perfino della cloaca di Parigi, nella quale l’assassino Simonini getta i cadaveri. Umberto Eco ha sempre voluto essere uno scrittore dell’illuminismo, ma questa volta si è reso le cose troppo facili».
Cadendo nella trappola dello sfoggio di erudizione fine a se stesso ed esponendosi al rischio già chiaramente percepito e oggetto di dibattito tra gli oulipienes più seri negli anni Sessanta del Novecento (OuLiPo è l’acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, l’officina matematico-artistica nata dal sogno di fondere letteratura e scienze esatte): quello di comporre un’opera che diverte molto chi la scrive ma pochissimo chi la legge.

(©L'Osservatore Romano 13 ottobre 2011)

:-)

5 commenti:

mariateresa ha detto...

eheheheh
vai avanti tu che mi viene da ridere.

Anonimo ha detto...

ihihihihihihih! Come godooo:-))))))
Alessia

Anonimo ha detto...

Una stroncatura elegante, colta, raffinata e di gustosa lettura.
Ad Eco piacerebbe saper scrivere così.
Complimenti davvero all'O.R. Buon segno.
Alberto

Anonimo ha detto...

I Critici Italiani hanno gli occhi foderati di prosciutto (di Praga).


(Ehy, è un mero non sense!:)

Anonimo ha detto...

Chi ha detto che la vendetta è un piatto che si gusta freddo?
:-)))
Alessia