La lettera apostolica di Benedetto XVI
Noi come Lidia, apriamo la nostra casa alla fede
Pierangelo Sequeri
Lidia era un’imprenditrice del mondo della moda, originaria di Tiatira, città dell’Asia Minore famosa per l’industria della porpora, tintura di pregio, difficile e laboriosa da ottenere. La qualità del colore della porpora, destinato alla tintura delle stoffe, era un segno distintivo delle classi elevate, per censo, potere, ricchezza.
Nell’antica Roma era il colore regale per eccellenza. In tempi di repubblica, il suo impiego fu regolamentato con cura e ridotto a semplice segno: i senatori avevano diritto a una fascia di porpora larga, i cavalieri potevano fregiarsi di una striscia più stretta. Il caso di Lidia ha molto colpito la memoria cristiana delle origini (se ne parla negli Atti degli Apostoli, al capitolo 16).
Il Papa Benedetto XVI, nella sua lettera apostolica Porta fidei diffusa ieri, cita la storia di Lidia come un esempio «quanto mai eloquente» per capire come la grazia della fede arriva diritto alla porta del cuore, aprendo la casa per un’alleanza nuova fra gli uomini.
Racconta san Luca che Paolo, mentre appunto si trovava a Filippi, andò ad annunciare il vangelo a un gruppo di donne raccolte per la preghiera, sedendosi lungo il fiume (a Filippi non c’era la sinagoga per la preghiera, dunque il raduno era nel luogo rituale e simbolico dell’acqua). Dopo che Lidia ebbe ascoltato, racconta sobriamente Luca, «il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo». Fu dunque battezzata, insieme alla sua famiglia.
Dopo aver ricevuto il battesimo, insistette perché fosse accettata l’accoglienza della sua casa, per l’ospitalità di Paolo e il raduno dei fratelli. Disponibilità non estemporanea, e infine anche coraggiosa. Paolo e il suo accompagnatore, infatti, poterono ancora contare sulla sua ospitalità, in un frangente difficile: aggrediti da un gruppo di faziosi, sobillati ad arte, e dopo un avventuroso fermo di polizia miracolosamente trasformato in evento di commossa ospitalità (Atti 16, 25-40). La porta della fede, dice il Papa, è nel cuore.
Ma non si tratta di affari di cuore, nel senso, ahimè, più comune. La fede deve ridiventare la sorpresa di riconoscermi parte in causa del mistero di Dio, che mi riguarda. Un mistero nel quale non avrei immaginato di trovarmi: e invece mi trovo. La soglia della fede deve essere varcata in semplicità e bellezza, abitata con intelligenza e stile, vissuta con seria determinazione e testimoniata con riconoscenza umile e lieta.
La porta della fede non introduce nell’irrazionale e nell’oscuro. Porta fuori, semmai, dalla routine di una religione ridotta all’arredo sentimentale del tempo libero, alla rassegnazione rituale dello scongiuro, alla soggezione del pensiero di fronte alla morte. La fede cristiana trasforma la casa e il tempio in luoghi di accoglienza, per la vita che deve venire. Restituisce al modo migliore di custodire il rapporto di Dio e della città, affinché la terra non sia abitata invano. «Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato.
La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo "stare con Lui" introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede». La fede, però, non è semplicemente il presupposto delle nostre opere mondane. E l’opera di Dio in noi, che porta la verità delle nostre opere oltre la barriera della morte. Spendersi per una società migliore è sacrosanto.
Ma se va perduta la certezza della passione di Dio, che apre il cuore della vita oltre la morte, nessuna passione civile reggerà abbastanza a lungo nel cuore degli uomini. Nemmeno Lidia se l’aspettava, eppure è successo. Lidia ha aperto la porta della sua casa. E nessuna faziosità, di nessun genere, ha potuto imporle di chiuderla di nuovo.
© Copyright Avvenire, 18 ottobre 2011 consultabile online anche qui.
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