venerdì 5 agosto 2011

Il ritorno alla semplicità della fede cattolica. Il Credo degli apostoli, il sacramento della confessione, l’adorazione dell’Eucaristia, l’invito ai lontani a ritornare alla Chiesa. Conversazione con l’arcivescovo di Washington, card. Donald Wuerl (Cubeddu)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo, con il permesso della Redazione di 30Giorni, la seguente intervista. Grazie ancora :-)
R.

ANTICIPAZIONE DEL MENSILE 30GIORNI DIRETTO DAL SENATORE GIULIO ANDREOTTI. LA RIVISTA SARA’ IN EDICOLA E IN LIBRERIA GIOVEDI’ 11 AGOSTO

Il Credo degli apostoli, il sacramento della confessione, l’adorazione dell’Eucaristia, l’invito ai lontani a ritornare alla Chiesa. Conversazione con l’arcivescovo di Washington cardinale Donald Wuerl

Il ritorno alla semplicità della fede cattolica

di Giovanni Cubeddu

Incontriamo il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, il 29 giugno presso il centro pastorale della diocesi.

Eminenza, lei è il vescovo della diocesi di una capitale così importante, che è ancora la “capitale del mondo”. Leggendo le sue lettere pastorali si resta colpiti dal fatto che lei si rivolge sempre alle persone che si sono allontanate. Sembra essere questa la sua principale sollecitudine.

Donald WUERL: È ciò di cui consiste la nuova evangelizzazione, ed è il motivo per cui nell’arcidiocesi di Washington abbiamo fatto della nuova evangelizzazione il nostro obiettivo. È la lente attraverso cui vogliamo vedere tutto quello che facciamo, invitando la gente a tornare alla fede e invitando i giovani a iniziare a stimare, capire e vivere la nostra fede cattolica.
La ragione per cui ho scritto la lettera pastorale sulla nuova evangelizzazione lo scorso anno Disciples of the Lord: sharing the vision (Discepoli del Signore: la condivisione di una visione) è stata precisamente l’esistenza di una generazione di cattolici che sono battezzati ma non sono praticanti. Si tratta in massima parte di cattolici che hanno ricevuto una catechesi assai misera durante gli anni Settanta e Ottanta, e in parte anche Novanta. Abbiamo vissuto negli Stati Uniti un periodo in cui non c’era una chiara attenzione a ciò che veniva insegnato e ai testi catechistici e teologici che venivano forniti per l’istruzione dei nostri giovani. Il risultato è che, unitamente all’influenza della rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta, molti cattolici hanno semplicemente smesso di venire in chiesa. Si considerano cattolici ma non partecipano alla vita della Chiesa. Quando papa Giovanni Paolo II cominciò a parlare così insistentemente del bisogno di una nuova evangelizzazione, e noi iniziammo a comprendere quanto fosse importante invitare la gente a tornare, e quando poi papa Benedetto XVI istituì il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, in questa arcidiocesi decidemmo che l’evangelizzazione sarebbe stata il cuore di tutti i nostri tentativi. Vogliamo assicurarci che coloro che si sono allontanati siano chiamati a ritornare. Un esempio è questo invito al sacramento della confessione che abbiamo chiamato “The light is on for you” [La luce è accesa per te, ndr].
Nel tentativo di riproporre il sacramento della riconciliazione abbiamo offerto la possibilità di accostarsi al sacramento della confessione in tutte le parrocchie dell’arcidiocesi durante la Quaresima, per cinque anni consecutivi.
Abbiamo semplicemente fatto in modo che nella comunità chiunque – cattolico, non cattolico, chiunque – sapesse che il sacramento della confessione è una cosa che i cattolici fanno e che in ognuna delle nostre chiese, ogni mercoledì di Quaresima, dalle 6.30 alle 8.00 di sera, c’è un prete in attesa di ascoltare le confessioni e di dire “ben tornato!”. Così abbiamo reclamizzato sulla metropolitana, alla radio, sugli autobus e con i cartelloni pubblicitari questo invito a tornare a casa. Ora, in altre diocesi del Paese e in Canada hanno ripreso quest’iniziativa.

Lei è molto immediato e concreto nelle sue catechesi. Nella sua lettera pastorale God’s mercy and loving presence (La misericordia di Dio e la presenza amorosa) ha suggerito ai sacerdoti, ai religiosi e ai laici dell’arcidiocesi di continuare con le confessioni e ha anche consigliato al popolo di partecipare insieme all’adorazione eucaristica, seguendo l’esempio di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che lei cita nei suoi scritti. È stato come se lei dicesse: «I sacramenti sono la risposta».

Assolutamente sì, e quando noi vescovi degli Stati Uniti ci siamo riuniti qualche anno fa, abbiamo detto che occorreva fissare delle priorità per la Chiesa del nostro Paese. E davvero, la prima delle priorità, su cui tutti noi ci siamo trovati d’accordo, è evangelizzare e fare catechesi sui sacramenti, riportare la gente ai sacramenti. È una cosa di tale buon senso... Gesù, il Verbo incarnato, quando si preparava a tornare al Padre nella gloria, stabilì una Chiesa che gli assomigliasse, che fosse spirituale e visibile, che avesse lo Spirito Santo benché fosse fatta di esseri umani. Il Concilio Vaticano II parla della Chiesa come del grande sacramento. Gesù ha istituito i sacramenti così che a Lui fosse possibile toccarci, e noi potessimo toccarlo. Tra tutti questi grandi momenti di incontro, al vertice c’è l’Eucaristia. Gesù ha detto: «Fate questo in memoria di me». E noi abbiamo capito che ogni volta che l’avessimo fatto, Lui sarebbe stato con noi. Credo che i nostri giovani si rendano conto che questo non soltanto è semplice, ma è vero. Ciò che oggi chiediamo di fare ai nostri giovani è dare la risposta che Pietro diede quando Gesù domandò ai discepoli: «Voi chi dite che io sia?». Questa è la domanda che rivolgiamo ai nostri ragazzi: «Voi chi dite che sia Gesù?». Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Stiamo aiutando i nostri giovani a fare la medesima professione di fede – a dire a Gesù Cristo «tu sei il Figlio di Dio, io credo in te». E ci accorgiamo che i nostri giovani rispondono. Non è complicato. Quando Gesù parlava non era difficile da capire. A mio giudizio succede che la risposta di fede finisce per essere ricoperta da parametri che sono mondani. Per questo i nostri giovani oggi ci stanno chiedendo: «Parlateci di Gesù, parlateci del suo Vangelo».

Nella sua lettera pastorale del 2007, God’s Mercy and the Sacrament of Penance (La misericordia di Dio e il sacramento della penitenza), lei ricorda che la «nuova creazione» è semplicemente un uomo che è redento.

San Paolo ci dice che la battaglia dentro di noi è tra l’uomo vecchio che vuole resistere ancora e l’uomo nuovo, la nuova creazione che si manifesta, l’uomo in grazia, l’uomo che viene redento nella grazia. Non è forse proprio quel che Gesù è venuto a fare? Risanare tutto ciò che era rotto. La nuova creazione, la creazione di grazia, è il Regno – la presenza di Dio, della pace, dell’amore, della giustizia, della compassione, della guarigione. La nuova creazione comincia per ciascuno di noi nel battesimo. Ciascuno diventa nel battesimo creatura della nuova creazione. Solo che la vecchia creazione sta ancora combattendo per tenerci in pugno e la nuova creazione cerca di fare breccia in tutto questo. Ognuno di noi è un cittadino del Regno. E il Regno viene proprio ora, ogni volta che un credente, uno che segue Cristo, agisce nella benevolenza, nell’amore, nella verità e nella giustizia. Tutte le azioni che rendono visibile la presenza di Cristo in noi sono ciò che fa esistere il Regno. Una volta un uomo che si era presentato come ateo mi chiese: «Che cosa porta nel mondo gente come voi?», intendendo con «gente come voi» la Chiesa. Gli risposi: «A che cosa sarebbe assomigliato il mondo se nei secoli passati, nei millenni trascorsi, non ci fossero stati insegnati i dieci comandamenti? Se non ci fosse stato detto che siamo tenuti a trattarci l’un l’altro con dignità, se non ci fosse stato detto che siamo chiamati all’amore reciproco e alla cura dell’ultimo dei nostri fratelli? Come crede sarebbe stato il mondo?». E lui replicò, e va a suo onore: «Sarebbe stato un macello». Questi sono tutti segni del Regno che fa breccia nel mondo.
Una delle gioie dell’essere vescovo è che devi muoverti in tutta la diocesi. Nelle parrocchie di questa Chiesa locale vedo gente che vive la propria fede e prova a seguire Cristo crescendo i propri figli, provando ad aiutare i propri figli a seguire la via di Cristo. Si vedono persone che si prendono cura degli anziani e dei malati, che vengono incontro a chi è bisognoso, provando a fare tutte le cose che Gesù ha detto.

I cattolici anche negli Usa vivono nel mezzo di forze che spesso si oppongono. Da un lato, come ricordano i vescovi statunitensi nel documento In support of Catechetical Ministry (In aiuto del ministero del catechismo) «viviamo in una società sempre più secolarizzata e materialistica», dall’altro lato, ci sono le minoranze ispaniche, di colore e asiatiche che sono portatrici di un approccio differente...

Tra le cose che noi riconosciamo e che Papa Benedetto XVI ci ha ricordato venendo qui tre anni fa nel 2008 penso ci siano le tre barriere alla proclamazione del Vangelo negli Stati Uniti che sono il secolarismo, il materialismo e l’individualismo. Tutto ciò è sempre più evidente nella nostra cultura. Molto di quanto ci viene proposto come cultura americana è generato dalle industrie dell’intrattenimento e dell’informazione. Una volta che si va fra la gente, nelle parrocchie, nel mondo dove le persone lavorano, c’è davvero ancora molto dei valori cristiani di base. Raramente ne sentiamo parlare nei media. Quei valori vengono censurati. Qualunque cosa abbia a che vedere con la religione, la fede, la spiritualità della gente viene censurata e siamo tentati di credere che quanto vediamo in tv o sentiamo alla radio o leggiamo sui giornali sia tutto. Non lo è. Ma d’altro canto, come lei suggeriva, abbiamo oggi tutti questi migranti che arrivano. In questa arcidiocesi celebriamo la messa in venti lingue diverse ogni fine settimana… venti! È una benedizione questo riflesso della Chiesa universale, in questa capitale degli Stati Uniti. Gli immigrati portano con sé la ricchezza della fede. Molti tra loro portano con sé un senso della comunità e della famiglia che è così drammaticamente necessario nei nostri Stati Uniti secolarizzati. Stiamo assistendo all’introduzione di ciò che viene definito il “matrimonio omosessuale”, come se il matrimonio non fosse già la realtà verificabile di un uomo e di una donna che si uniscono, promettendo di vivere insieme, di generare e allevare figli. Gli immigrati portano con sé un senso di comunità e di comunione ecclesiale. La loro esperienza della fede è un’esperienza che include la Chiesa e di conseguenza la dottrina cristiana, la tradizione apostolica e i vescovi come successori degli apostoli. Ciò si distacca dall’eredità protestante radicata negli Stati Uniti secondo cui «Gesù è il mio salvatore, e non ho bisogno di nient’altro». La Chiesa cattolica ha sempre detto invece che «Gesù ha istituito una famiglia, una famiglia di fede». Parte del compito che abbiamo di fronte, a seguito dell’afflusso degli immigrati, è la necessità di sostenere i valori tradizionali della famiglia e della comunità.

Nel documento prima citato i vescovi statunitensi sottolineano che i valori democratici sono una cosa, mentre un’altra cosa è la fede cattolica. Tenendo presente questa chiara distinzione, come si rapporta ai poteri civili?

Penso che ci siano un paio di cose da tenere a mente. La prima: questa è una società democratica e pluralistica. La seconda: che come vescovo della Chiesa cattolica ho un messaggio da portare a questa società democratica e pluralistica. Alla cerimonia della presa di possesso della diocesi, cinque anni fa, dissi nell’omelia che parte della responsabilità della Chiesa nella capitale della nostra nazione, in questa “capitale del mondo”, è di annunciare il Vangelo in mezzo a tutte le altre voci. Non condanniamo le altre voci ma ci aspettiamo di avere la libertà di far udire la nostra voce. La mia esperienza a Washington è che se tu sei preparato al dialogo, a discutere e ad ascoltare, allora talvolta hai la possibilità di portare il Vangelo all’interno della discussione. È molto importante per la Chiesa essere presente. Deve essere presente negli sforzi in corso che caratterizzano l’ambiente politico, sociale e culturale. Dobbiamo solo essere fedeli a noi stessi. Dobbiamo essere fedeli al Vangelo, chiari nel dire ciò che è e ciò che non è, cos’è giusto e cos’è sbagliato. Un esempio di ciò è la voce dell’arcidiocesi nel movimento per la vita, motivo per cui siamo così fieri di avere ogni anno un raduno di giovani e la messa per la vita. L’anno scorso c’erano trentacinquemila ragazzi, ventimila alla messa nel Verizon Center, diecimila al D.C. Armory e altri cinquemila nelle chiese di tutta l’arcidiocesi. Attraverso le voci di tutti questi giovani, la Chiesa diceva semplicemente, nel mondo politico in cui viviamo, che la vita umana è un dono di Dio.

Nel suo Paese i dibattiti sulla riforma sanitaria non sono terminati. La Chiesa cattolica non può appoggiare chi favorisce l’aborto, ma questo è ben differente dall’opporsi a una legge che garantisce un’assistenza sociale e sanitaria a persone che non avrebbero mai potuto permettersela. Talvolta sembra che la Chiesa cattolica negli Usa si sia solo impegnata nella battaglia pro life (per la vita), in una battaglia contro il governo.

Questo è il modo in cui viene talvolta dipinta la Chiesa cattolica, come fosse interessata soltanto al tentativo di abolire l’aborto. A parte il governo, negli Stati Uniti il maggiore fornitore di cure è la Chiesa cattolica. Siamo in tutti i livelli dell’assistenza sanitaria, dell’amministrazione del servizio sociale, della cura dei senza dimora, dando sostentamento ai poveri tramite le banche del cibo e le dispense parrocchiali. Siamo anche, sempre dopo il governo, il maggior ente dedito all’istruzione, particolarmente dei poveri e dei bisognosi. La Chiesa cattolica è impegnata in tutto ciò che è legato al comando che Gesù ci ha dato di nutrire gli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi e visitare gli ammalati e i carcerati. Lo stiamo facendo. Ma non veniamo mai raffigurati in questo modo, non otteniamo alcun riconoscimento. Nel 2007 i vescovi americani hanno pubblicato un documento chiamato Faithful citizenship (Cittadinanza fedele), che è una guida per i cattolici che entrano nel processo elettorale. Credo che quel testo contenga un insegnamento molto solido. E ha goduto dell’unanime consenso dei vescovi statunitensi. Faithful citizenship dice ai cattolici e a chiunque lo legga che c’è un ampio raggio di temi, e che occorre considerarli tutti. Gesù ci chiede di aver cura della donna quando partorisce il suo bambino, ma poi di assistere entrambi, come pure di accudire gli anziani e chi necessita di assistenza. Tutte queste cose sono parte del grande quadro di riferimento del servizio della giustizia sociale cattolica.

Oggi è la festa dei santi Pietro e Paolo. Stamani, alla messa mattutina nel Franciscan monastery of the Holy Land qui a Washington, ho ascoltato il sacerdote dire nell’omelia che il Signore ha tratto due grandi santi da due personalità improbabili: un pescatore e un persecutore.

È il modo in cui lavora il Signore. Chi avrebbe pensato… che la roccia su cui Cristo avrebbe costruito la sua Chiesa sarebbe stata un rozzo e impetuoso pescatore... Eppure con la grazia di Dio egli divenne la roccia su cui poggia la Chiesa. E c’era Paolo, che perseguitava la Chiesa, e con la grazia di Dio egli divenne il canale per rivelare che la Chiesa e Gesù sono una cosa sola. Quando Saulo chiese: «Chi sei tu?», la voce gli rispose: «Io sono Gesù che tu perseguiti». La Chiesa e Cristo sono una cosa sola. Paolo fu il tramite di quella rivelazione. Stamattina, celebrando la messa, ho detto che non si possono celebrare i santi Pietro e Paolo senza riconoscere che abbiamo un legame con Roma.
Quando ho avuto il grande privilegio di prendere possesso della chiesa titolare di San Pietro in Vincoli a Roma, ho ricordato alle persone presenti che tutti abbiamo un legame speciale, ogni cattolico ha un legame con Pietro. L’abbiamo perché egli è la pietra di paragone della nostra fede. Oggi vive, oggi porta il nome di Benedetto ed è Pietro a cui ci rivolgiamo quando vogliamo sapere che cosa oggi ci dice Gesù.

Come arcivescovo di Washington qual è la sua esperienza più cara?

Per me, oggi, il tratto più gioioso della Chiesa è accorgersi che siamo nel bel mezzo di una nuova evangelizzazione. Assomigliamo alla Chiesa dell’inizio, che esce fuori e dice alla gente per la prima volta chi è Gesù. Egli è risorto, è con noi. Oggi tanta gente sta ascoltando questo per la prima volta. Credono di averlo sentito e di saperlo già, ma in realtà lo stanno ascoltando forse per la prima volta. L’emozione è che oggi la Chiesa si apre a un futuro totalmente nuovo, ed è motivo per essere contenti. Tra cinquant’anni la gente guarderà indietro e magari dirà che quelli erano i giorni in cui l’intero rinnovamento della Chiesa stava cominciando.

In uno dei suoi articoli recentemente ha scritto: «Non tanto tempo fa, finita la messa di Pasqua, un uomo s’avvicinò chiedendomi se veramente avessi inteso affermare quello che aveva ascoltato nell’omelia: “Lei ha detto che Gesù risuscitò nel suo corpo, non unicamente nel suo messaggio”».

Egli è risorto. In certe scuole la gente può aver ricevuto l’insegnamento che la risurrezione era più che altro un modo di dire, e che Egli era risorto nel senso della sua capacità di influire. Noi diciamo: «No, no! È risorto nel Suo corpo». Una volta all’università uno dei miei studenti mi disse: «Lei afferma che Gesù è risuscitato dai morti». «Sì, perché è quanto la Chiesa c’insegna», risposi. E lui: «Bene, ma lei intende proprio nel suo corpo e…». «Sì, questo è ciò in cui consiste la risurrezione», dissi. Lui non sapeva che la Chiesa crede questo. Ora lo sa. Sono contento di raccontare ai giovani chi è veramente Gesù. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è il Credo degli apostoli. Quando sono a Roma risiedo sempre al Pontificio Collegio Nordamericano, perché è stato il mio seminario ed è lì che ancora oggi vanno i seminaristi di Washington. Ogni volta che ci vado porto tutti i seminaristi di Washington alla Basilica di San Pietro. Diciamo la messa alle 7 di mattina, poi risaliamo dalla cripta e ci mettiamo davanti all’altare della confessione per recitare tutti insieme il Credo degli apostoli. E dico a loro: «È proprio il posto giusto, questo».

Biografia

Nato a Pittsburgh, in Pennsylvania, 71 anni fa, Donald William Wuerl viene ordinato sacerdote nel 1966, dopo aver studiato, tra l’altro, al Pontifical North American College, il seminario americano di Roma. È nominato vescovo nel gennaio 1986 da papa Giovanni Paolo II. Dopo due anni a Seattle, viene trasferito nella sua città natale. Nel 2006 Benedetto XVI lo sceglie per l’arcidiocesi di Washington. Nel 2008 l’arcivescovo Wuerl ospita papa Benedetto durante il suo viaggio apostolico negli Stati Uniti, e nel concistoro del novembre 2010 viene creato cardinale. Nel maggio scorso ha preso possesso della Basilica di cui è titolare a Roma, San Pietro in Vincoli.

© Copyright 30Giorni, agosto 2011

3 commenti:

Andrea ha detto...

E' "il posto giusto" (ultima frase dell'intervista) perché lì c'è la Tomba di Pietro (Cefa). Papa Paolo VI confermò ufficialmente il ritrovamento delle reliquie dell'Apostolo.

Su tale "pietra" è edificata la Chiesa. Tomba a Roma, Sepolcro Vuoto a Gerusalemme: Vicario in terra e Signore in cielo.

Anonimo ha detto...

Mi viene il dubbio che tu abbia già pubblicato questo articolo di di Don Di Giacomo, ma tant'è :-)
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201108/110804digiacomo.pdf
Alessia

Raffaella ha detto...

Grazie Alessia :-))