domenica 27 novembre 2011

A colloquio con l'arcivescovo di New York Timothy Michael Dolan (O.R.)

A colloquio con l'arcivescovo di New York Timothy Michael Dolan

Senza la voce dei cristiani l'America sarebbe più povera

di Mary Nolan

Se in America tacesse la voce dei cristiani, la società risulterebbe più povera. Ne è convinto monsignor Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, che in questa intervista al nostro giornale -- rilasciata in occasione della visita ad limina Apostolorum -- parla della realtà sociale e religiosa del Paese.

Di fronte alla crisi e alle proteste dei cosiddetti «indignados» l'opinione pubblica è chiamata a riflettere sul modello economico finora applicato negli Stati Uniti d'America. Crede che corrisponda alle vere esigenze dell'uomo?

La crisi economica contro cui si lotta nel mio Paese e nel resto del mondo lancia a noi cattolici la sfida di una moralità più autentica. In risposta a qualsiasi tipo di crisi -- economica, politica, spirituale -- siamo chiamati a indicare i valori evangelici. Noi vescovi per primi cerchiamo di dare risposte, non come economisti né come uomini d'affari, ma come pastori. Che cosa ne direbbe Gesù? Credo che coglierebbe questa opportunità per predicare contro l'egoismo. Un'altra lezione da apprendere è che un mercato senza moralità ed etica è causa di ulteriori problemi. Cercare poi di costruire un'economia senza attenzione per i poveri e per gli svantaggiati è sempre sbagliato. Questi sono i valori che insegniamo con le parole; ed è ora di metterli in pratica perché la gente ne ha bisogno. Fra gli estremi del socialismo e del capitalismo senza freni ci può essere un'economia vibrante, nella quale la libertà si coniuga con il rispetto e la dignità della persona. D'altronde, si tratta di valori evangelici. Non tocca alla Chiesa indicare i modi concreti. Tuttavia essa non si stanca mai di ricordare alle persone i principi sui quali si basa una economia sana.

È noto l'impegno dei vescovi americani a favore della vita. Come opera in questo ambito l'arcidiocesi di New York?

In certo modo tutta la nostra azione nell'ambito della giustizia sociale consiste nel sensibilizzare al rispetto per la vita. Vogliamo essere luce per il mondo nel rispetto per la vita, dal concepimento fino alla morte naturale. E come ci ha detto Giovanni Paolo II nell'autunno del 1979, ovunque la vita umana venga sminuita, compromessa o minacciata la Chiesa si solleverà e dirà: no, la vita è sacra. Tutto ciò che facciamo, educazione, predicazione, carità, è attività a favore della vita. Fin dagli inizi la Chiesa è stata in prima linea nell'accoglienza degli immigrati e nell'aiuto alle donne in attesa che vivono una situazione difficile. La Chiesa difende madri e figli, accudisce i detenuti, i malati e i morenti. E anche persone contrarie alla Chiesa nella mia diocesi apprezzano quel che facciamo. Edward Koch, sindaco di New York dal 1978 al 1989, che non era cattolico, ebbe a dire: «Senza la Chiesa cattolica a New York non so come faremmo. È il collante che ci tiene uniti».

I servizi sociali della diocesi assistono ogni anno migliaia persone. In quale modo venite incontro ai bisogni delle tante persone che non hanno tutela sanitaria?

I nostri ospedali cattolici accolgono molte persone. Non chiediamo loro né il passaporto, né il tesserino dell'assicurazione. Purtroppo, le richieste di quanti non hanno un'assicurazione sociale stanno crescendo a tal punto che da soli non ce la possiamo fare. Noi crediamo che l'assistenza sanitaria debba essere universale e debba comprendere anche i nascituri e i morenti. Quindi non solo la Chiesa offre servizi, ma esorta anche a una comune responsabilità nell'assistenza sanitaria universale.

La libertà religiosa è un caposaldo della Costituzione americana. Negli ultimi tempi vi sono state delle deroghe a questo diritto. Come le giudica?

Non nascondo che noi vescovi siamo preoccupati. Siamo lusingati del fatto che il resto del mondo abbia guardato agli Stati Uniti d'America come a un faro della libertà religiosa. Ma siamo preoccupati per il fatto che nel Paese alcune persone non credono più che si tratti di un diritto essenziale. Tuttavia dobbiamo ricordare loro che la libertà di religione si trova iscritta al primo posto del Bill of Rights; e, come ci ricorda il Papa, è in quella posizione perché se la perdiamo, perdiamo tutte le altre libertà. Ci preoccupano le insidie «filosofiche» alla libertà di religione e anche la minaccia programmatica contro di essa. Molti nella nostra cultura considerano la religione soltanto come uno strano passatempo personale: ammettono che la si possa praticare a livello di culto, ma non che se ne possano propugnare i valori in ambito pubblico. Vogliono eliminare la voce della religione dalla pubblica arena. Rispondiamo che questo è contrario al sogno americano e anche dannoso. La stessa guerra della nostra rivoluzione, la lotta allo schiavitù, il movimento per i diritti civili o il movimento per la vita hanno avuto un'ispirazione religiosa. Se avessimo messo del nastro adesivo sulle bocche dei credenti, probabilmente nessuno di questi movimenti sarebbe esistito. Molti dicono anche che la Chiesa dovrebbe abbandonare i suoi principi ideali più cari per continuare a svolgere il proprio ruolo nella carità. Ma la nostra fede ci dice di aiutare le persone indipendentemente da passaporti o dai certificati di nascita. E noi le aiutiamo. Ci preoccupiamo, piuttosto, quando le norme governative vietano di finanziare programmi di aiuto a meno che questi ultimi non includano anche l'aborto. Non possiamo farlo. In passato, il Governo non ha interferito e ha sempre rispettato il primato della coscienza. Se si fa tacere la religione, si impoverisce l'America.

Come è cambiata la vita degli abitanti di New York dopo l'attentato dell'11 settembre 2001?

Molto. In primo luogo, purtroppo, in senso negativo, perché c'è una maggiore percezione di paura e di sospetto. Gli abitanti sono preoccupati che venga compiuto un nuovo attentato e ciò diffonde insicurezza e sospetto. In senso positivo, direi che godiamo ancora della solidarietà scaturita da quel giorno. I newyorkesi dicono: «Non si tratta dell'11 settembre, ma del 12 settembre». Abbiamo ricominciato il giorno dopo, abbiamo ricostruito, ci siamo riuniti non solo per i soccorsi, ma come comunità. I cittadini non si sono mai sentiti una cosa sola come quando sono stati sotto attacco. Secondo molti, dopo quella data, c'è stato anche un ritorno a Dio. In quell'occasione abbiamo osservato la tenerezza e la fragilità della vita umana. Abbiamo sperimentato che la vita è sacra e per questo abbiamo voluto metterla nelle mani provvidenziali di Dio, perché lui e solo lui è il nostro rifugio e la nostra forza.

(©L'Osservatore Romano 27 novembre 2011)

2 commenti:

mariateresa ha detto...

cara, buongiorno. Forse vedo doppio ma mi sembra che il titolo sia ripetuto due volte. Buona domenica!!!!

Raffaella ha detto...

Buongiorno carissima!
Non sei tu che vedi doppio, ma io che vedo la meta' :-))
Ronfffffffffffffffff...
:-)
R.