Significato e prospettive del recente viaggio apostolico di Benedetto XVI in Benin
Si è aperta per l'Africa una nuova era di speranza
di Barthélemy Adoukonou*
Quello che abbiamo appena vissuto a Cotonou e a Ouidah, in Benin, con Benedetto XVI, l'episcopato d'Africa, e con una grande partecipazione di fedeli discepoli di Cristo in festa e in preghiera, potrebbe essere anche definito una celebrazione.
Ed è stata grandiosa.
Una folla immensa ha applaudito gioiosa il successore di Pietro lungo il suo percorso. Questa celebrazione festosa si è conclusa con un appello all'impegno profetico di tutta la Chiesa in Africa, in particolare di quella in Benin. È da lì che ogni Chiesa particolare d'Africa dovrebbe partire per una riflessione globale in tre tappe su ciò che abbiamo riconosciuto come celebrazione: la storia multiforme che prepara a un progetto pastorale e missionario organico, un piano di azione pertinente e stimolante, un bel futuro a cui aspiriamo.
La prima esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, del 1995, si apriva con una retrospettiva sulla storia dell'evangelizzazione del continente e terminava con una presa di coscienza dell'identità inculturata della Chiesa-comunione come famiglia di Dio e corpo fraterno di Cristo.
La seconda esortazione Africae munus, attingendo alla natura sacramentale della Chiesa, accentua maggiormente la straordinaria efficacia trasformatrice dell'eredità lasciata da Cristo per il bene dell'umanità: la Chiesa, segno della grazia che opera la nostra riconciliazione, la nostra giustizia e la nostra pace. Si tratta di suscitarla, e Benedetto XVI ha l'arte pastorale e il tocco teologico per farlo.
Questa efficacia trasformatrice, bisogna riconoscerlo, è stata all'opera fin dall'inizio dell'evangelizzazione del continente africano, come d'altronde ovunque. Che il Papa abbia scelto la chiusura del 150° anniversario dell'evangelizzazione del Benin per consegnare questa seconda esortazione è un appello a prendere coscienza di quell'efficacia storica che si deve produrre oggi più che mai in tutte le questioni sociali. L'invito implicito a stabilire un legame tra la storia universale e quella potenza trasformatrice che è la Chiesa diviene concreto nel caso simbolico e molto significativo del Benin.
Si è detto che il simbolo fa pensare. Ma, dal punto di vista storico e nel contesto della speranza, bisogna convenire che esso mobilita tutto l'essere e l'investe di un'azione trasformatrice.
Lo sguardo profetico di Benedetto XVI nel suo discorso di commiato ha aperto una prospettiva di ascesa dell'Africa verso un mondo di fraternità in una diversità riconciliata, e ciò proprio a partire dal Benin. Ha concluso così quello che aveva iniziato nel suo grande discorso alla nazione nel palazzo presidenziale: ovvero, rendere concreta la speranza. Più di una volta nel corso del suo viaggio ha affermato che la speranza che egli attribuisce all'Africa non è una formula retorica. Gli siamo infinitamente grati per aver in tal modo inaugurato per tutta l'Africa, e specificamente per il Benin, l'era di una prodigiosa teologia della speranza propriamente teologale, a partire dalla sua così ricca teologia dell'amore teologale. Da quel momento si è aperta per l'Africa un'era teologica nuova, capace di suscitare l'entusiasmo delle generazioni future, senza il rischio di snaturare l'identità della Chiesa.
Ma prestiamo un momento attenzione alla storia del Paese che ha ospitato il Pontefice. La storia cristiana di questo piccolo Paese, il Benin -- in passato Dahomey -- ha visto emergere numerose personalità, fra le quali quella più conosciuta a livello mondiale è indubbiamente il cardinale Bernardin Gantin, «eminente beninense» e africano qual è stato, dal quale prende il nome l'aeroporto internazionale di Cotonou. Benedetto XVI è andato a rendergli omaggio. Questa storia ha visto nascere anche monsignor Isidore de Souza, «figura fondatrice di una democrazia in Africa» (I. Mensah), che ha assicurato, in qualità di presidente della Conferenza delle forze vive della nazione, la transizione dal regime dittatoriale marxista-leninista alla democrazia moderna, senza spargimento di sangue.
Benedetto XVI ha potuto vivere intensamente sul posto parte di questa storia, a contatto con le autorità civili e religiose, e anche con il popolo. È stato informato sulla complessa storia di ascesa luminosa di un popolo che era «assiso nelle tenebre». Ha potuto vedere chiaramente come la Chiesa ne era stata la colonna portante, riconosciuta e apprezzata da tutti, pur operando nell'ombra e con zelo da centocinquant'anni. Benedetto XVI ha potuto rendere grazie e farsi più che mai cantore di un'Africa «terra di speranza», di un'Africa «polmone spirituale dell'umanità». Si è sforzato nel corso di tutto il suo viaggio apostolico di esprimere questa speranza in modo molto concreto, e ha potuto terminare il suo viaggio sulla stessa nota di una speranza teologale che vuole un agire storico trasformatore: «La parola “Fraternità” è del resto la prima delle tre parole del vostro motto nazionale. Vivere insieme da fratelli, nonostante le legittime differenze, non è un'utopia. Perché un Paese africano non potrebbe indicare al resto del mondo la strada da prendere per vivere una fraternità autentica nella giustizia fondandosi sulla grandezza della famiglia e del lavoro? Possano gli Africani vivere riconciliati nella pace e nella giustizia».
Il Papa difficilmente poteva trovare un modo migliore e più forte per attivare la speranza nel cuore di un continente troppo spesso presentato come continente della disperazione. E ogni abitante del Benin lo sente e l'accoglie così: con immensa gratitudine. Il Benin e la Chiesa di Dio che si edifica al suo interno, con il desiderio di abbracciarlo già tutto intero nell'amore insaziabile di Cristo, dovrà partire da questo per rileggere tutti i testi forti e splendidi che hanno adornato il viaggio apostolico di Benedetto XVI e ne hanno fatto una scia dorata nel cielo africano del Benin. Allora a tutti i figli di questo Paese e dell'intero continente, in particolare ai cattolici, sarà permesso rimeditare in profondità quale cammino la grazia di Dio ha già fatto con ogni Chiesa particolare nel continente, con il Benin che festeggia i suoi 150 anni di evangelizzazione. Con la coscienza storica rinvigorita, potremo fare nostro questo stimolante piano di azione pastorale che è l'Africae munus per far emergere e progredire, risolutamente e senza indugio, un'Africa riconciliata, giusta e pacifica, a beneficio di tutta la famiglia umana.
Il Benin ha felicemente iniziato questa riflessione e dovrà continuarla. Ed è lieto che tutti i messaggi trasmessi da Benedetto XVI abbiano consentito di approfondire il suo esame di coscienza e la sua volontà di conversione trasformatrice, e gli abbiano conferito un nuovo slancio di Pentecoste, grazia che gli consentirà di mettere in atto quel progetto destinato a segnare una svolta storica per tutta la nostra Chiesa in Africa.
Tutte le Chiese particolari in Africa sono chiamate a prendere nuovamente coscienza della storia missionaria che ha avuto ovunque una bella espressione sociale, compresa e apprezzata da tutte le nostre popolazioni. La storia missionaria, quali che siano stati le ombre e i pregiudizi che l'hanno accompagnata, resta sempre un «vettore» specifico del percorso del Buon Samaritano fra i popoli fino alla fine dei tempi. Percorre tutti i cammini di Gerico dei popoli. Essa non ha nulla in comune con quello del militare o del mercante. Un errore tristemente celebre ha voluto inserirla in uno scandaloso trinomio delle «3 m» (militare, mercante, missionario). Questo trinomio non è solo falso, ma anche ingiusto, come possiamo constatare per esempio nel caso del primo missionario al quale l'antico Dahomey deve la sua evangelizzazione sistematica, esattamente 150 anni fa: padre Francesco Borghero. Questo genovese condivideva indubbiamente i pregiudizi del suo tempo sull'uomo nero, come dice il padre gesuita Yves Morel, nella sua presentazione della vita e del Journal di padre Borghero. Ma ha enunciato in termini inequivocabili gli orientamenti fondamentali del suo apostolato: «L'esercizio della carità verso i malati offre uno spettacolo sconosciuto agli indigeni pagani e rivela un uomo diverso dagli altri che conquista presto i cuori; che i pagani sappiano trovare nel missionario una mano caritatevole che non li rifiuta, che non viene allontanata dal terribile fetore che esala la loro piaga. L'attenzione dei bambini che bisogna attirare attraverso una santa amicizia e un piacevole insegnamento scolastico, li unisce fra loro in un incontro comune, che deve essere la casa dei missionari. Non c'è cuore tanto indurito che possa resistere a questi mezzi».
Di fronte al divieto del re Glélé che aveva autorizzato la presenza dei missionari solo per la cura pastorale dei «bianchi» di Ouidah, e di fronte alla tacita ostilità dei «mercanti» che da lungo tempo si trovavano lì, e prima che i militari giungessero, una trentina di anni dopo, per «distruggere il regno del Dahomey», la missione evangelizzatrice aveva già la sua via specifica di penetrazione, pioniera e anteriore rispetto a ogni inculturazione e a ogni dibattito d'interculturalità: amore e cura dei malati ed educazione dei bambini. Questa via della «rivoluzione del prossimo», proiettata nella figura del Buon Samaritano, è un linguaggio universalmente compreso. In effetti Gesù che passava facendo il bene e che ha raccontato la parabola del Buon Samaritano, quando gli è stata posta la domanda su cosa bisognasse fare per ottenere la vita eterna, non ha dovuto esporre una teoria né elaborare grandi argomentazioni per convincere il suo interlocutore. Dopo aver mostrato un esempio concreto, un modo di essere e un comportamento, non ha fatto altro che chiedere: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Come nei dialoghi di Socrate, maieutico delle menti, la risposta nasce dalla bocca dello stesso interlocutore: «Chi ha avuto compassione di lui». Poi gli dice: «Va' e fa' anche tu lo stesso». Vediamo bene che la ragione umana è come preceduta e attirata dalla luce che proviene dall'amore. La seconda via della missione, simile alla prima, è consistita nel far vedere la figura di Cristo educatore in quella del missionario inchinato sul bambino nero per l'atto culturale primordiale del suo sviluppo verso la piena statura di uomo. È questo il duplice livello da dove conviene partire per assicurare che ci sia sempre un rimpiazzo missionario. L'esortazione apostolica Africae munus giunge al momento giusto per accompagnarci.
L'incontro del Papa con i bambini nella parrocchia di Santa Rita è stato uno di quei momenti forti in cui abbiamo visto l'opera profonda della fede nel cuore del popolo del Benin sbocciare come un mazzo di rose che esprime il fine verso il quale la speranza tende: i bambini e il Papa comunicavano con un coinvolgente sguardo d'amore. In verità «die Rose blüht ohne warum» (la rosa fiorisce senza un perché, Angelus Silesius): l'Amore basta a se stesso. D'altro canto tutto il popolo del Benin che ha plaudito il Papa ovunque si è recato, era veramente in sintonia di amore con lui e con la Chiesa.
Dunque il viaggio apostolico di Benedetto XVI in Africa ha avuto chiaramente il fine di porre la Chiesa in Africa e tutto il continente in un atteggiamento di speranza. L'autore della grande enciclica Spe salvi si è impegnato in questa catechesi per suscitare l'atteggiamento di speranza, lasciando costantemente trasparire il fondo dottrinale estremamente ricco nel quale questo atteggiamento nell'essere affonda le sue radici. La Chiesa in atteggiamento di speranza attiva è inserita in un piano di azione il cui compimento negli anni a venire porterà a un'Africa più riconciliata, più giusta e più pacifica, e quindi fermento di comunione e di fraternità per un mondo che ha bisogno esso stesso di riconciliazione, di giustizia e di pace. In questa prospettiva aperta, la Chiesa è chiaramente il sacramento dell'unità che dà vita. Essa si trova, in ognuno dei suoi membri, dalla gerarchia al più semplice fedele laico, presentata, a tutti i livelli della vita sociale in piena «immaginazione della carità», come proposta della soluzione cristiana. Se in effetti gli Stati hanno il dovere di assicurare l'ordine giusto, sono però incapaci di darsi l'uomo giusto. La Chiesa ha il segreto della formazione dell'uomo giusto: in ciò, essa rappresenta una grande speranza per il mondo; deve quindi adoperarsi per essere e restare Chiesa, senza confusione di ruoli, né con lo Stato, e neppure con la società civile. Rivolgendosi a ogni categoria di persone che compongono la Chiesa, Benedetto XVI nell'Africae munus ha posto l'accento su ciò che occorre fare affinché la Chiesa-Comunione che noi abbiamo inculturato in termini di Famiglia di Dio e di Corpo fraterno di Cristo possa giocare la carta di questa identità a beneficio di tutta la società, dell'Africa e del mondo. Allora sarà veramente al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
Il Benin ha ricevuto la grazia di poter beneficiare di un'attenzione particolare da parte della Santa Sede che ha studiato a fondo l'esempio di figura pastorale che esso rappresenta. La rilettura della sua storia culturale, socio-politica e religiosa nel contesto della speranza, ha portato Benedetto XVI a invitarlo, in definitiva, come simbolo di tutta l'Africa, ad alzarsi, a prendersi carico di se stesso e non solo a camminare, ma anche a spiccare il volo: «Perché un Paese africano non potrebbe indicare al mondo la via da prendere?». Rappresentare la speranza così ben definita dal Successore di Pietro e Vicario di Cristo, è una grazia. Che essa non sia vana, poiché «la Speranza non delude» (Romani, 5, 5).
* Vescovo segretario del Pontificio Consiglio della Cultura
(©L'Osservatore Romano 27 novembre 2011)
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1 commento:
Non una parola, da parte di un beninese, sui ripetuti prodigi astronomici che hanno accompagnato la presenza del Santo Padre nella sua terra.
L'espressione "..prospettiva di ascesa dell'Africa verso un mondo di fraternità in una diversità riconciliata" ha un fortissimo sapore mondialista e buonista; purtroppo non ha alcun sapore cattolico.
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