La Chiesa nell’anno dei dubbi
di Don Filippo Di Giacomo
L’anno che sta per concludersi, è stato veramente così terribile per la Chiesa? Per coloro che continuano a scambiare la prossimità con “il potere del mondo” come missione specifica di chiunque abiti entro le mura leonine, il 2010 non ha certo rappresentato una stagione esaltante. Benedetto XVI e i suoi collaboratori, anche durante la bufera degli scandali dei preti pedofili, hanno molto lesinato il materiale necessario affinché l’esercizio di tradurre gli insegnamenti del Vicario di Cristo, anche quando parla dall’altare, solo come costruzione di politiche, mobilizzazione mediatica, proposizione di domande radicali e di risposte univoche, venisse perpetrato.
Anzi, prendendo alla lettera ciò che il Pontefice ha esposto lunedì scorso alla curia romana, quello ormai trascorso risulta l’anno dei dubbi più radicali, quelli che non hanno paura di scavare nell’identità profonda della rappresentazione che “il potere del mondo” ha del cattolicesimo e della Chiesa. «Dobbiamo chiederci», ha detto Benedetto XVI ai suoi collaboratori, «cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere».
“Annuncio” ed “essere cristiano” sono due categorie più ampie dell’abominevole peccato di pedofilia al quale il Papa si riferiva.
È legittimo dunque domandarsi cosa ci sia di sbagliato nella rappresentazione di una Chiesa “ufficiale” italiana che in tanti, troppi, vedono come collaterale alle forze politiche dominanti nel Paese. Se le analisi fornite puntualmente dopo ogni tornata elettorale sono vere (come quelle di Ilvo Diamanti, per fare un nome) quando i cattolici votano, pensano volentieri con la loro testa. Certo, un vescovo cattolico ha diritto al rispetto, alla venerazione e all’obbedienza per ciò che insegna e per ciò che, pastoralmente, opera nella diocesi. Già che un vescovo, quando si riferisce a temi come la generazione, la nascita, la vita, l’educazione, la famiglia, l’amore, l’eros, la morte ne parla in modo da obbedire, lui per primo, a quanto Cristo ha consegnato all’umanità nel Vangelo. Presupporre, poi, che la Chiesa Cattolica nel suo insieme, anzi quella parte dell’episcopato che i giornali chiamano “la Cei”, abbia adottato come strategia quella di approfittare di una crisi generale di riferimenti ideali per accreditarsi quale portatrice di un progetto politico, è un “non senso ecclesiologico”. Basta frequentare una qualsiasi parrocchia, per accorgersi che la Chiesa in Italia non sta certo aspettando il “conducator” di turno (Ruini, Bertone, Bagnasco, Fisichella...) immaginato dalla stampa, per vivere e testimoniare quello in cui antropologicamente, culturalmente e socialmente crede e sempre tenterà di esprimere.
Se poi si comprendesse appena appena ciò che Benedetto XVI sta insegnando, anche durante i suoi viaggi attraverso popoli e culture, risulterebbe evidente come il 2010 abbia arricchito la riflessione del cattolicesimo contemporaneo.
Esso è composto, nella sua totalità, da una comunione di Chiese solidali, sempre più aperte alle esigenze dell’evangelizzazione, “amiche” vere di tutte le comunità credenti del mondo, spiritualmente pronte (come dimostrano questi anni affollati di martiri e di testimoni) a non attenuare in nulla il tremendo mistero della Croce e di tutto ciò che deve servire da pungolo nella “carne” del tempo e del mondo. Per questo, ha detto ancora Benedetto XVI, riassumendo le vicende venute alla luce negli anni del suo pontificato, la Chiesa Cattolica del futuro non potrà fare a meno di obbedire in modo sempre più compiuto al precetto paolino che le impone che «la verità venga detta nella carità» (Ef. 4, 15).
Nella grotta del Natale del 2010, papa Ratzinger ha già deposto tutte le parole importanti, e quasi sempre nuove, che nel magistero pontificio e in quello episcopale ci invitano al dialogo, al lavoro, al coraggio, alla fantasia politica, alla compattezza sociale.
Tutte parole con contenuti che, nelle estese e spesso dolorose riflessioni che le cronache hanno imposto alla Chiesa, fanno prescindere il cattolicesimo da ogni sua specifica “cultura confessionale” e la stanno portando a una maggiore interiorizzazione di valori fondamentali anche per la società civile.
Ed è in questa che Benedetto XVI vede il “topos”, il luogo, dove il dialogo, l’altruismo, la sincerità, l’onestà, l’assunzione di responsabilità socio-politico-economiche, l’autentico spirito di democrazia, la serenità dei rapporti sociali devono e possono incarnare il precetto evangelico fondamentale.
Perché, diceva Giovanni Paolo II, «la fede dice che quanto viene compiuto per gli altri è fatto per Cristo». Perché Gesù Cristo nasce ogni Natale, la Democrazia Cristiana no.
© Copyright L'Unità, 22 dicembre 2010 consultabile online anche qui.
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3 commenti:
Come al solito Di Giacomo "pro domo sua" e la domus non è certo la Chiesa cattolico-romana che egli declina volentieri al plurale, della quale lo disturba il confessionalismo e i vari "conducatores". Meglio "liberi tutti" tra spiritualismi e creatività politiche.
Il massimo della slealtà è che si può leggere sempre quello che si è capaci di leggere o si vuole leggere, persino da un discorrere limpido e franco come quello di Benedetto. Basta sottolineare, trascurare e censurare.
Per altro, è indubbio sottotraccia: lui sì che ha compreso, come sempre, quello che il Papa sta insegnando. Per tutti gli altri vale il periodo ipotetico dell'impossibilità attestato nel titolo.
Mentre in Francia si paragona Ratzinger a Fouché. Però quest'ultimo era il ministro della Polizia di Napoleone mentre l'exvescovo Talleyrand ne era il ministro degli esteri e non il suo capo. Eufemia
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201012/101221clanche.pdf
Evidentemente non è andata giù la neonata Fondazione vaticana Benedetto-Ratzinger e neppure l'impiego a cui destina i propri diritti d'autore il Papa. Povero Clanché è talmente livido da rispolverano il cliché del Grande Inquisitore.
Alessia
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