Il Papa e la lezione di Newman
Lo sguardo capovolto che scopre l'Invisibile
Marina Corradi
C’era una volta un uomo che non escludeva l’esistenza di Dio, ma la considerava come qualcosa di incerto, di non essenziale nella propria vita. Veramente reale, per quell’uomo era solo ciò che è materialmente tangibile. Le cose che si possono prendere e afferrare con la mano: questa soltanto la “realtà”, quella vera. Dio, l’anima, a quell’uomo apparivano idee in cui voleva credere, ma sostanzialmente estranee alla sola categoria del reale: ciò che si può toccare, e misurare.
Quell’uomo era Henry Newman, il teologo inglese convertito al cattolicesimo, da poco beato. In questi termini ha parlato di lui Benedetto XVI, lunedì, concentrandosi sul momento della sua prima conversione. Strano, ti dici leggendo il discorso alla Curia romana, come una questione riguardante un uomo morto 120 anni fa possa essere straordinariamente attuale.
Dunque Newman, prima di convertirsi, era uno che credeva ciò in cui crede “la media degli uomini”, dice il Papa. Dio? Sì, può darsi. Il Dio di molti, credenti e perfino praticanti: ipotesi immateriale, disincarnata. Come un dubbio sospeso, inerte, sulla nostra vita. Dio? Forse, speriamo. Intanto, la realtà autentica è ciò che si tocca: per primo il nostro corpo, impellente nei bisogni. E poi tutto ciò che può essere desiderabile: amore, denaro, sesso, potere e perfino il sapere intellettuale, che forse non si tocca, ma comunque si misura e si usa. Questa è “la” realtà. Poi, parallela ma come separata, c’è la fede. Che è domanda, speranza, magari rifugio nella malattia o nella vecchiaia; ma, insomma, non ha quella consistenza sonante delle cose, quella sovrana indiscutibile evidenza ai sensi.
Cosa succede un giorno a Newman? Improvvisamente, dice il Papa, «riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l’anima, l’essere se stesso dell’uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili».
Immaginiamoci: un giorno un uomo, fino ad allora simile a tutti, vede che la realtà autentica è un’altra. Le cose, forse ora gli sembrano apparenze. Scorge, dietro di loro, mai viste prima, altre colonne originarie, portanti: il Creatore e la creatura - l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza. In un istante un’altra realtà gli si palesa, «più reale degli oggetti afferrabili».
Come un’epifania: l’istante in cui Dio si mostra, sovrano, e dice: Io sono. Una grazia (a lungo domandata). «Svolta copernicana, che cambia la forma fondamentale della vita». Ma perché Benedetto XVI parla in questo Natale della conversione di un uomo di 120 anni fa? Crediamo, perché la cosa ci riguarda. Profondamente. Non siamo anche noi, o almeno tanti di noi, divisi come un giorno Newman? Dio da una parte, e la realtà dall’altra; e il faticoso tentativo di integrare due dimensioni incompatibili. Forse non è così per i più anziani, per quelli cresciuti in una fede semplice, quotidianamente declinata fino dalle preghiere del mattino. Ma in quanti, più giovani, avvertono come sottopelle quella che Benedetto XVI in “Luce del mondo” indica quasi come una “schizofrenia”: la fede come un substrato remoto, che non contagia la vita di ogni giorno. Un Dio che non riusciamo a credere presente, vivo, oggi: sui metrò affollati al mattino, e negli uffici dove si lavora e basta, e dietro le finestre delle nostre case che si illuminano, la sera, nelle città. Ci guardiamo, e ci sembriamo reciprocamente così soli. Questo Newman, invece, che un giorno capovolge lo sguardo, e diventa certo. Prima, era quasi un uomo come gli altri. Potrebbe, dunque, accadere anche a noi?
La “svolta copernicana”, che rende certo ciò che noi riusciamo solo a sperare. Possibile che sia successo a un uomo come noi? Ma perché il Papa ne parla, in questi giorni di vigilia? Forse per suscitare un desiderio. Per indicare il dono – per chi ne ha troppi, e per chi non ne ha nessuno – da domandare davvero, in una notte di Natale.
© Copyright Avvenire, 22 dicembre 2010 consultabile online anche qui.
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