In un libro del cardinale Mauro Piacenza prefetto della Congregazione per il Clero
Il sigillo del prete
di Fabrizio Contessa
La nuova evangelizzazione è destinata a rimanere un semplice slogan privo di reale efficacia missionaria se non avrà alla base un rinnovamento spirituale dei sacerdoti. È questa la convinzione sottesa al recente speciale Anno sacerdotale (19 giugno 2009 - 11 giugno 2010) voluto da Benedetto xvi. Ed è anche, a ben vedere, il motivo ispiratore del libro del cardinale Mauro Piacenza Il sigillo. Cristo fonte dell'identità del prete (Siena, Edizioni Cantagalli, 2010, pagine 158, euro 13,50).
L'autore, ordinato sacerdote a Genova dal cardinale Siri, come noto, ha ricevuto la porpora nel concistoro del 20 novembre scorso e dal precedente 7 ottobre guida la Congregazione per il Clero di cui era segretario sin dal 2007. Nel libro, che già nel titolo fa esplicito riferimento al «sigillo» sacramentale dell'ordine, ha raccolto interventi, meditazioni, omelie pronunciati a ragione del suo ufficio. Un osservatorio unico e privilegiato sulla condizione e la missione del clero nel mondo e sulle sue prospettive.
In primo piano il tentativo di ridefinire l'identikit del prete nella società post-moderna. Chiarendo il significato della vocazione, sottolineando l'importanza della formazione — anche quella puramente umana — ma soprattutto della fedeltà al ministero. E avendo ben in mente che il «sigillo» in questione non è un «sigillo che chiude» i tesori della grazia, «di cui i sacerdoti sono vitali canali e non autonomi fonti», bensì un sigillo che «apre», anzi che «spalanca a una Realtà più grande» e che indica «l'appartenenza di ciascun sacerdote a Dio» e la «conseguente indisponibilità» a «ogni altra identità e azione profana o mondana».
Il cardinale, d'altronde, non manca d'indicare, con molta franchezza, i punti critici e i travagli che, negli ultimi decenni, hanno messo come sotto scacco la figura del prete. Facendola ritenere quasi sorpassata — almeno per come essa era giunta sino ai giorni nostri — o riducendola, da alter Christus, a mero esercizio di un ufficio ecclesiale al pari di altri. Di qui, non solo la conseguente crisi delle vocazioni, ma anche l'insorgere, tra numerosi membri del clero, di una certa rilassatezza dottrinale, che, sull'onda della mentalità secolare, diviene pure morale e culturale. Per non dire di scandali e abusi. Con riflessi enormi e inevitabilmente negativi sull'efficacia dell'azione missionaria. E confusioni dall'esito paradossale: «La secolarizzazione del clero e la clericalizzazione del laicato». Anche in questo senso, perciò, occorre leggere le parole di apprezzamento che il porporato dedica ai movimenti e alle nuove comunità, poiché «in un contesto di fede vivace ed esistenzialmente rilevante», la «vocazione sacerdotale è più facilmente intuita, più liberamente accolta e più fedelmente seguita».
Non mancano alcune stoccate che colgono nel segno di fenomeni definiti «imbarazzanti» — e che rinviano, accenna l'autore, anche a una riflessione ulteriore sulla responsabilità di sorveglianza dei vescovi — come l'inflazione, soprattutto nel piccolo schermo, di «preti-star», che troppo spesso si discostano palesemente dalla dottrina e che nel migliore dei casi determinano «disorientamento» tra i fedeli. E c'è poi, soffermandosi sulla formazione dei presbiteri, l'indice puntato contro quel «razionalismo scettico», scambiato per «maturità della fede», che «purtroppo ha inondato tante Facoltà teologiche, tentate continuamente da una lettura “molto critica” e “poco storica”, e quindi poco equilibrata e nemmeno realmente “storico-critica”, soprattutto dei dati neotestamentari».
Particolare attenzione è riservata alla «dimensione orante» e soprattutto a quell'«atto che con maggiore frequenza ciascun sacerdote è chiamato a compiere», ossia la celebrazione della messa, che «deve essere, o deve tornare a essere, il vertice della giornata sacerdotale». In questa prospettiva, si auspica il recupero — ritenuto «necessario e urgente» — della pastorale sacramentale che per troppi decenni è stata «negativamente interpretata» e presentata in una «visione incompleta e ridotta». Così, sulla scorta del magistero di Benedetto xvi, anche il cardinale Piacenza si domanda se sia mai possibile esercitare autenticamente il ministero sacerdotale «superando» la pastorale sacramentale. Con l'invito a riflettere se in certi casi proprio «l'aver sottovalutato l'esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell'efficacia salvifica dei sacramenti e, in definitiva, nell'operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo».
Significativo — nell'ottica della «nuova evangelizzazione» — è il fatto che l'apertura del volume sia dedicata a un'ampia meditazione svolta dal prelato nel 2009 con i seminaristi olandesi e in cui è messo a tema, sin dalla radice, il significato della vocazione sacerdotale come evento soprannaturale di grazia. Con le necessarie implicazioni di «radicalità» e «totalità» che investono la sfera dell'affettività — «la forma più grande di testimonianza che si possa dare a Cristo è la perfetta continenza per il Regno dei Cieli» — e quella della disciplina ecclesiale. «Solo la radicalità della fede può reggere “l'urto” del mondo contemporaneo il quale, continuamente e sistematicamente, insidia, in tutti, anche in noi, il dubbio, l'incertezza, la tentazione che non ci sia nulla di assoluto, nulla di fermo, nulla di oggettivo, la tentazione che “tutto sia nulla”». I sacerdoti, in sostanza, debbono guardarsi dalle malie del nichilismo e del relativismo. E con l'importante sottolineatura che, laddove la vocazione è autentica e si basa su una solida formazione, essa si accompagna a una straordinaria «fioritura dell'umano» che «non sarebbe mai accaduta nelle nostre esistenze, se non avessimo ricevuto e accolto la chiamata». Mentre, al contrario, quando «permangono gravi deficit umani», anche «a fronte di notevoli sforzi formativi negli altri ambiti, “l'edificio” e la “struttura” della personalità non sono mai al riparo da improvvisi “crolli” e sconvolgenti “terremoti”».
La riforma del clero, così importante anche in chiave missionaria, è dunque «innanzitutto il rinnovamento spirituale di ciascun sacerdote» e richiede — sottolinea il porporato — il ricorso a quel «dialogo della verità» capace di «riconoscere umilmente limiti e errori» e «individuare soluzioni e prospettive». Rifuggendo dalla «tentazione del funzionalismo» e dalla «deriva utilitaristica della cultura dominante». Nella consapevolezza che il «sigillo sacramentale» porta con sé la tendenziale «coincidenza» tra identità personale e ministero sacerdotale.
(©L'Osservatore Romano - 15 dicembre 2010)
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