La dottrina sociale della Chiesa ha una risposta
Come affrontare la disintegrazione. Nell’apocalisse quotidiana la scienza della fine diventa materia d’esame per tutti.
Raffaele Iannuzzi
Il numero speciale di novembre del noto mensile Le Scienze, edizione italiana del celebre cult-magazine Scientific American, sparava un titolo di quelli alla Stephen King: The End. La scienza della fine. Sottotitolato per i non udenti (ce ne sono tanti… anche con udito perfetto): «Dall’esaurimento delle risorse all’estinzione della specie, dalla fine del tempo a quella della terra, dalla scomparsa della civiltà umana alla nostra morte individualeecco quando a una fine può corrispondere un nuovo inizio».
Non a caso, un uomo così inquieto e controverso come Mel Gibson - regista con un acuto senso della decadenza, cattolico tradizionalista e peccatore a diciotto carati (secondo la progenie dei Bernanos, dei Claudel e dei Péguy) - ha definito il suo grande film "Apocalypto", «a new Beginning», un nuovo inizio. L'apocalisse richiama il nuovo inizio. "Apocalisse" vuol dire rivelazione. É nell'apocalisse quotidiana, nella rivelazione cruda e persistente dei fatti dirompenti del vivere umano e associato, che la scienza della fine diventa materia di esame per tutti. La scienza della fine. La conoscenza della (nostra) fine. Il nostro mondo ci impone questa evidenza, di fronte alla quale non si può sospendere il giudizio: non c'è più niente. Niente che fondi la vita dei singoli, affaticati nello stare a galla ogni giorno; niente che tenga unita la società e la politica; niente che assicuri alle famiglie la sicurezza di una verità dei legami che vada oltre il volontarismo e lo sciroppo dei buoni sentimenti.
A prima vista, non c'è niente che tenga, che attraversi il tempo, superandolo e trattenendolo dalla rovina certa. A prima vista. Perché, in realtà, tra le pieghe dell'apocalisse di ogni giorno, permane un disegno che tiene, anzi un arazzo rovesciato che un certo Ratzinger decifra e mostra a tutti noi come la roccia alla quale aggrapparci. Ancora una volta richiamo Ratzinger, Papa Benedetto XVI, dunque la Chiesa, perché, di fronte alla montagna di violenza e destrutturazione al netto di ogni risarcimento quotidiano, non c'è nient'altro che regga il confronto.
Si può essere cattolici o meno; credenti o meno; cristiani o meno; non è questo il punto. Stiamo parlando dell'alternativa alla scienza della fine, della scienza del possibile nuovo inizio. Non c'entra niente il confessionalismo, né il bigottismo sacralizzante, anzi questi atteggiamenti sono addirittura controproducenti, perché censurano la condizione umana come tale, la nudità oggettiva del malessere del mondo contemporaneo, di tutti noi. La Roccia sulla quale ricostruire è sempre quella descritta da Eliot, è la Chiesa, come Madre di chiunque voglia ascoltare qualcosa e/o qualcuno che sia altro da sé. É il mondo amato dalla "Straniera", estranea alle logiche mondane, nonostante il peccato umano che non risparmia i suoi membri: la Chiesa. La cultura scaturente da questo impasto bimillenario, la dottrina sociale della Chiesa, rappresenta la risposta non accademica alle interrogazioni dell'uomo che mastica di scienza della fine, ma brama l'infinito.
L'uomo vive all'incrocio tra la fine e il nuovo inizio, da sempre. Oggi scopre che la scienza della fine può costruirsela in casa, sparando contro la sua umana speranza: so "come" morirò, ergo morirò secondo le mie regole. Sbagliato. Muori ogni giorno illudendoti di essere vivo e, così, alla fine, muore la società. A meno di non allargare la ragione e spalancare porte e finestre alla verità sull'uomo. Basterebbe la dottrina sociale della Chiesa.
© Copyright Il Tempo, 6 dicembre 2010 consultabile online anche qui.
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