lunedì 7 febbraio 2011

Il celibato sacerdotale nell'insegnamento dei Pontefici. Paolo VI nella temperie del post-concilio (Mauro Piacenza)

Il celibato sacerdotale nell'insegnamento dei Pontefici. A cura del card. Piacenza per l'Osservatore Romano

Il celibato sacerdotale nell'insegnamento dei Pontefici

Paolo VI nella temperie del post-concilio

Da una conferenza tenuta ad Ars dal cardinale prefetto della Congregazione per il Clero, pubblichiamo la parte relativa a Papa Montini.

di MAURO PIACENZA

Pubblicata il 24 giugno del 1967, la Sacerdotalis caelibatus è l'ultima enciclica interamente dedicata da un Pontefice al tema del celibato. Nella temperie dell'immediato post-concilio, recependo interamente la dottrina conciliare, Paolo VI sentì il bisogno di ribadire, con un autorevole atto magisteriale, la perenne validità del celibato ecclesiastico, il quale, forse in maniera ancora più veemente che non oggi, veniva contestato attraverso veri e propri tentativi di delegittimazione sia storico-biblica che teologico-pastorale.
Come noto, la Presbyterorum ordinis, distingue tra celibato in sé e legge del celibato, laddove al n. 16 afferma: "La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale (...) Per questi motivi - fondati sul mistero di Cristo e della sua missione - il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge, nella Chiesa latina, a tutti coloro che si avviano a ricevere gli ordini sacri". Tale distinzione è presente sia nel capitolo terzo dell'enciclica di Pio XI Ad catholici sacerdotii, sia al n. 21 dell'enciclica di Paolo VI. Entrambi i documenti riconducono la legge del celibato alla sua vera origine, che è data dagli apostoli e, attraverso di essi, da Cristo stesso.
Paolo VI, al n. 14, afferma: "Noi dunque riteniamo che la vigente legge del sacro celibato, debba ancora oggi, e fermamente, accompagnarsi al ministero ecclesiastico; essa deve sorreggere il ministro nella sua scelta esclusiva, perenne e totale dell'unico e sommo amore di Cristo e della consacrazione al culto di Dio e al servizio della Chiesa, e deve qualificare il suo stato di vita, sia nella comunità dei fedeli, che in quella profana". Come è di immediata evidenza, il Pontefice assume le ragioni cultuali proprie del magistero precedente e le integra con quelle teologico-spirituali e pastorali, maggiormente sottolineate dal Vaticano II, ponendo in evidenza come il duplice ordine di ragioni non sia mai da considerare in antitesi, ma in reciproca relazione e feconda sintesi. La medesima impostazione è riscontrabile al n. 19, che richiama al compito del sacerdote, quale ministro di Cristo e amministratore dei misteri di Dio, e ha il suo culmine al n. 21: "Cristo rimase per tutta la sua vita nello stato di verginità, il che significa la sua totale dedizione al servizio di Dio e degli uomini. Questa profonda connessione tra la verginità ed il sacerdozio, in Cristo, si riflette in quelli che hanno la sorte di partecipare alla dignità e alla missione del Mediatore e Sacerdote eterno, e tale partecipazione sarà tanto più perfetta, quanto più il sacro ministro sarà libero da vincoli di carne e di sangue". La titubanza, dunque, nella comprensione dell'inestimabile valore del sacro celibato e nella conseguente sua valorizzazione e, ove fosse necessario, strenua difesa, potrebbe essere intesa come non adeguata comprensione della portata del ministero ordinato nella Chiesa e della sua insuperabile relazione ontologico-sacramentale a Cristo sommo sacerdote. A tali imprescindibili riferimenti cultuali e cristologici, l'enciclica fa seguire un chiaro riferimento ecclesiologico: "Preso da Cristo Gesù fino all'abbandono totale di tutto se stesso a Lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell'amore col quale l'Eterno Sacerdote ha amato la Chiesa, o Corpo, offrendo tutto Se stesso per Lei, al fine di farsene una Sposa gloriosa, santa e immacolata. La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta, infatti, l'amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio, per cui i figli di Dio né dalla carne, né dal sangue sono generati" (n. 26). Come potrebbe Cristo amare la Sua Chiesa di un amore non verginale? Come potrebbe il sacerdote, alter Christus, essere sposo della Chiesa in modo non verginale? Emerge la profonda interconnessione di tutte le valenze del sacro celibato, il quale, da qualunque lato lo si voglia guardare, appare sempre più radicalmente e intimamente connesso al sacerdozio.
Continuando a argomentare delle ragioni ecclesiologiche a sostegno del celibato, l'enciclica, nei nn. 29, 30 e 31, pone in evidenza il rapporto insuperabile tra celibato e mistero eucaristico, affermando che, con il celibato, "il sacerdote si unisce più intimamente all'offerta, deponendo sull'altare tutta intera la propria vita, che reca i segni dell'olocausto. (...) Nella quotidiana morte a tutto se stesso, nella rinunzia all'amore legittimo di una famiglia propria, per amore di Cristo e del Suo Regno, troverà la gloria di una vita in Cristo, pienissima e feconda, perché, come Lui e in Lui, il sacerdote ama e si dà a tutti i figli di Dio".
L'ultimo grande insieme di ragioni, che vengono presentate a sostegno del sacro celibato, riguarda il suo significato escatologico. Nel riconoscimento che il regno di Dio non è di questo mondo, che alla risurrezione non si prende né moglie né marito (cfr. Matteo, 22, 30), e che "il prezioso dono divino della continenza perfetta per il Regno dei cieli costituisce (...) un segno particolare dei beni celesti (cfr. 1 Corinzi, 7,29-31)", il celibato è indicato anche come "una testimonianza della necessaria tensione del popolo di Dio verso l'ultima meta del pellegrinaggio terrestre e incitamento per tutti a levare lo sguardo alla cose superne" (n. 34).
Chi è posto in autorità per guidare i fratelli al riconoscimento di Cristo, all'accoglimento delle verità rivelate, a una condotta di vita sempre più irreprensibile e, in una parola, alla santità, trova, così, nel sacro celibato, una convenientissima e straordinariamente forte profezia, capace di conferire singolare autorevolezza al proprio ministero e fecondità, sia esemplare sia apostolica, al proprio agire. Con straordinaria attualità, l'enciclica risponde anche a quelle obiezioni che vedrebbero, nel celibato, una mortificazione dell'umanità, privata in tal modo di uno degli aspetti più belli della vita. Al n. 56, si afferma: "Nel cuore del sacerdote, non è spento l'amore. Attinta alla più pura sorgente, esercitata a imitazione di Dio e di Cristo, la carità, non meno di ogni autentico amore, è esigente e concreta, allarga all'infinito l'orizzonte del sacerdote, approfondisce e dilata il suo senso di responsabilità - indice di personalità matura - educa in lui, come espressione di una più alta e vasta paternità, una pienezza e delicatezza di sentimenti, che lo arricchiscono in sovrabbondante misura". In una parola: "Il celibato, elevando integralmente l'uomo, contribuisce effettivamente alla sua perfezione" (n. 55).
Nel 1967, anno di pubblicazione della Sacerdotalis caelibatus, Paolo VI pone uno degli atti di magistero più coraggiosi e esemplarmente chiarificatori del suo pontificato. Un'enciclica che andrebbe attentamente studiata da ogni candidato al sacerdozio, fin dall'inizio del proprio iter, ma certamente prima di inoltrare la domanda d'ammissione all'ordinazione diaconale, periodicamente ripresa nella formazione permanente e fatta oggetto non solo di attento studio biblico, storico, teologico, spirituale e pastorale, ma anche di approfondita, personale meditazione.

(©L'Osservatore Romano - 7-8 febbraio 2011)

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