martedì 31 maggio 2011

Intervista con sua beatitudine Béchara Raï, nuovo patriarca di Antiochia dei Maroniti (Malacaria per "30 Giorni")

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo con il permesso della Redazione:

ANTICIPAZIONE DEL MENSILE 30GIORNI DIRETTO DAL SENATORE GIULIO ANDREOTTI

Intervista con sua beatitudine Béchara Raï, nuovo patriarca di Antiochia dei Maroniti

«I vari leader cristiani hanno parlato delle loro diverse opzioni politiche e, pur ribadendo le proprie posizioni, sono arrivati alla conclusione che le loro visioni politiche sono complementari e non in conflitto. La molteplicità di opzioni politiche, piuttosto che causa di scontri, può essere una ricchezza e garanzia di democrazia»

«In passato, riguardo a Hezbollah, c’è stato il problema della natura di questo partito perché, in particolare, c’era chi non accettava che possedesse delle armi. Oggi, però, tale discussione si è esaurita, perché sterile. Adesso si parla di strategia comune di difesa, cioè di come il Libano debba organizzare il possesso e l’uso delle armi».

«All’origine di tutte le crisi e di tutti i problemi del Medio Oriente c’è il conflitto israelo-palestinese. È il peccato originale, la matrice che nutre tutte le cristi della nostra regione. Purtroppo la comunità internazionale non sta agendo come dovrebbe: bisogna applicare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, a cominciare da quella che prevede il ritorno dei profughi nella propria terra».

di Davide Malacaria

Il 15 marzo i vescovi maroniti, riuniti a Bkerké (nei pressi di Beirut), la sede del Patriarcato, hanno eletto Béchara Raï, vescovo di Jbeil, Byblos dei Maroniti, nuovo patriarca di Antiochia dei Maroniti. Sua beatitudine Béchara Boutros Raï, 71 anni, ordinato sacerdote nel 1967 e diventato vescovo nel 1986, conosce bene Roma e il Vaticano, in quanto qui ha studiato, presso il Pontificio Collegio Maronita, e qui, per anni, anche in qualità di membro del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali, è stato il responsabile del programma arabo della Radio Vaticana. Sua beatitudine Béchara Raï succede a Nasrallah Pierre Sfeir, che lo scorso febbraio, a novant’anni, ha dato le dimissioni. Lo scorso 14 aprile, ricevendo in udienza il nuovo patriarca, Benedetto XVI ha concesso la ecclesiastica communio.
Da alcuni anni in Libano, Paese cruciale per la stabilità del Medio Oriente, la solennità dell’Annunciazione è stata dichiarata festa nazionale, con gioia dei cristiani, ovviamente, e degli islamici, che venerano in Maria la madre del profeta Gesù. Una festa nata all’insegna di quella convivenza tra cristiani e islamici che, pur nelle alterne e a volte dolorose vicende della storia, è stata la caratteristica di questo Paese. Béchara in arabo vuol dire “Annunciazione”. Un buon auspicio.

Che cosa ha pensato al momento dell’elezione?

BÉCHARA RAÏ: Durante il Sinodo, gli altri possibili candidati al patriarcato, a un certo momento hanno fatto un passo indietro perché si arrivasse a un’elezione unanime. È stato in quel momento che mi è venuto in mente il motto del mio mandato: «Comunione e amore», che poi ho scritto sulla scheda elettorale. Così, durante lo scrutinio, mentre veniva ripetuto il mio nome, a un certo momento è stato letto anche questo motto. Era un modo per dire che accettavo quanto deciso nel Sinodo, ma all’insegna, appunto, della comunione e dell’amore.

La Chiesa maronita, di rito orientale e da sempre in comunione con Roma, gioca un ruolo di ponte tra la cristianità occidentale e quella ortodossa?

Per storia i maroniti hanno rapporti fecondi sia con le Chiese di tradizione greca e siriaca sia con la Santa Sede. Anche per questo hanno giocato un ruolo importante quando sono avvenute unioni tra Chiese di rito orientale e Roma – mi riferisco alle Chiese chiamate uniate. Per storia e tradizione il nostro ruolo è quello di essere ponte tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Un compito ecumenico molto prezioso per la cristianità.

Sempre a proposito dei rapporti con l’Ortodossia, il cardinale Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, nel suo intervento al Sinodo per le Chiese orientali ha detto di voler interpellare i patriarchi d’Oriente per raccogliere pareri per una possibile riforma del ministero petrino...

Una cosa analoga è stata fatta già al tempo di Giovanni Paolo II. Io ero membro della Commissione che doveva raccogliere le risposte dei patriarchi e riferire al Santo Padre. In quella sede avevamo raccolto i contributi di vari patriarchi e vescovi orientali, ma poi questo lavoro è rimasto incompiuto.

Tra le varie proposte giunte alla Commissione ce n’era qualcuna che aveva attirato più di altre la sua attenzione?

Tra le altre, vi era la proposta che i patriarcati orientali potessero estendere la loro giurisdizione sui fedeli della diaspora, quindi fuori dal territorio tradizionalmente chiamato territorio patriarcale. Questa proposta, purtroppo, non è stata accolta. Ricordo che se ne parlò nel 2000, in occasione di un convegno per il decennale della promulgazione del Codice di diritto canonico delle Chiese orientali, e, in quella sede, il segretario di Stato vaticano, parlando a nome del Papa, spiegò come non fosse possibile estendere la giurisdizione dei patriarcati, per due ordini di motivi. Il primo riguarda il principio di territorialità: per tradizione il territorio patriarcale ha un limite geografico limitato all’ambito orientale, né il principio di territorialità può diventare principio di soggettività. Il secondo motivo, ci fu riferito, è che il patriarcato è un’istituzione ecclesiastica e, come tale, può anche sparire, mentre l’episcopato e il papato sono, all’opposto, istituzioni divine e non caduche. Poiché il papa è vescovo di tutti i cattolici e poiché ci sono vescovi locali che hanno il potere pastorale giurisdizionale anche sui fedeli della diaspora orientale, non c’è bisogno di estendere la giurisdizione del patriarca. Questa in estrema sintesi la risposta che fu data.

Quanto è importante il rapporto tra il Patriarcato di Antiochia dei Maroniti e i fedeli della diaspora sparsi nel mondo?

Per il patriarca di Antiochia dei Maroniti è importante avere cura anche di questi fedeli. È un compito svolto già dalle diverse diocesi maronite sparse nel mondo; altrove, invece, a tale cura provvedono comunità organizzate, cioè parrocchie maronite, che dipendono dall’ordinario locale, che poi è quello latino; infine ci sono comunità senza sacerdoti. Quindi è nostro compito provvedere a livello pastorale: inviare sacerdoti, religiosi e religiose e, dove ci sono comunità organizzate, provvedere alle diocesi. Ma il legame tra gli emigrati e la madrepatria è mantenuto anche a livello ecclesiale e di società civile, attraverso le tante organizzazioni che conservano vitali tali rapporti. Un aspetto rilevante di questo legame è il mantenimento della cittadinanza libanese da parte dei discendenti di famiglie maronite. È importante perché, in un sistema politico come quello libanese, fondato sulla demografia, consente ai cristiani di mantenere immutato il loro numero e, conseguentemente, il loro peso politico. Si tenga conto che il nostro sistema politico vede una partecipazione paritetica alla gestione della cosa pubblica di cristiani e musulmani, in quanto la popolazione è composta per metà da cristiani e per metà da musulmani: se i numeri dovessero mutare molto, cambierebbe anche tale equilibrio. Ma il legame con i nostri emigrati è importante anche perché il Libano rappresenta per i maroniti la loro patria spirituale, le loro tradizioni, la loro storia. Inoltre tale legame permette agli emigrati di sostenere economicamente le famiglie rimaste in patria e anche la “causa” libanese.
Infine la diaspora può fare molto a livello di progetti di sviluppo e di progetti sociali.

Dopo la sua elezione, lei ha voluto incontrare i quattro più importanti leader dei partiti politici cristiani presenti in Libano...

In Libano adesso c’è una grande divisione tra quello che si chiama il “Blocco del 14 marzo”, che vede dei partiti cristiani alleati con i musulmani sunniti (che hanno rapporti con Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti), e il “Blocco dell’8 marzo”, che vede altri cristiani alleati con gli sciiti ed Hezbollah, i quali, a loro volta, hanno rapporti con Iran e Siria. Ciò crea tensione, anche perché tra sciiti e sunniti c’è grande conflittualità. Questa situazione ha creato distanze anche tra cristiani, tanto che i leader politici cristiani non riuscivano a incontrarsi. Così ho organizzato questo incontro al Patriarcato nella speranza di favorire una distensione nei rapporti tra cristiani e, di conseguenza, anche nella nazione. Ed è quello che è successo. I vari leader cristiani hanno parlato delle loro diverse opzioni politiche e, pur ribadendo le proprie posizioni, sono arrivati alla conclusione che le loro visioni politiche sono complementari e non in conflitto. La molteplicità di opzioni politiche, piuttosto che causa di scontri, può invece essere una ricchezza e garanzia di democrazia. Nell’incontro si è registrata una bella intesa, che ha creato distensione a livello pubblico. Ora, dopo che si è rotto il ghiaccio, gli incontri tra politici cristiani proseguiranno, ma più allargati, per ampliare le basi del dialogo. Oltre a questo incontro, al Patriarcato si è tenuto un vertice tra diversi capi religiosi, musulmani e cristiani. Ad esso ha fatto seguito una dichiarazione comune sui principi e i fondamenti della nazione nei quali tutti i libanesi, al di là della loro religione, si riconoscono, e sul fatto che la politica, in quanto tale, deve essere lasciata ai politici. Credo che tutto questo possa dare nuovo impulso all’unità del Paese. Spero, infine, che presto si possano realizzare incontri tra politici musulmani e cristiani, nell’ambito dei quali confrontarsi sui temi più caldi della vita sociale e politica del Paese.

Quindi il problema non è tanto creare un unico partito politico dei cristiani, quanto cercare un’intesa tra i vari partiti.

Il Libano è un Paese democratico e pluralista, quindi ben vengano diversità di opinioni e di vedute. Però ci sono due cose che ci uniscono: i fondamenti della nazione e i comuni obiettivi. Il Libano si fonda su alcuni principi politici che, fin dalla nascita dello Stato, ne costituiscono una costante mai venuta meno: cioè che il Libano è un Paese democratico, parlamentare, basato sulla convivenza tra musulmani e cristiani, sui diritti dell’uomo, sulla libertà, sul patto nazionale che vede cristiani e musulmani partecipare in maniera egualitaria alla gestione della cosa pubblica. Questi sono i fondamenti del nostro Paese, indispensabili proprio per la natura della nostra nazione: perché in Libano, data la presenza storica di cristiani e islamici, esistono due tradizioni diverse, due culture diverse e via dicendo. Per quanto riguarda gli obiettivi comuni, invece, s’intende: come conservare il Libano come entità statale, come conservare la sua identità e come agire per il bene comune e, per quanto riguarda in particolare i cristiani, come conservare la loro presenza nel nostro Paese. Per preservare i principi fondamentali del nostro Stato e per raggiungere tali obiettivi non si tratta di unificare le varie opzioni politiche, anzi. Si dice che «tutte le strade portano a Roma»: ben vengano le diversità di opinioni, di scelte politiche, di alleanze perché non c’è una fazione politica che possa pretendere di essere quella “vera”, tutte hanno un aspetto di verità. Il nostro compito è quello di favorire questo approccio costruttivo e non conflittuale.

Come si rapporterà il patriarca con Hezbollah?

In passato esisteva una Commissione in cui il Patriarcato ed Hezbollah dialogavano sui problemi del Paese, ma questo confronto proficuo si è fermato. Quando, dopo la mia elezione, una delegazione di Hezbollah è venuta a rendere omaggio al nuovo patriarca, ho detto loro che si doveva riprendere il dialogo, in particolare attraverso il ripristino di questa Commissione, perché non possiamo lasciarlo cadere nel vuoto. I conflitti tra uomini, tra gruppi nascono da incomprensioni o pregiudizi. Non è che dobbiamo dialogare su tutte le scelte politiche, però ci si può provare a chiarire su molti punti. In passato, riguardo a Hezbollah, c’è stato il problema della natura di questo partito perché, in particolare, c’era chi non accettava che possedesse delle armi. Oggi, però, tale discussione si è esaurita, perché sterile. Adesso si parla di strategia comune di difesa, cioè di come il Libano debba organizzare il possesso e l’uso delle armi. Non è accettabile il fatto che Hezbollah possa usare le armi quando vuole, possa dichiarare guerra o trattare la pace con Israele senza nessun rapporto con il governo del Paese. Si parla allora di una strategia di difesa che riguarda insieme lo Stato, Hezbollah, l’esercito regolare, le milizie di Hezbollah e così via. Non siamo ancora arrivati a un chiarimento sul punto, però il concetto è stato accettato un po’ da tutti. Al contrario, invece, è stata rifiutata al cento per cento la tesi secondo la quale Hezbollah dovrebbe consegnare le armi. È una richiesta che non può essere accettata e, tra l’altro, rende critico il rapporto con Hezbollah. Dobbiamo confrontarci, anche per ottenere garanzie sul fatto che Hezbollah non usi le armi sul piano interno, per rivalersi sui propri avversari politici, né dichiari guerra a Israele a prescindere da ogni riferimento al legittimo potere libanese. Non è accettabile uno Stato dentro lo Stato. Sono temi che sintetizziamo con l’espressione “strategia comune di difesa”.

Più volte ha parlato dell’importanza della convivenza tra cristiani e musulmani in Libano...

La convivenza nel nostro Paese è stata sancita con il Patto nazionale del ’43, quando musulmani e cristiani hanno espresso due negazioni: no all’Oriente e no all’Occidente. Vuol dire che i musulmani libanesi non possono lavorare a un processo di integrazione con la Siria o con qualsiasi altro Paese arabo a regime islamico, né i cristiani con l’Occidente e, nello specifico, con la Francia. Allo stesso tempo i musulmani hanno rinunciato a ogni pretesa riguardo alla possibilità di instaurare una teocrazia islamica mentre i cristiani, a loro volta, hanno rinunciato al laicismo di stampo occidentale. Così in Libano si è costruito uno Stato che è una via di mezzo tra la teocrazia orientale e i regimi secolarizzati occidentali. È un Paese civile, che rispetta la dimensione religiosa di tutti i cittadini; non può essere imposto un sistema teocratico, né una religione di Stato. La convivenza tra cristiani e musulmani è stabilita dalla Costituzione, la quale afferma, all’articolo 9, che il Libano è un grande omaggio a Dio, rispetta tutte le religioni, riconosce i loro statuti, garantisce la libertà religiosa e la pratica religiosa di tutti. Lo Stato libanese non legifera in materie che riguardano la religione, in materia di matrimonio o altro, come invece accade in Occidente dove si fanno leggi in contrasto con la legge naturale: ad esempio, quella sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. In queste materie le diverse comunità religiose hanno una loro autonomia legislativa.

Reputa che il Libano sia un esempio virtuoso di convivenza anche a livello internazionale?

Certo. Vediamo che in Occidente la religione è messa da parte e questo l’islam non può accettarlo. D’altro canto vediamo come nel mondo orientale si siano instaurati sistemi politici in cui la religione ha un’importanza fondamentale, ma chiusi. E ciò riguarda sia i Paesi islamici che Israele. In Libano, invece, c’è uno Stato democratico, pluralista, che rispetta la dimensione religiosa di tutti i cittadini e i diritti dell’uomo. È la bellezza del nostro Paese, che ha fatto affermare a Giovanni Paolo II che il Libano più che una nazione è un messaggio e un esempio, un esempio virtuoso per l’Oriente rispetto ai regimi fondati sulla religione, e per l’Occidente rispetto a sistemi politici informati alla secolarizzazione.

Qual è la sua opinione sui movimenti di rivolta che si stanno propagando nei Paesi arabi e che, tra l’altro, toccano un Paese, come la Siria, molto importante per il Libano?

Il problema è complesso. In Siria governa una minoranza alawita, mentre la grande maggioranza dei musulmani siriani è sunnita. I sunniti, che non sono affatto fondamentalisti, governavano il Paese prima che arrivassero gli Assad e ora chiedono riforme... In Egitto invece ci sono i Fratelli musulmani che possono dare un’impronta fondamentalista al nuovo corso politico. Bisogna considerare che l’islam è dilaniato da diversi conflitti: tra sciiti e sunniti in Iraq e altrove, tra alawiti e sunniti in Siria in altri Paesi. Non so dove porterà tutto questo, ma è preoccupante: c’è il pericolo che in qualcuno di questi Stati s’instauri un regime islamico fondamentalista o un regime dittatoriale peggiore dei precedenti; oppure che si giunga alla partizione di questa regione in piccoli Stati confessionali, secondo quello che alcuni osservatori internazionali chiamano “progetto per un nuovo Medio Oriente”. Il futuro è incerto. Noi auspichiamo che questi Paesi trovino la pace nel rispetto dei diritti umani dei popoli, perché sappiamo che quelli che sono stati messi in discussione sono regimi di impronta dittatoriale, nei quali vigono un sistema politico-religioso chiuso e il partito unico. Sono Paesi con grandi risorse, ma le cui ricchezze non sono distribuite e in cui la gente è molto povera. Tutte queste rivolte, queste manifestazioni di massa sono state condotte, generalmente, senza armi, con Facebook: è gente che reclama i propri diritti e libertà. Alcuni Paesi hanno fatto le riforme, altri non le hanno fatte. Dove non si è trovata una risposta positiva alle attese della gente, la situazione va peggiorando e questo ci preoccupa sempre di più, anche perché questa crisi si ripercuote molto negativamente sulle comunità cristiane, com’è avvenuto in Iraq, perché purtroppo a subire le conseguenze di certe situazioni sono i cristiani. Siamo molto preoccupati anche per il Libano, che si trova in questo ambito e risente di tutte queste crisi. Noi ci rivolgiamo alla comunità internazionale perché aiuti questi popoli.

L’ultima domanda riguarda la pace tra Israele e Palestina…

All’origine di tutte le crisi e di tutti i problemi del Medio Oriente c’è il conflitto israelo-palestinese. È il “peccato originale”, la matrice che nutre tutte le crisi della nostra regione. Purtroppo la comunità internazionale non sta agendo come dovrebbe: bisogna applicare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, a cominciare da quella che prevede il ritorno dei profughi nella propria terra. L’Onu è stata creata per favorire la pace nel mondo e invece non fa nulla, perché, purtroppo, è ostaggio delle grandi potenze. I palestinesi devono avere il loro Stato e i profughi devono poter far ritorno alla propria terra. Il Libano ospita mezzo milione di profughi su un totale di quattro milioni di abitanti, un numero esorbitante... Una presenza che costituisce un problema per la sicurezza, dal momento che hanno armi e le usano al di fuori di ogni controllo, ma anche un dramma politico e sociale. I conflitti che hanno tormentato il Libano, dal ’75 fino ad oggi, sono stati causati dalla presenza di questi profughi, che premono per tornare nelle loro terre. Se si risolvesse questo conflitto anche Hezbollah perderebbe la sua ragion d’essere... È che le grandi potenze giocano sulla sorte dei popoli. Basta vedere quel che è successo in Iraq, dove si è intervenuti, si è detto, per instaurare la democrazia e, in un decennio, sono state uccise più persone di quante ne abbia mai uccise Saddam Hussein...

© Copyright 30 Giorni, giugno 2011

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