lunedì 30 maggio 2011

«Le domande di un "padre" nello spazio». L'astrofisico Marco Bersanelli ci racconta perché il dialogo di Benedetto XVI con gli astronauti è «raro e straordinario» (Stoppa)

«Le domande di un "padre" nello spazio»

di Alessandra Stoppa

27/05/2011 - La responsabilità dello scienziato, la solitudine dell'uomo. E quell'attenzione per "ciascuno" nell'immensità dell'universo. L'astrofisico Marco Bersanelli ci racconta perché il dialogo di Benedetto XVI con gli astronauti è «raro e straordinario»

«Come hai vissuto questo tempo di dolore?». Lassù, lontano dalla Terra, oltre l’atmosfera. All’astronauta Paolo Nespoli è morta la madre mentre lui si trovava sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Il 21 maggio Benedetto XVI si è collegato con l’equipaggio, un dialogo unico nella storia, e ha rivolto a Nespoli quella domanda. Ha fatto solo domande. Niente raccomandazioni. Nessuna spiegazione. «Non si è messo a fare discorsi, ma è stato lui a chiedere, autenticamente curioso e interessato alla loro esperienza per quella che è», spiega a Tracce.it Marco Bersanelli, docente di Astrofisica all’Università degli studi di Milano e collaboratore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. Nell’“udienza spaziale” il Papa ha ascoltato che cosa significa vedere «la Terra appesa nel nero dello spazio» e l’atmosfera, «fina come un foglio di carta», che è tutto quello che ci separa dal vuoto cosmico. Ha saputo che da lassù il nostro pianeta è «di una bellezza che cattura il cuore» e fa pensare che «ci troviamo lì, tutti insieme, nella corsa di questa fragile oasi attraverso l’universo», come hanno detto gli astronauti.

Nel dialogo, il Santo Padre sottolinea molto il punto di vista straordinario da cui questi uomini guardano la realtà. Soprattutto, si rivolge a loro come «nostri rappresentanti, la punta avanzata dell’umanità che esplora nuovi spazi e nuove possibilità per il nostro avvenire». Che peso ha questo “riconoscimento”?

Questo accento del Papa non solo è molto bello, è anche pertinente alla più profonda autocoscienza che uno scienziato può avere di sé. Chi fa il mestiere della ricerca scientifica si trova nella condizione di essere in qualche modo “mandato” dall’umanità a cui appartiene. Ha il privilegio di fare certe cose (esplorare lo spazio, studiare i confini dell’universo o qualunque altro aspetto della natura) con lo scopo di rispondere a domande che sono ultimamente domande di tutti, per un bene che è di tutti, non solo per saziare la propria curiosità. E’ appunto “rappresentante” di un popolo che gli affida questo compito. Il problema è che oggi questa consapevolezza è spesso debole o assente. Questo accento del Papa è prezioso perché riporta alla luce la vera natura di questo tipo di lavoro.

In che senso non c’è più questa percezione di un mandato, di essere - appunto - «rappresentanti»?

Nel mondo della ricerca spesso ci si concepisce chiusi nel cerchio degli obiettivi da raggiungere, della competizione, della specializzazione. È quasi un sotto-mondo in cui uno può spendere tutta la sua vita. Così si fa leva sulla propria curiosità e intelligenza, ma normalmente prevale un senso di solitudine. Non ci si sente più “rappresentanti” di nessuno.

Perché?

Perché si è perso il legame con la domanda di tutti. Ne è un esempio il fatto che raramente gli scienziati hanno il gusto di raccontare a tutti il senso e la bellezza di ciò che scoprono.

E come mai si è attenuato questo nesso con “il popolo”? Riguarda una concezione dell’uomo e del suo lavoro?

La solitudine di cui parlo non è solo una condizione dello scienziato, ma è la condizione tipica dell’uomo moderno. E’ l’esperienza stessa di essere parte di un popolo, di appartenere a qualcosa, che si è rarefatta. Non ci si accorge che tutti gli uomini hanno lo stesso cuore, che se una domanda è vera, allora è vera per ogni uomo. Si separa la possibilità della conoscenza dall’alveo umano in cui la ricerca comincia, e in cui deve tornare. In questo modo, lo scienziato è abbandonato alla propria momentanea genialità. Il Papa, chiamando loro «rappresentanti dell’umanità», ci mette di fronte alla possibilità di un’esperienza di noi stessi e del lavoro più completa, più piena.

Colpisce che sia lui a rivolgere le domande.

Anche questa è una rarità. Il Papa entra in questo dialogo mettendo al centro l’esperienza degli astronauti: pone domande, ascolta. E sono le sue domande che danno forma al tutto. Siamo abituati a un cliché culturale dove ci si esprime per definizioni e contrapposizioni. Invece qui, al posto di porre considerazioni o concetti astratti, il Papa usa un’altra chiave: s’intrufola nell’esperienza della singola persona. Questo dialogo mostra che il metodo conoscitivo più diretto e originale è la comunicazione dell’esperienza. In ambito scientifico questo è quanto mai inusuale…

Sembra schizofrenica la condizione del mondo scientifico che lei descrive: l’esperienza del singolo poggia tutta sulla propria intelligenza, ma contemporaneamente non è considerata degna…

Questo perché c’è una separazione fra il contenuto del conoscere e l’esperienza del conoscere.

Cioè, tra l’oggetto che si conosce e l’uomo che lo conosce?

Da una parte, c’è il “sapere”; dall’altra, io che conosco. Così il sapere resta astratto. Mentre la verità è un rapporto amoroso, ha una dimensione affettiva, che viene negata, svuotata da questa separazione: non c’è un io che dice “stella”, “galassia”, “elettrone”, c’è invece solo il dato bruto della stella, della galassia, dell’elettrone. Il soggetto umano è irrilevante. È questo il clima prevalente nelle nostre università, nelle nostre scuole, quello in cui fissiamo il pensiero.

Perché la posizione del Papa sfida questa deriva?

Perché lui si rivolge alla loro esperienza di uomini e di scienziati senza ombra di frattura. Ha curiosità e aspettativa per ciò che il loro lavoro di astronauti può ottenere, e al tempo stesso ha stima e cura per la singola persona. E questo fa rivivere l’uomo come protagonista del proprio lavoro. Si capisce molto bene che entra in rapporto con loro non in modo generico, ma personale. Questo è straordinario.

Tanto che arriva a preoccuparsi dei loro problemi famigliari: chiede a Nespoli della morte della madre e a Mark Kelly della moglie ferita in un attentato. Che cosa significa quest’attenzione del Papa?

In essa traspare tutta la sua concezione dell’uomo: nell’universo, ciascun uomo è unico. Quegli astronauti sono appena fuori dall’atmosfera, ma se anche fossero a milioni di anni luce da qui non cambierebbe nulla. Il Papa parla a loro personalmente, nella loro unicità. Questo immediatamente ti fa chiedere: che cosa sono milioni di anni luce nello spazio quando l’uomo, ogni suo respiro, è rapporto con l’infinito? Non sono nulla. L’attenzione del Santo Padre fa emergere il paradosso che è l’io di ogni uomo nell’universo: la nostra piccolezza e insieme il nostro essere rapporto con l’eterno.

E perché questo dialogo tra il Papa e gli astronauti è importante per lei?

Perché l’avverto come un esempio semplice e splendido del cuore che lui ha per ciascuno di noi. La cura e lo sguardo che dimostra per quegli uomini nello spazio è lo stesso che ha per ogni uomo sulla Terra, per ognuno di noi. Che è il tratto inconfondibile dello sguardo di Cristo.

http://www.tracce.it/default.asp?id=371&id_n=22358

1 commento:

Anonimo ha detto...

Nuove accuse di insabbiamenti di abusi sessuali tra i Luterani in Germania.
http://www.kath.net/detail.php?id=31636
Alberto